Primavera di fuoco: Las Fallas de Valencia

La Valencia della Paella (vedi articolo “Paella”) è anche la Valencia de Les Falles, in castigliano Las Fallas e in termini più afferrabili: la grande Festa di primavera.

Indimenticabile estate di molti anni fa: aulica Ciutat de les Arts i les Ciències (Città delle Arti e delle Scienze) maestosamente sdraiata nell’antico letto prosciugato del fiume Turia e verde paradisiaco del Jardì botanico (Orto botanico).

Ho ancora presente la dolce intimità della villa appartata e discreta, affacciata sulla spiaggia Malvarrosa: la casa dove Vicente Blasco Ibáñes (1867 – 1928) amava scrivere e dove compose il romanzo Cañas y barro (Canne e fango).

Ricordo l’inconsueto Museu Faller (Museo Fallero) che conserva da nove decenni le figure di legno e cartapesta esonerate dal rogo, i “ninots indultats”(personaggi risparmiati dal fuoco).

…E già, le fantasiose creazioni in legno e cartapesta! A Valencia ero arrivata d’agosto e l’unica traccia tangibile della festa primaverile rimaneva custodita all’interno del Museu Faller, un antico convento trasformato in prigione militare prima di essere adibito a museo nel 1934.

Le Fallas si svolgono ogni anno durante il mese di marzo; le ore comprese tra i giorni 16 e 19 segnano l’acme della Festa e concludono i festeggiamenti. L’emergenza Covid ha costretto i valenciani a troncare l’edizione 2020, il 10 marzo. Sempre per ragione di pandemia,  la manifestazione del 2021 è slittata a settembre in forma ridotta, dal 1 al 5 settembre. Nel 2022, seppure con tante mascherine, la Festa ha ripreso appieno il vigore della sua tradizione. La primavera 2023 sta per sfiorire; prima che abbia perso l’ultimo petalo, tuffiamoci nell’universo folcloristico e gargantuesco delle Fallas!

FALLA: Fuoco

La parola “Falla” proviene dal lessico mozarabo usato dai valenciani del Duecento; la sua radice latina “facula le trasmette il significato di torcia che per estensione acquista il senso di rogo e di fuoco.

Di falò a Valencia, se ne parla nelle Cronicas del rey Jaime I (del re Giacomo I, vissuto dal 1208 al 1276). Venivano accesi in occasione di eventi solenni o durante alcune feste: per celebrare la nascita di un principe, salutare l’arrivo di un monarca nella città, commemorare una vittoria. Si incendiavano le “alimaras”, specie di torce giganti conficcate nel terreno che proiettavano le loro fiamme lontano dal suolo, per festeggiare, illuminare o avvertire i naviganti della prossimità delle coste. Fiamme in cima alle torri d’un castello segnalavano un pericolo imminente, comunicavano l’inizio di un’invasione. Come rito purificatore e propiziatorio, si accendevano roghi per la Quaresima, Pasqua, San Juan e la Vigilia di Ognissanti. Nel Cinquecento, fuochi in onore del protettore della città, il diacono di Saragozza San Vicente Martir, ardevano in recipienti  di ferro chiamati “graelles”.

Nel corso della sua storia, Valencia ha sempre colto l’occasione di accendere falò. I fuochi delle Fallas non derivano da tradizioni medievali regali o religiose; le loro radici sono meno profonde. Nascono nel XVIII sec. da un’usanza germogliata nel Barrio del Carmen, un quartiere ubicato nel cuore della città che prende il nome da un convento del Duecento oggi sede museale, il Museo del XIX secolo. Le Fallas traggono la loro origine da una consuetudine sviluppatasi proprio nel quartiere popolare del Carmen in seno a una particolare corporazione.

Alla fine dell’inverno, i falegnami valenciani erano soliti bruciare i pezzi di legno inutilizzabili per fare spazio nelle loro botteghe. Di concerto, avevano stabilito di mandare in fumo tutti i loro scarti di lavorazione la sera del 18 marzo, vigilia del giorno di Sant Josep (San Giuseppe), santo protettore della loro attività. Nulla di ben straordinario, mi direte. Giusto! Sennonché i loro mucchi di legna da bruciare avevano una caratteristica: erano sormontati da un palo a cui un’asse perpendicolare inchiodata nella parte superiore, dava l’aspetto di croce asimmetrica. Simbolo religioso? Niente affatto! Questa semplice struttura lignea potrebbe essere catalogata come l’antesignano della lampada da lavoro. In effetti, nei periodi autunnale e invernale, da San Miguel (29 settembre) a  San José (19 marzo),  i falegnami di Valencia sopperivano alla scarsità di luce naturale con una lampada a olio “candil” montata su un treppiede di legno “parot” o “estai”. Allo sbocciare della primavera, diventato ormai inutile, il parot finiva nella falla(fuoco)di San Giuseppe insieme agli altri scarti di bottega. Progressivamente, i roghi dei falegnami s’ingrossarono con oggetti in disuso, attrezzi rotti, vecchi mobili di cui la gente del quartiere voleva sbarazzarsi. Poi, qualcuno ebbe l’idea fantasiosa di vestire il parot a mo’ di spaventapasseri. Così, nacque il primo fantoccio della storia delle Fallas: il ninot.

Ispirato al disegno del cronista fallero Soler Godes

NINOT: Statua effimera

Dal vecchio cappello, dalla giacca logora e dai pantaloni ripieni di paglia, il personaggio delle Fallas si è man mano scostato per assumere sembianze umane sempre più elaborate. Comunque, il primordiale ninot “spaventapasseri” è il capostipite delle festes de Sant Josep; è il fulcro intorno al quale si sono imperniate le festività che segnano l’inizio della primavera. Basti trasformare il mucchio di scarti e cianfrusaglie in una struttura portante e permutare il ninot unico con un’accozzaglia di statue policrome, per spiegarsi le fallas, i monumenti scenografici dei giorni nostri. Rileviamo lo slittamento di significato subìto dalla parola falla: il primitivo “fuoco della  festa” ha lasciato il suo nome al “monumento artistico” che ne deriva.

All’inizio, i manichini erano rudimentali sia nella forma che nell’abbigliamento. Con l’ausilio di maschere utilizzate a febbraio durante il Carnevale, si cercava di vivacizzare queste rigide figure improvvisate, vestite di stracci. Più tardi, con carta e cartone, furono appositamente realizzati maschere, indumenti, capelli e copricapi allo scopo di rendere il fantoccio più singolare. Documenti attestano la comparsa dei ninots nel Settecento: all’epoca, il personaggio era esposto da solo sopra un gran cubo decorato che cingeva interamente la catasta di legna, sottraendola alla vista.

