Vagabondaggio
Mercoledì 8 novembre 2023
Ho appena finito di mangiare. Sono le tre di pomeriggio; la giornata è soleggiata e sento il richiamo delle colline di Scandicci. In cucina lascio tutto come sta. A sistemare, ci penserò dopo.
Basta cincischiare! Sono già le tre e venti. Giro la chiave e scendo per le scale. Sul viottolo alberato che costeggia la Scuola Rodari, una donna anziana avanza, il viso illuminato da un gran sorriso. Non la conosco; forse è semplicemente contenta di fare due passi sotto il tiepido sole di novembre o forse rammenta un evento felice. Spesso quando cammina da sola, la gente ha la faccia seria. Sicuramente ce l’ho anch’io ma non mi vedo.
Mi è balzata un’idea: telefono a Nicoletta per sapere se sabato sera può venire a cena da noi. Sarebbe divertente fare saltare le castagne nella padella forata, sul barbecue a carbone della terrazza. L’abbiamo inaugurato domenica scorsa; funziona a meraviglia. Nicoletta non può: sabato, assiste a un convegno di danza indiana. Nemmeno venerdì è disponibile visto che Maurizio partecipa a una serata musicale con dei ragazzi delle medie. Ci risentiremo per fissare la prossima settimana. A due passi da casa, la ripida salita in via di Triozzi mi porta nel mondo degli austeri cipressi spilungoni e dei tozzi olivi argentei. L’ho percorsa tante volte; eppure, non mi è ancora venuta a noia. Ci trovo sempre qualcosa di diverso. Parafrasando Eraclito, direi che cammino sempre in un paesaggio che cangia. Sarà illusorio, ma muovermi sulle mie gambe senza una meta prestabilita mi fa sentire libera e leggera.
Nello zaino ho infilato un piccolo thermos di tè, un paio di forbici da giardino, due sacchetti di plastica, un foulard in caso di vento, Gilgamesh se mi venisse voglia di leggere due righe. Ovviamente, ci ho messo anche il cellulare e le chiavi di casa. A un certo punto, invece di continuare sulla strada asfaltata, mi discosto e m’intrufolo tra gli olivi e le piante di alloro per andare a “fare un po’ d’acqua” secondo l’espressione consacrata delle signore pudiche della prima metà del Novecento. D’altronde, quando scappa, scappa! Camminare sull’erba è tutto un’altra cosa. Calpesto le sagome profumate delle piante di nipitella punteggiate dai loro fiorellini rosa-violacei; ne faccio un mazzetto che andrà a rinfoltire il mio cestino degli odori in cucina. Sono circondata dall’effluvio muschioso della vegetazione ancora inumidita dalle piogge che, ahimè, qualche giorno fa, hanno causato ingenti danni nella piana di Campi Bisenzio. Il clima sta cambiando e purtroppo le alluvioni in Italia non sono più un’eccezione.
Riprendo la via maestra. Dopo poco, la tradisco di nuovo per imboccare un sentiero a sinistra. È probabile che il terreno sia troppo bagnato ma ho voglia d’inoltrarmi. Poi se c’è troppa mota, sono sempre in tempo a tornare indietro. Il tratto invece è asciutto e proseguo senza sporcarmi le scarpe. Mi fermo a raccogliere del tarassaco e qualche foglia di bietolina. La mia attività di raccoglitrice è recente: ha iniziato durante la pandemia e ne è una conseguenza positiva indiretta. Benché adesso sia in grado di distinguere più piante di prima, molte di esse mi risultano tutt’oggi enigmatiche, come nascoste sotto un grosso punto interrogativo. Almeno sul tarassaco e la bietola, vanto un buon livello di sicurezza e so di non avvelenare nessuno. Si fa quel che si può. “Mangiate solo le erbe di cui siete sicuri” dicono a ragione gli esperti.
Recupero delle foglie d’alloro che entrano spesso per un verso o l’altro nelle mie preparazioni culinarie. So anche che sono l’ingrediente di tisane digestive e sedative ma non le ho mai usate a questo scopo. Il sentiero si è ristretto e sto camminando adesso su un tappetto di ghiande e di foglie di quercia gialle, verdognole e marrone. Più avanti, la vegetazione s’infittisce e il terreno diventa fangoso. È ora di tornare indietro. Oltre al vivace cinguettio degli uccelli e al gracchiare delle cornacchie, percepisco in lontananza il rumore meccanico e continuo di un abbacchiatore: stanno brucando gli olivi; fanno cadere sui teli le oleose perle ovali colore ebano.