Nell’Ottocento, il falò semplice (catasta a vista senza personaggio) si eclissò gradualmente a favore del falò con personaggio. Al massimo in tre sullo stesso palco, i fantocci rappresentavano alcuni abitanti del quartiere che si voleva prendere in giro. Oggi, le fallas contano decine di ninots; in alcune se ne possono addirittura enumerare un centinaio.

Dalla fine del XIX secolo alla metà del XX secolo, i ninots avevano fattezze realistiche. Con abiti di stoffe e visi di cera, sembravano veri. Talvolta riproducevano i tratti di un noto personaggio del momento ma di solito erano anonimi. Pietrificati in una posizione eloquente, si lamentavano dell’amministrazione locale, contrastavano certi comportamenti oppure omaggiavano un artista; potevano altresì illustrare certe peculiarità della tradizione valenciana, alcune disfunzioni dei servizi, qualche carenza delle infrastrutture… Per citare un esempio, nel 1928 in Plaza Mariano Benlliure fu installato un monumento che puntava il dito sull’inadeguatezza dei trasporti. In un’epoca in cui l’aviazione compiva rapidi progressi, Valencia non aveva ancora un aeroporto e le sue tranvie erano antiquate e logore. La falla era intitolata “Di Valencia a New York sulle ali di una libellula” (De València a Nova York en les ales d’un parot) e raffigurava una libellula gigante in procinto di sollevare una perrera, vecchia tranvia valenciana, colma di passeggeri, pronta a sorvolare l’Atlantico.

Dalla seconda metà del XX secolo perde importanza la ricerca maniacale dei dettagli che mira ad ottenere pupazzi sempre più fedeli alla realtà. Sulla scia di artisti come Juan Huertas e Modesto González, inizia l’era dei ninots detti grotteschi che, volutamente deformati, veicolano pungenti messaggi satirici. Scema l’attenzione a una resa quasi fotografica dei personaggi. Vanno invece alla grande, le caricature. Con le loro ipertrofie fisiche e i loro atteggiamenti sgarbati, esse sottolineano e deridono aspetti negativi della società; sono efficaci nel ridicolizzare politici controversi o riprovevoli.

L’ultimo giorno delle festività, belli o brutti che siano, i ninots sono destinati al rogo. La tradizione impone che scompaiano irrimediabilmente nello stomaco incandescente della pira. Però, nel corso dei decenni si sono evoluti, sono diventati opere d’arte; non sono più i bambocci rozzi e banali degli albori. È un vero peccato vederli tutti svanire nel fumo e trasformarsi in ceneri. Ci vorrebbe un ricordo materiale, anche modesto, per offrire alla città una traccia del loro passaggio. Sarebbe emozionante conservare ogni anno una testimonianza tangibile per scandire la loro storia e concretizzare la loro evoluzione. Nel 1924, l’idea di strappare un ninot al gran rogo primaverile venne a galla ma fu allontanata con ritrosia e sospetto: era uno sgarbo alla tradizione; un’infedeltà al significato profondo della festa.

E se salvare dal rogo un solo ninot equivalesse a salvarli tutti? Questo pensiero trainante indusse l’artista Regino Mas Marì (1899 – 1968), membro eminente dell’Associazione degli Artisti falleri, a mobilitarsi. Nel febbraio 1934 convinse la municipalità a organizzare la prima exposició del Ninot, una mostra in cui ogni falla mandò un ninot in ambasceria.  Regino Mas voleva fare eleggere ai suoi concittadini, un personaggio da salvare… e ci è riuscito; si merita il soprannome di “padre del Ninot indultat por votación popular”. Da allora, ogni primavera, “l’indult del foc” ossia il ninot graziato da uno scrutino popolare, fa la sua entrata al Museu Faller in Plaza de Monteolivete.

Nel museo, oltre ai ninots indultati, confluiscono le fotografie delle fallas migliori e i cartelloni, destinati a pubblicizzare la festa, usciti vincitori del concorso annuale indetto dal 1930. Sempre lì, trovano posto i Llibrets cioè, opuscoli stampati che esplicitano il tema sviluppato da ogni singola falla. La loro origine risale agli estrosi foglietti informativi incollati ai lati dei palchi: una prosa rimata indicava quale abitante di Valencia si celava dietro al ninot esposto ovvero, chi era il valenciano preso di mira dalla gente del suo quartiere. A metà Ottocento ebbe inizio la vendita dei libretti. “Cinc céntims val el llibret!” vociava il ragazzo che, intorno alla falla, distribuiva il quadernetto di spiegazioni. Col tempo, il llibret si è conservato ma ha cambiato aspetto: oggi è stampato in versione lussuosa e infarcito di annunci pubblicitari.

2018 Ninot indultat

Regino Mas non si limitò a sottrarre ogni anno un ninot alle fiamme; fu convinto sostenitore del progetto per una Ciudad del Artista Fallero. Che sarebbe a dire? Semplicemente, ha appoggiato insieme ad altri, l’idea di raggruppare in un punto della città officine specializzate nella costruzione dei monumenti falleri cioè, delle fallas. Lo ha promosso con l’intento di migliorare le condizioni di lavoro degli operai del settore. La “Città dell’Artista creatore di fallas” non è rimasta né un nome ideale, né un sogno irrealizzato. Ha cominciato a concretizzarsi nel Barrio de Benicalap il 17 marzo del 1965, giorno in cui è stata posta la prima pietra del progetto. Lì si sono stabiliti la maggior parte degli hangar al cui interno si realizzano le opere; lì è stata edificata una scuola professionale che prepara al mestiere di costruttore di fallas e sempre lì, nel 1992, si è inaugurato il Museo del Artista Fallero che, fra altre cose, si propone d’illustrare le tappe di fabbricazione di un ninot.

FALLER: Artista

Basti pensare alla maggiore competenza degli artefici per capire il palese salto di qualità avvenuto fra i primi ninots e quelli attuali. Quanta distanza tra i creatori occasionali di pupazzi raffazzonati e gli odierni creatori professionisti di opere monumentali intricatissime! Ebbene sì, fabbricare oggi pupazzi per la festa di Sant Josep è un lavoro da specialisti, un vero mestiere, un’arte.

Uno dei primi artisti a metterci lo zampino fu il pittore Antonio Cortina Farinós (1841 – 1890) che eseguì disegni preparatori di fallas, a fine Ottocento.

Nel 1903 venne esposta sulla Plaza de Toros la prima falla concepita in modo artistico. Non rimase inosservata: al posto di maschere e guanti che facevano finallora parte del corredo dei pupazzi di marzo, l’artista García Mas si era dilettato a modellare visi e mani in cera. La sua innovazione piacque e conquistò il brulicante mondo dei ninots. Fino a metà Novecento, l’impiego della cera si diffuse e predominò nella realizzazione delle teste e delle mani. Il progressivo abbandono di questa pratica iniziò nel 1940 con l’introduzione della cartapesta nella fabbricazione delle fallas.

I personaggi di cartapesta sono delle vere e proprie sculture.

Dopo aver modellato il ninot in scala ridotta, l’artista lo riproduce in argilla a grandezza reale; quindi, ricopre la nuda figura di creta con un manto di gesso liquido. Una volta asciutta, la bianca veste è tagliata lungo la sua linea mediana e si apre come un guscio di noce separandosi dal nucleo argilloso che ricopriva: è nato lo stampo. È il momento di applicare strati di carta misti a colla, sulle pareti interni dei due mezzi gusci bianchi. Al termine dell’asciugatura, le due impronte cartonate si staccano facilmente dal gesso; bisogna allora assemblarle in modo da restituire la figura a tuttotondo, poi limare la giunzione per renderla invisibile e infine, colorare la statua di cartapesta che prenderà vita pennellata dopo pennellata. Il personaggio così ottenuto non vive isolato; è collocato su un’armatura di legno che costituisce l’ossatura di una costruzione gigantesca: la falla.

Dagli anni ‘80 molte statue sono estratte da un materiale leggero e compatto che cerca di fare dimenticare la sua reale composizione dietro a un nomignolo ingannevole: “ sughero bianco”. Si tratta purtroppo di un prodotto assai poco ecologico e per niente naturale : il polistirolo espanso.

FALLA: Edificio di ninots

Considerate le molteplici fasi della sua costruzione, è improbabile che la  falla sia opera di un artista unico. In effetti, costruire una falla è lavoro di squadra; è impegno collettivo che richiede la partecipazione di un disegnatore-umorista, di un pittore-scultore, di carpentieri-architetti, decoratori, artigiani, trasportatori, gruisti…

Sono ormai trapassate le elementari fallas ottocentesche, frutto della breve collaborazione di una manciata di amici burloni e collocate di notte in fretta e furia per le vie della città, senza autorizzazione. All’epoca, simili bravate infastidivano e si cercò di ostacolarle: i ceti alti, che consideravano di cattivo gusto queste spontanee manifestazioni popolari, provarono a bloccarle. Pensate un po’, le fallas hanno rischiato l’estinzione! Nel 1851, la municipalità si avvalse del diritto di censurare i temi che trattavano e impose una tassa di 5 pesetas per il loro innalzamento sul suolo pubblico. Quelle che non avevano ottenuto i dovuti permessi venivano immancabilmente smantellate dalle autorità municipali. Nel 1885, in conseguenza dell’aumento della contribuzione obbligata, fu installata una sola falla e l’anno successivo non ne fu esposta nemmeno una: i falleros si rifiutarono di pagare la somma esosa di 60 pesetas. L’anno seguente, cioè nel 1887, l’imposta fu abbassata a 10 pesetas e la rivista satirica “La traca” attribuì dei premi alle migliori opere. Dal 1892  le fallas non furono più incendiate la sera del 18 marzo, bensì il giorno stesso di San Giuseppe: la festa era cresciuta di un giorno.

Falla mayor tema : Parigi

Superato l’intoppo, le fallas ringalluzzirono: ridussero progressivamente il palco iniziale fino a sopprimerlo, acquistarono dimensioni sempre maggiori e assunsero in fondo un aspetto carnevalesco. Sì, ma sono qualcos’altro dei carri allegorici di Carnevale che, in sostanza, mettono in mostra una caricatura gigante dal volto ilare o minaccioso, oppure accostano due o tre facce ingigantite e sghignazzanti. Le fallas sono diverse: moltiplicando i personaggi, ci raccontano una storia. Le loro misure sono impareggiabili. Hanno potuto espandersi in larghezza e in altezza giusto appunto perché non hanno necessità di adeguarsi alla superficie dei veicoli che le trasportano: non sfilano. Vengono fissate al terreno, collocate come degli edifici e hanno così tutta libertà di crescere a dismisura. La falla più alta mai concepita fu installata nel 2001 Plaza Na Jordana; misurava 33 metri. Come un albero maestro, l’imponente corpo centrale del monumento, chiamato remate, sovrasta la scena occupata da gruppi vivaci di ninots che, con i loro atteggiamenti e gli oggetti di cui sono circondati, esplicitano il tema scelto.

Falla infantil tema : il mercato

Strada facendo, oltre a diventare colossali, le fallas hanno visto continuamente gonfiare la loro popolazione: da 29, registrate nel 1887, sono passate a 370 gli ultimi anni del XX secolo. Oggi se ne contano 392. La saturazione dello spazio urbano di Valencia impedisce un ulteriore aumento del loro numero: in altre parole, non c’è più posto per installarne altre perché è stata raggiunta la densità massima accettabile. In realtà, le fallas superano di gran lungo le 392 unità visto che figliano: dal 1941, la già cospicua famiglia di fallas mayores si è accresciuta di fallas infantils che sono monumenti più piccoli. In principio nascevano dalla stretta collaborazione tra ragazzi e professori nel doposcuola. Oggi sono frutto del lavoro di un artista specializzato che di solito s’inspira a cartoni animati, giochi o racconti per bambini. Benché queste costruzioni appaiano mingherlini di fronte alle vertiginose composizioni scultoree degli adulti, da metà Novecento fanno parte a pieno titolo della Festa di Sant Josep. Da regolamento, non possono superare i tre metri di altezza o di larghezza ma per il resto, non sono vincolate e ricalcano l’andamento delle fallas maggiori: sono erette sulla carreggiata, partecipano a una premiazione e ogni anno, un ninot è messo in salvo tramite scrutino popolare. Ogni associazione impegnata nella creazione di una grande falla è tenuta a garantire l’edificazione di una falla più piccola.

COMISSIÓ: associazione

2009 Falla Nou Campanar

Non si frigge senz’olio; non si costruiscono fallas senza soldi e le ultime nate sono assai costose. Si passa da qualche migliaio a qualche decina di migliaia di euro per una falla infantil a centinaia di migliaia di euro per una falla mayor. Nel 2009, la falla di 28 metri del quartiere Nou Campanar che disertava con spirito critico sul tema della moda, ha inghiottito la somma esorbitante di 900.000 euro!...

L’interrogativo sorge naturale: donde arrivano i finanziamenti? Quando si pensa agli esordi, viene da sorridere. Un pugno di cittadini s’incontrava, progettava un manichino, lo costruiva in due balletti, sdraiava sulla carta qualche rima di spiegazione e quatto quatto, esponeva il tutto alla meno peggio in una via del rione.  Punto e fine.