Quest’anno, in Toscana sono stati preannunciati un ottimo olio ma una produzione ridotta. Nell’aria il profumo ambrato del miele millefiori si mescola all’odore terragno di humus. Un albero da frutta si è agghindato di un soprabito fiammante per festeggiare l’autunno. Rieccomi sulla strada asfaltata: riprendo contatto con la civiltà. Mi pare di essere sospesa tra natura e cultura come se la strada corrispondesse a una linea di demarcazione tra animalità e spiritualità. Mi sento intrappolata fra corporeità e mente, fra la concretezza del mio corpo e l’evanescenza dei miei pensieri. Una cosa è certa: con le mie riflessioni, non mi sento sola. Diderot lo scrisse due secoli e mezzo fa: “Mes pensées, ce sont mes catins – I miei pensieri sono le mie puttane”.
In cima alla lunga salita, il bivio m’impone la scelta fra Mosciano e San Martino alla Palma. Ho un’alternativa: potrei girarmi e ripercorrere via di Triozzi a ritroso; l’idea non mi sfagiola. Bevo un sorso di tè e svolgo a destra, direzione San Martino.
Sono le cinque un quarto e la luce comincia a scemare; le macchine hanno acceso i fari. Lo spazio per i pedoni è risicato, cammino sul ciglio. Per fortuna, c’è poco traffico. La mia giacca scura non è il massimo! Le rose canine spogliate espongono delle bacche turgide d’un rosso rutilante. I melograni selvatici fanno scoppiare i loro frutti.
Vicino a una casa, un grosso diospero è carico di palle giallo-arancio che iniziano a maturare. Un fuoco pacione diffonde il suo odore di rami bruciati; mi vengono in mente i falò che la nonna accendeva nell’orto per sbarazzarsi delle frasche e delle erbacce. Il rintocco della chiesa di San Martino m’informa che sono le cinque e mezzo. Invece di proseguire sulla via asfaltata, comincio la discesa verso Scandicci optando per il sentiero che serpeggia nella campagna. Lo conosco; passa davanti all’Agriturismo “Il Poderaccio”, un nome che non rispecchia affatto la realtà di questa bella casa colonica. L’oscurità si fa più densa; affretto il passo e ringrazio metaforicamente quelli che hanno deciso di pavimentare il sentiero di pietre chiare. Sorrido pensando alla fiaba di Pollicino. Potrei accendere la luce del cellulare ma non lo faccio; voglio aver le mani libere. Al mio passaggio, un cane zelante fa sentire la sua voce e non smette neppure di abbaiare quando ormai sono già lontana. Una fragranza di caldarroste trafuga da un camino acceso. Percorro via delle Prata in una totale oscurità traforata qua e là dalla luce elettrica delle case e dai fari delle macchine. Sopra, mi guardano le stelle. In un giardino, un cane abbaia per segnalare la mia presenza. Per più sicurezza, faccio un passo di lato in modo da scostarmi dalla strada. Mi ritrovo la faccia contro l’erba: mi sono afflosciata in un fosso come una bambola di pezza. Non mi sono fatto niente e mi desto in fretta. È automatico: quando si casca, si cerca sempre di rialzarsi subito e di far finta di nulla. Dietro a me, il padrone del cane ha visto la scena e si preoccupa: “Tutto bene?... Le conviene accendere il cellulare.” Che figuraccia! Si fa per dire: non credo che, al buio, la mia figura sia molto distinguibile. Ringrazio ma proseguo senza seguire il consiglio perché sono quasi giunta al ponte che scavalca l’autostrada. I veicoli tracciano una scia fulgente ininterrotta. Sembra l’attività frenetica di enormi formiche fluorescenti. Un gran pannello luminoso indica che, nel parcheggio autostradale, rimangono liberi 253 posti per le macchine e 15 per i pullman. Ogni volta che passo sopra il ponte, penso a quando lo attraversavo tre anni fa al tempo del Lockdown: l’autostrada offriva l’immagine surreale di un largo corridoio sterile. L’uomo era alla deriva; gli animali invadevano le città, bivaccavano nei parchi, ostruivano le strade; le piante riguadagnavano del terreno. La lezione è stata utile? Alla luce dei recenti avvenimenti, direi di no. Il gigante dai piedi d’argilla non ha cambiato traiettoria; è ancora convinto di aver delle basi indistruttibili…
Sono le sei e venti; Eccomi a casa. La prossima volta, alla mia modesta attrezzatura aggiungerò una torcia tascabile.
Joëlle