Queste manifestazioni fantasiose e indisciplinate divertivano il popolo che ne diffuse l’usanza in tutta la città. Noncuranti dello sdegno dei colti e dell’occhio critico dei ricchi, i creatori di fantocci superarono gli intralci, si affermarono e si affinarono. Negli anni Trenta, intorno al tavolo di un cafetín (bar) o di una horchatería (mescita di orzata) gruppetti di appassionati discutevano temi da proporre e disegnavano bozzetti. Alcuni sostenitori si incaricavano di raccogliere una quota porta a porta presso gli abitanti del quartiere; i soldi servivano a pagare un artista e a comprare il materiale.

Oggi, la spontaneità e l’improvvisazione non fanno più parte del quadro; è scesa in campo la “comissió de falla” ovvero l’associazione fallera che raggruppa cittadini di uno stesso rione. I membri, detti fallers, si ritrovano una volta alla settimana in un casal, sede dell’associazione, con l’incarico di svolgere al meglio le pratiche imposte dall’amministrazione comunale: contratto con l’artista e con la banda musicale, partecipazione all’illuminazione scenografica della via principale e alla sistemazione dei giochi pirotecnici durante i festeggiamenti, iscrizione della falla sulla lista ufficiale… Comunque, durante i dodici mesi che intercorrono tra una falla e l’altra, il compito cruciale della comisione risiede nel tesaurizzare denaro per fare fronte alle ingenti spese. La colletta di una somma mensile porta a porta è ormai acqua passata e i premi attribuiti dalla municipalità sono irrisori. E allora, dove trovare i fondi? L’associazione ricava soldi dalle feste che allestisce, dagli spettacoli, concerti e conferenze che propone, dalle gite e dagli incontri sportivi che organizza; ma non è sufficiente. La parte del leone la fanno la vendita di biglietti per la lotteria, i doni generosi di benefattori e la sponsorizzazione da parte di grandi marche. Inoltre, tra febbraio e marzo, le entrate sono potenziate dall’ arreplegà: i cittadini versano un contributo volontario alla comisione del loro quartiere.

MASCLETA, FOC I TABAL: Voci delle Fallas

Non credete che le fallas siano le uniche protagoniste; il clou de Las  Fallas non è soltanto il momento in cui avviene il sacrificio dei monumenti di cartapesta. Una locuzione valenciana asserisce: “Sense foc, pólvora ni soroll no hi ha festa” ossia “Senza fuoco, polvere e rumore non c’è festa”. Uno spot alla Clooney potrebbe rendere l’idea: “No noise, no party!” Di sicuro, non mancano né fuoco, né polvere, né rumore alla grande Festa di primavera; sono presenti giorno e notte.

Dal 16 al 19, verso le otto del mattino irrompe il fracasso dei petardi: è la despertà che rende la sveglia superflua. Nella notte del 15 è stato completato la Plantà, l’insediamento delle fallas sulle piazze o nelle strade più larghe di Valencia. Non c’è da poltrire a letto; bisogna affrettarsi per andare a scoprire i monumenti: solo quattro giorni prima che svaniscano. Stringe il tempo. Sfilando per la strada, falleras e falleros scagliano contro il suolo dei “sigari mignon esplosivi” che scoppiano fragorosamente. Nessun dorma! Questi petardi senza miccia, chiamati trons de bac, non erano affatto destinati ad interrompere il sonno dei valenciani; all’origine servivano a spaccare grossi blocchi di pietra. Siccome non sono privi di pericolosità, la comunità europea ha pensato bene di intervenire regolandone l’uso: chi li adopera deve essere munito di una licenza che attesta il superamento di un apposito esame. I bambini usano petardi più piccoli e più innocui: le bombetas.

Esplosioni cadenzate e nebbia di polvere da sparo caratterizzano un breve e intenso spettacolo che inizia alle due del pomeriggio, dal 1 al 19 marzo. C’è grande eccitazione e altissima affluenza Plaza del Ayuntamiento (Piazza del Comune). Radunata ore prima, la folla aspetta febbrile che si scateni la Mascletà: una sparatoria musicale, un fracasso ritmato di sei minuti diretto ogni giorno da un maestro pirotecnico diverso, il mestre de traca. Non è l’unica mascletà della città ma è la più pregiata, la più gradita. “Masclet” proviene dalla parola valenciana mascle, cioè, “maschio”: forse per via della sua voce tonitruante. Originariamente indicava un petardo fatto di un piccolo contenitore di ferro colmo di polvere nera; oggi conserva questo nome benché la sua carica esplosiva non abbia più niente a che vedere con la polvere da sparo. Occorrono minimo cinque ore agli artificieri per il montaggio di una mascletà. Sì, avete capito bene: almeno cinque ore di preparazione per sei minuti di spettacolo! La calma prima della tempesta: alcuni pirotecnici si muovono adagio dentro l’imponente gabbia metallica che cinge la piazza. Fuori, all’entrata del recinto, altri hanno preso posto davanti alle centraline per poter distribuire con precisione gli impulsi elettrici che accendono gli esplosivi. Tutti stanno sul chi vive. All’interno della gabbia, lungo la rete, sacchi di sabbia immobilizzano razzi contenuti in grossi tubi neri. Attaccati a delle corde sistemate a due metri di altezza e occupando la maggior parte dello spazio, ciondolano centinaia e centinaia di petardi dall’involucro colorato: sembrano caramelle appese ai fili di uno stendino. Alle quattordici in punto, la Fallera Mayor, regina ufficiale della Festa, proferisce le parole d’ordine dal balcone del Municipio: “Senyor pirotècnic, pot començar la mascletà!”.

Adesso può incominciare il fragore “melodico”, la doccia d’adrenalina. Si tratta di produrre detonazioni perfettamente controllate in un crescendo indiavolato. Rombi potenti segnano l’inizio delle danze. Razzi s’innalzano sibilanti. Le tracas, cioè le collane di petardi, sussultano nel momento in cui le caramelle esplodono sprigionando colpi, carta e fumo prima di afflosciarsi al suolo come uccelli morti. L’intensità aumenta, il ritmo accelera, la nebbia infittisce. A tratti il rumore tocca 130 decibel. È consigliato tener la bocca aperta per non danneggiare l’orecchio. Allora, siamo tranquilli: basta dischiudere le labbra per mettere in salvo le orecchie. Sarà vero? Gli ultimi venti secondi sono assordanti. I botti sono così violenti da fare tremare suolo, edifici e partecipanti; così ravvicinati da creare un frastuono infernale: el terremoto final y el bombardeo último. Il fumo si è lanciato lungo le corde come una mandria di buffali al galoppo; in un baleno avviluppa completamente la piazza e si erge a volute biancastre verso il cielo. È finito. Scrosciano gli applausi entusiasti del pubblico.

Fino a metà Novecento, le tracas non erano prigioniere di una gabbia. Libere da qualsiasi recinto, formavano las tracas callejeras. Le corde di petardi erano attaccate, a mo’ di ghirlande, ai muri esterni dei pianterreni e ciondolavano per la strada. Si distendevano su chilometri lungo vie e piazze. Per godersi lo spettacolo degli scoppi, bisognava muoversi. Una volta la prima miccia accesa dal traquero, iniziava la corsa frenetica di quelli che volevano seguire il ritmo incalzante delle esplosioni. I cosiddetti “correfocs” correvano sotto le ghirlande scoppiettanti. Il prototipo della mascletà statica, il modello odierno, è nato nel 1945.

La normativa attuale impone di non superare 120 chili di miscela per la realizzazione di una mascletà. Facendo due conti, in Piazza del Comune, dal 1 al 19 marzo, vanno in fumo (120 x19) 2280 chili di esplosivi. Questo risultato è parziale; non dimentichiamo i chili usati per tutte le mascletàs sparate a mezzogiorno dalle varie commissioni, gli ultimi quattro giorni della Festa. Si calcola che, durante le festività, sono presentate più di mille mascletas a Valencia… Mi gira la testa!

Fin adesso ci siamo dilungati sulle esplosioni diurni ma quelle notturne non sono certo da passare sotto silenzio, anche perché si fanno sentire. La loro voce è meno forte, tuttavia ciò che perdono in clamore, lo guadagnano in colore e lucentezza. Ci siamo intesi: sto evocando il fuoco d’artificio, los castells de foc (i castelli di fuoco). Le quattro notti precedenti il 19 marzo sono costellate di spettacoli pirotecnici. La più fulgida è la notte del 18, la Nit de foc, che s’illumina con lo scoppio di 2500 chili di esplosivi sapientemente orchestrato per venti minuti dagli specialisti; la sua preparazione richiede dodici ore di lavoro. Da principio, le cariche erano più modeste e si potevano collocare senza eccessivo rischio nello spazio ristretto della Piazza del Comune. Dal 1985 il fuoco d’artificio è lanciato dalla parte nord dell’antico letto del fiume Turia, all’altezza del Passeig de l’Albereda (la Passeggiata dei pioppi).

La musica è del rumore che pensa” scriveva Victor Hugo. Nelle Fallas, il rumore pensa tramite due strumenti del folclore: la dolçaina, simile all’oboe, e il tabalet, piccolo tamburo. Il rumore pensa attraverso i clarinetti, i flauti, i tromboni, le trombette, i sassofoni di più di trecento bande musicali richiamate a Valencia per i festeggiamenti. Inoltre, dal 1929 il suo pensiero ufficiale è l’inno “El Fallero”, un paso doble composto dal maestro José Serrano (1873 – 1941) e messo in versi dal giornalista e regista Maximiliano Thous (1875 – 1947).

FALLERA MAJOR: Regina della Festa

Seppure gli artisti, i carpentieri, gli artificieri e i musicisti concorrano a formare un mondo poderosamente maschile, l’elemento femminile non è escluso dalle Fallas. Nel 1931, la prima elezione della Fallera Mayor, ossia della Regina della Festa, ha attribuito alla donna un ruolo di rappresentanza. Ogni anno la Reina de las Fiestas emerge da una lunga selezione che, iniziata a luglio, si conclude a ottobre. Come si svolge?

In un primo tempo, ciascuna comisione sceglie fra i suoi membri, una giovane donna (di almeno 15 anni) per rappresentare la sua falla mayor e una ragazza (sotto i 14 anni) per rappresentare la sua falla infantil : la prima diventa la fallera mayor e la seconda prende il nome di fallera infantil.

Le comisiones sono divisi in 26 settori in base a un criterio di prossimità; ogni settore raggruppa le comisiones che appartengono a quartieri della stessa zona. Fra le sue falleras  mayores e infantils, il settore individua, seguendo determinati parametri, quelle che si presenteranno alla selezione successiva. L’intento non è di eleggere Miss Valencia; non immaginiamo un concorso di bellezza dove le candidate devono rispondere a misurazioni canoniche. Entrano in gioco altri imperativi: le falleras, vestite con l’abito tradizionale della regione, sono valutate in rapporto alla raffinatezza del loro abbigliamento, alla loro presenza scenica, al loro portamento, al loro garbo. In effetti, lo scopo ultimo delle selezioni è di giungere a “un’ambasciatrice” aggraziata che incarni  il fascino di Valencia.

2023 Fallera Mayor e Fallera Infantil

La seconda fase, la elección de cortes, è diretta da una giuria formata da membri dell’ente coordinatrice, la Junta Central Fallera (formatasi nel 1939 in sostituzione al Comité Central Faller del 1928). Dopo alcuni giorni di attento esame delle 73 candidate precedentemente selezionate dai vari settori, la giuria trattiene 13 falleras mayores e 13 falleras infantils. Come vediamo, il cerchio si è  rimpicciolito in modo drastico. La terza fase si profila all’orizzonte.

Siamo a un tiro di schioppo dell’epilogo. Dopo aver osservato e messo a confronto le 26 finaliste per qualche giorno, la giuria prende la sua decisione. A una data stabilita nei primi di ottobre, viene richiesto alle 26 concorrenti di rimanere a casa; si devono tener pronte a ricevere una telefonata ufficiale. La consuetudine vuole che il sindaco di Valencia annunci il risultato alle vincitrici mediante una Telefonada. In seguito, il Municipio farà da scenario alla loro proclamazione ufficiale. Le 24 falleras scartate non sono eliminate: vanno a comporre la Corte de Honor della regina e della reginetta cioè, accompagnano la Fallera Mayor e la Fallera Infantil durante le festività.

In pratica, la Regina della Festa non esercita nessun potere; il suo titolo è simbolico. Per un anno, in qualità di rappresentante delle falleras e dei falleros di tutti i comitati valenziani, presiede vari eventi ufficiali sul territorio spagnolo. Ad ogni modo, la parte più impegnativa e faticosa del suo regno si svolge durante la Festa di Sant Josep. Marca della sua impronta le festività; impersona Valencia e onora della sua presenza ogni dì delle tre settimane falleres. Dall’alto delle Torres de Serranos pronuncia il discorso d’apertura e dall’alto del balcone del Ayuntamiento assiste alla distruzione della falla municipale che segna l’ultima fase dei festeggiamenti. Fa le ore piccole e si alza presto per truccarsi, pettinarsi e vestirsi. Indossare il costume tradizionale non è certo come infilare un paio di jeans e una maglietta! Bello sì, ma non comodissimo. Al pari della Fallera Infantil e delle 24 damigelle di corte, deve dedicare tempo alla vestitura.

Il suo abbigliamento ricalca più o meno il modo settecentesco di vestire delle valenziane i giorni di festa. Una camicia di lino, la camisa, scende a fior di pelle fino alle ginocchia. Dalla cintola, una sottogonna, las enaguas, crea volume intorno alla parte inferiore del corpo. Calze bianche di cotone, las medias, completano lo strato più intimo dell’abbigliamento. Sopra la camisa, un corpetto di seta allacciato sul davanti, modella il busto: è il jubón. Le maniche possono essere corte e concludersi al gomito con una svolazzante striscia di trina oppure proseguire fino ai polsi, inguainando l’avanbraccio. Portato a mo’ di scialle, la manteleta o pañuelo, ricopre le spalle di un candido tulle finemente ricamato. La falda o guardapiés si aggiudica il ruolo principale, anzi principesco. È la gonna esterna ritagliata in una stoffa di seta riccamente ornata di motivi floreali e vegetali. Se letteralmente “custodisce i piedi” (guardapiés), lo fa in modo lussuoso. Il leggerissimo grembiule di pizzo postole davanti, il delantal, non altera per niente la sua magnificenza; semmai le conferisce un’aria più domestica.

La descrizione sarebbe incompleta se si escludesse la particolare acconciatura della fallera. Al di là di una breve sosta sul collar, girocollo di perle e sui pendientes o “raims”, vistosi orecchini, il nostro occhio si sofferma incuriosito su una piccola aureola in cima alla testa e su due dischi appoggiati sotto le tempie. Cosa sono: una corona in stile minimalista e un paio di cuffie stereo schiacciate? Acqua, acqua … non ci siamo! La prima è la peineta, un gran pettine dorato di forma semisferica che si  inserisce nella parte superiore dello chignon intrecciato sopra la nuca, chiamato “monyo de darrere”. Le seconde sono due crocchie piatte, i rodetes o “rolls de monyo”, fissate in corrispondenza delle orecchie, forse per attutire il fragore delle mascletas. Ovviamente, sto scherzando. Le due crocchie si compongono di un cordone di capelli arrotolato su sé stesso a mo’ di girandola; richiamano un po’ il disegno del guscio di una chiocciola e perciò, vengono soprannominati “caragols” (ossia “chiocciole” in valenciano). Come lo chignon posteriore, hanno diritto a un pettine dorato, seppure più piccolo: la rasca moños”.

I giorni dell’Ofrenda de Flores, mentre le falleras sfilano a capo coperto, è facile individuare la peineta che spunta baldanzosa sotto il velo traforato della mantilla

OFRENA FLORAL: Omaggio alla Vergine

Ciò che costituisce oggi la sfilata più sentita della Festa, La Ofrenda de Flores, ebbe origine il 19 marzo 1941. Dopo la celebrazione della messa nella Basilica Virgen de los Desamparados - Vergine degli Abbandonati, un piccolo gruppo di donne in costume tradizionale, mantilla in testa, andò a deporre un mazzo di fiori davanti alla Madonna, patrona di Valencia. Il gesto piacque assai; fu ripetuto l’anno dopo e di nuovo, l’anno successivo. La mossa devozionale e inaspettata di queste valenciane innescò un rito destinato ad amplificarsi nel tempo. Anno dopo anno, l’Offerta dei Fiori richiamava un numero sempre maggiore di partecipanti. Dal canto loro, i governanti franchisti videro di buon occhio e appoggiarono l’innovazione che innestava un atto religioso su una festa chiaramente pagana. Nel 1947, quando La Ofrenda si trasformò in ceremonia ufficiale, non fece figura di “new entry”; sembrava quasi fosse da sempre appartenuta alla tradizione. Già l’anno precedente, 3000 membri di 150 comisiones falleras erano partiti dal Ponte di Aragona per portare i loro cesti fioriti nella Basilica della Vergine. Senz’altro, giuliva processione e gradevole spettacolo! Sennonché, imbarazzante problema di spazio: come sistemare tanti fiori all’interno della chiesa? Nel 1949 si escogitò un piano: presso la facciata della Basilica fu installato un alto cono ligneo dalla struttura a gratella, per esporvi i mazzi. Nel 1952 si ebbe conferma che la manifestazione piaceva davvero a Francisco Franco; il Caudillo ne diede una prova plateale facendo sfilare Carmen Polo, sua moglie, vestita da fallera.

Geperudeta

Da quando, nel 1970, gli sfilanti raggiunsero il numero cospicuo di 55.000, fu deciso di protrarre d’un giorno il corteo: da allora, non si è più svolto solamente il 17 ma anche il 18 marzo. E pensare che questi ultimi anni, la soglia dei 100.000 partecipanti è stata superata! Crescita inarrestabile? Chi dice aumento dei falleri, dice aumento dei fiori. Nel 1987 l’originario espositore floreale del 1949 andò in pensione; non bastava più. Lo sostituì un’effigia della Madonna col Bambino, alta 15 metri, ideata dall’artista José Azpeitia, chiamata con affetto “Geperudeta” (un po’ gobba) dai valenciani e collocata al centro della piazza. È tutt’oggi efficiente. Strana statua: il  corpo della Vergine, per così dire, non esiste; la sua testa è sorretta da un’intelaiatura lignea di forma conica che pare il risultato dell’assemblaggio di fitte scale a soppalco. L’aspetto estetico conta poco; la costruzione deve in primis rispondere all’esigenza di collocare i mazzi. Come lillipuziani sul corpo di Gulliver, alcuni falleri si arrampicano sulla struttura per inserirvi i fiori raccolti. A poco a poco, i garofani bianchi, rosa e rossi offerti dalle falleras, riempiono gli spazi vuoti e tessano alla Madonna un lungo manto profumato; il disegno floreale non è improvvisato, è prestabilito dalla Junta Central e cambia ogni anno.

Dalle 15:30 fino al 1:00, serpeggia adagio l’interminabile corteo attraverso calle de la Paz, calle San Vicente, Plaza de la Reina. Donne, uomini, ragazze e ragazzi, bambini in braccia o in passeggino, tutti portano il vestito tradizionale. Bande musicali, stendardi delle varie comisiones, ceste di fiori: piccolo pellegrinaggio o sfilata di moda? A chi deplora che si sia perso lo slancio religioso della processione, si può obiettare che offrire dei fiori alla Madonna non ha connotati prettamente cattolici; è un retaggio pagano. Si tratta di un’usanza improntata sul mondo antico. A Roma, come ricorda Ovidio, tra aprile e maggio si svolgevano le Floralie in onore di Flora, dea della primavera e dei fiori. Non è difficile intuire che tali celebrazioni erano incentrate su riti di fecondità e di fertilità. Basti pensare un istante alla Flora di Botticelli: ventre turgido sotto una veste sgargiante di corolle ricamate. Il passaggio di testimone fra Maria e Flora avvenne nel Basso Medioevo nel momento in cui la figura di Maria fu paragonata a una rosa e il suo santissimo grembo diventò simbolo della più pregevole gravidanza. Nel Duecento, Le Cantigas(canti monofonici spagnoli) alla corte del re Alfonso X, celebravano la Vergine come “Rosa delle rose e Fiore dei fiori”. Qual è il significato ormai dimenticato del bouquet della sposa se non quello di augurare fecondità e numerosa prole alla coppia?

LES FALLES: Tutto gira intorno al fuoco e ai monumenti di cartapesta

Dopo aver osservato da vicino i tratti caratteristici e lo specifico lessico delle Fallas, riponiamo nel cassetto la lente d’ingrandimento. Tralasciamo la visione analitica per considerare in modo cronologico le tappe salienti della Festa di Sant Josep.

1. La Crida:

La Crida è l’annuncio ufficiale che marca l’inizio delle festività. Avviene l’ultima domenica di febbraio alle 20:00. Dall’alto dell’antica porta medievale las Torres de Serranos, dopo che il sindaco le ha consegnato la simbolica chiave della città, la Fallera Mayor pronuncia in valenzano il discorso d’apertura davanti a una piazza gremita. La frase finale è d’obbligo: “ǃ Ja estem en falles!” (Da ora siamo in periodo di Fallas!)

2. La Plantà:

La Plantà è l’edificazione della falla sulla strada. Deve essere completata entro la mattina del 16 marzo, giorno in cui passa la giuria per valutare il monumento in vista della premiazione.

Installare una falla infantil non presenta particolare difficoltà: il 14 viene trasportata dall’officina dove è stata costruita fino al luogo in cui sarà collocata il 15 marzo alle 8.00.

Invece, riguardo alla falla mayor, la cosa è ostica: per via della sua imponenza, essa viaggia a pezzi e viene dunque montata in loco; di solito, la sua costruzione inizia dieci giorni prima del termine ultimo (16 marzo).

Se le piccole fallas possono essere erette per mezzo di corde, le grandi necessitano l’impiego di gru. In previsione della Cremà, il suolo sotto le fallas è sempre ricoperto di sabbia per salvaguardare l’asfalto.

3. La Cremà:

La Cremà è l’atto che dà senso alla Festa di Sant Josep. Si tratta della tappa più pregnante, più carica di emozione: insomma, la crema della crema. Visto che conclude le festività, è possibile intendere Cremà come il contrario di Plantà? No proprio, perché allora si parlerebbe di Deplantà: esattamente ciò che è avvenuto nel 2020 quando il 10 marzo le fallas , già in parte insediate nelle strade, sono state rimosse dalle gru per colpa della pandemia. La Cremà non trae il suo appellativo da una pietanza saporita e untuosa (la crema) come potrebbe fraintendere un italiano (per uno spagnolo, simile ambiguità non esiste: crema si dice “nata”). Qui, Cremà ha il significato di “cremazione” e costituisce il gran finale, una fase attesissima dai valenciani. In realtà, diventa falla, solo il monumento che compie un rito iniziatico attraverso il fuoco. Sennò, è un’opera d’arte e niente più. In altre parole, la falla nasce morendo. Aporetico? Sì; affascinante? Anche.

Il 19 marzo le fallas infantils  bruciano alle 22:00, seguite a mezzanotte dalle fallas mayores. La falla de la Plaza del Ayuntamiento (falla municipale), l’unica fuori concorso e quasi sempre la più alta, si fa divorare dalle fiamme all’una di notte.

Come potete immaginare, i roghi non s’innescano in maniera usuale come quando si accende il camino. Le fallas muoiono in modo pirotecnico; sono irrorate di benzina e infiammate dalle tracas, le caratteristiche collane di petardi. Le fallas muoiono in piedi bruciando come fusi; se ne vanno composte, senza sparpagliarsi. Se così non succedesse, vorrebbe dire che sono state costruite male, che la loro ossatura non è stata eseguita a regola d’arte.

I roghi in mezzo alla città sono pericolosi. I pompieri lo sanno e vigilano. Intorno alla falla incendiata, il getto degli idranti bagna gli alberi, i fiori e le facciate degli edifici circostanti; s’innalza in verticale nell’aria per creare una barriera d’acqua che circoscrive di continuo il monumento in fiamme. Asi mueren las fallas…

RIFLESSIONI SUL FUOCO E LE FALLAS:

La guerre du feu film

Segnò una svolta epocale il momento in cui l’uomo riuscì a far nascere un fuoco dallo sfregamento tra due pezzi di legno, oppure dalla scintilla ottenuta cozzando due pietre l’una contro l’altra. Egli, così fragile e sprovveduto, aveva trovato il modo di dominare una fonte di energia. Scorrono nella mente le scene incisive de La guerra del fuoco di Jean Jacques Annaud (1981) dove tre uomini preistorici uniti nella pericolosa e affannosa ricerca del fuoco, s’imbattono in una tribù più evoluta della loro, già in possesso della preziosa tecnica. Attraverso il mito, l’antica Grecia ha sottolineato con enfasi questa tappa fondamentale nella storia dell’umanità: è la nota vicenda del titano Prometeo che ruba a Zeus il segreto del fuoco per consegnarlo alla stirpe umana. Come se lo era procurato? Grazie alla dea Atena, era entrato nell’Olimpo e dopo aver sottratto una scintilla al carro del Sole, l’aveva nascosta nel fusto cavo di una ferula per non dare nell’occhio e poter uscire inosservato. Il racconto sottintende che sapere accendere il fuoco sia una tecnica divina. Quindi, essersi impadroniti di questo sapere, conferisce agli umani un potere formidabile e li innalza al pari degli dèi.

In base all’uso che facciamo della tecnica, costruiamo o distruggiamo: da una parte, il primo pane uscito dal primo forno; dall’altra, la prima arma forgiata nella prima fucina. La techne ha germogliato e si è espansa nel mondo dei mortali, mangiatori di pane e protagonisti efferati di guerre.

Vi è una costante per tutti gli animali: il fuoco fa paura. Addomesticarlo ci ha permesso di controllare la paura che incute naturalmente. Giocare con lui è certo prendere il rischio di bruciarsi ma è anche misurarsi con un elemento che al di là della paura che suscita, ci affascina. Così, possiamo leggere la Cavalcada del foc che precede la Cremà: il fuoco come sorgente di divertimento. Giocare col fuoco diventa metafora di una sfida: quella di vincere le proprie paure. Alle ore 19:00 del 19 marzo la parata si srotola come un nastro infuocato attraverso calle Ruzafa e calle Colón, poi si immobilizza sulla Plaza Porta de la Mar. Compone una ghirlanda luccicante di artisti vestiti da diavoli, di pirotecnici look steampunk, di acrobati, giocolieri e mangiafuoco. È un’esibizione incandescente arricchita di carri allegorici dove si mescolano draghi, aquile mitologiche, serpenti mostruosi e figure demoniache.

Usare il fuoco non soltanto per creare o giocare ma altresì per celebrare. Nelle comunità degli albori, si evidenzia lo stretto rapporto tra fuoco e sacertà. Già l’Homo erectus (prima dell’Homo sapiens) praticava ciò che i paleoantropologi hanno chiamato riti del fuoco. È probabile che i riti più antichi legati al fuoco siano eredi di precedenti riti solari in quanto il calore e la luce sprigionati durante la combustione ricordano gli effetti peculiari del sole. Da questa analogia intuiamo che incendiare delle cataste di legna sia un modo per onorare e aggraziarsi l’astro che riscalda, diffonde luce e senza il quale la vita sulla Terra si spegne. All’avvicinarsi dell’inverno, le notti si allungano, i giorni si accorciano, le temperature calano e la luce si fa sempre più debole. Grande è la paura di assistere alla completa sparizione dell’astro benevole; nasce allora il bisogno di accendere dei falò per sostenerlo e impedire che scompaia, vinto dalle tenebri. Alla bella stagione, l’uomo si rallegra del ritorno in forza del Sole e festeggia l’equinozio di primavera (fra il 19 e il 21 marzo: inizio della primavera astronomica) e il solstizio d’estate (fra il 20 e il 22 giugno: inizio dell’estate astronomica) intorno a grandi fuochi. Benché la Chiesa abbia ribattezzato i riti pagani con nomi di santi, è facile capire da che substrato si nutrono le feste di San Giuseppe (19 marzo) e di San Giovanni (24 giugno).

Dal rito pagano legato all’arrivo della primavera nasce la festa di San Giuseppe, protettore della Chiesa cattolica, dei padri di famiglia, dei falegnami. Nella Valencia settecentesca, dai fuochi che i falegnami accendono per il giorno di Sant Josep, prende campo e si sviluppa a macchia d’olio la festa delle fallas.

Piccoli falò sono all’origine delle celebrazioni valenciane che hanno acquisito oggi una risonanza internazionale. Nel 2016 l’UNESCO ha riconosciuto Les Falles “Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”. Le Fallas vanno salvaguardate come Beni intangibili cioè, beni immateriali costituiti da tradizioni culturali, etniche e artigianali.

Come si spiega che un fatto di origine popolare e di modesta entità abbia scatenato l’evento mastodontico di oggi. Mi viene in mente un’immagine: la metamorfosi del seme in primavera, la sua  trasformazione in pianta; il micro tramutato in macro. Usando la metafora, ecco la mia interpretazione: siccome il seme sembrava appartenere a una specie pericolosa, è stato modificato: ne è uscita fuori una pianta gigantesca, del tutto innocua e assai redditizia. Cosa intendo dire? Il carattere improvvisato, popolare e irreverente delle primitive creazioni che alcuni cittadini esponevano nella strada, non piaceva affatto alle autorità. Questi atti incontrollati andavano fermati; erano schegge impazzite e potenziali embrioni di sedizione. Due vie si offrivano per riprendere in mano la situazione: bloccare con la forza o canalizzare. Fu scelta la seconda che impediva lo slittamento rischioso, senza colpo ferire. Era una via astuta e subdola che, oltre a rivelarsi efficace, ha superato le aspettative. La mossa scatenante e vincente fu l’attribuzione di premi da parte delle autorità municipali. Da lì crebbe tutto a dismisura, da lì incominciò la frenetica rincorsa. La competizione tra i vari quartieri incentivò la ricerca della falla più impressionante, dell’artista fallero più bravo, della mascletà più “tellurica”.

Municipio di Valencia

1901 fu l’anno della svolta: il Consiglio comunale creò il premio della migliore falla. Poi, nel 1903 iniziarono a essere premiati anche i Llibrets. Ormai, il carosello delle premiazioni era entrato in moto e nessun l’avrebbe più fermato. Il cuore delle Fallas ingrossava e rimbombava a ritmo accelerato, facendo udire il suo battito ben al di là della regione, in tutta la Spagna; gli spagnoli cominciarono a spostarsi per assistere ai festeggiamenti. Nel 1927 fu inaugurato il primo tren fallero che, in occasione della Festa, trasportava i visitatori a Valencia. Nel marzo 1961, con entusiasmo la città accolse nel suo porto, el primer Barco Fallero cioè, la prima nave di turisti sudamericani. Adesso, il festival ha raggiunto una notorietà internazionale e nelle prime tre settimane di marzo, gli alberghi non riescono a soddisfare le massicce richieste; chi non ha prenotato in anticipo, non trova posto. L’evento turistico trasforma Valencia in un luogo affollato, caotico e molto rumoroso. Non occorre essere uno specialista per dedurre che l’effervescente attività sviluppata intorno alla Festa abbia una ripercussione economica considerevole: nel 2008 fu stimato che il guadagno complessivo per la città, superava 750 milioni di euro.

Sono sbalordita: troppi soldi in giro, troppo spreco, troppo sfarzo, troppo inquinamento acustico, troppo inquinamento atmosferico. Follia collettiva!

Eppure, subisco il fascino delle fantasiose sculture baroccheggianti, dei costumi raffinati, della profusione di fiori, dei meravigliosi castelli di fuoco. Sono colpita dalla forza dirompente di esplosioni magistralmente orchestrate. Certo, in tutta questa festa, c’è dismisura ma al contempo un clima infervorato che il turista o, meglio, il “non valenciano”, percepisce, anche se non lo può capire: la forte emozione che prova la gente di Valencia nel sentirsi unita dalle stesse radici.

Il momento delle festività che più mi affascina, è quello conclusivo. Per me, la Cremà rappresenta il denominatore comune dell’umanità: la vanità delle nostre creazioni, la fragilità della nostra esistenza. È una lezione di umiltà: un anno di costruzione distrutto in poche ore. È una lezione di vita: animati dalla speranza di giorni migliori, possiamo superare i nostri affanni. La mattina del 20 marzo le ceneri sono state spazzate via e della festa non rimane più traccia. Poco dopo, i casals riaprono per ricevere le iscrizioni al nuovo anno fallero: è l’apuntà. Il ciclo prosegue, la ruota gira: come la Fenice, les Falles potranno rinascere.

Mentre indagavo sulle Fallas, l’Equinozio ha guidato lo svolgimento della Primavera; non ho sentito arrivare il Solstizio che, domani, spalancherà la porta dell’Estate. Penso alla Spagna; laggiù, nella regione orientale che guarda verso le Isole Baleari, le associazioni sono di nuovo al lavoro per organizzare le prossime Fallas, quelle del 2024.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Joëlle 

 

 

 

 

 

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