Capire quando fidarsi

Durante la mia infanzia e adolescenza, la mamma ha sempre sventolato la bandiera della diffidenza. Per riassumere il suo pensiero in un motto: “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Quando ero bambina vigeva la regola ferrea di non accettare caramelle o regali al di fuori della cerchia familiare, di non parlare con gente sconosciuta e ovviamente di non seguire gli estranei. Più tardi c’è stato il suo perpetuo mettermi in guardia rispetto alle amiche approfittatrici e ai ragazzi troppo intraprendenti…anzi, ai ragazzi tout court.  Il mondo esterno era sinonimo di alto pericolo e la casa rappresentava l’unico luogo sicuro e protetto. La mamma era la sola persona degna di fiducia, la confidente per eccellenza.

Innegabile, non fidarsi di nessun riduce a zero il rischio di essere ingannati o traditi ma nello stesso tempo un simile atteggiamento di chiusura azzera le possibilità di entrare in relazione con persone di valore e di farsi delle amicizie. Mi sono lasciata condizionare dalle ingiunzioni materne e durante l’adolescenza mi sono preclusa tante occasioni di festeggiare con i miei coetanei. Rimpiango di non aver preso coscienza in tempo dell’indottrinamento a cui ero sottoposta e delle sue conseguenze. Quando mi giro indietro e ripenso al mio comportamento a scuola, scuoto la testa con disappunto. Capisco che la tecnica del riccio faceva piazza pulita intorno a me, capisco i miei momenti di sconforto e le cause profonde del mio isolamento. Scoraggiavo i ragazzi che si avvicinavano; rare erano le mie amiche. Tenevo nascoste le mie considerazioni intime.

Senza rendermene conto, facevo parte di una famiglia insociabile, una specie di setta misantropa. Non erano gli altri che sbagliavano, eravamo noi! Nell’arco dell’anno, erano invitati al contagocce il mio padrino, sua moglie e le sue due figlie; potevano capitare un paio di cene straordinarie fuori programma e fra sì e no, qualche misero aperitivo con dei conoscenti. Ah, dimenticavo! Per le vacanze di Natale, mia nonna e la mia madrina venivano a passare le feste da noi.

Da casa mia, da quella fortezza di desolazione e di “non vita”, ognuno aveva il suo modo di evadere. Mio padre e mio fratello ricorrevano a dei passaggi sotterranei. Io avevo costruito in piena luce una cella privata all’interno della fortezza stessa: vivevo in una bolla. Avevo eretto intorno a me una palizzata eteroclita composta di letture, di studio, di pittura, di pirografia, di musica classica e di musica leggera.

A diciassette anni, ho cominciato a scrollarmi di dosso l’insegnamento materno. Quando sono venuta a vivere in Italia, la diffidenza acerba che aveva contrassegnato la mia adolescenza si era in parte smorzata. Non mi aveva del tutto abbandonata forse perché, oltre a dipendere da   un’impronta educativa, procede anche da un fenomeno naturale: la maggior parte degli animali sono diffidenti nell’avvicinare nuovi individui. D’istinto, diffido da uno sconosciuto ma in certi casi, senza capirne la ragione, una persona che vedo per la prima volta, m’ispira fiducia.

Colpa di uno sguardo limpido, di un sorriso luminoso, di una stretta di mani forte e decisa? Non lo saprei analizzare con precisione.

Comunque di primo acchito non si pone il dilemma di optare per una fiducia completa o una totale assenza di fiducia. La fiducia non obbedisce al sistema binario “sì-no”. Si sviluppa nel tempo, cresce a poco a poco, sale pian piano. Prosegue adagio sul sentiero dell’espressione orale. La prima tappa inizia quando scopro una sintonia di vedute con il mio interlocutore; quando affronto con lui dei temi stimolanti. Sennò, che conversazione è? A che tipo di dialogo stiamo accennando? Senza interessi comuni, lo scambio si esaurisce per mancanza di sostanza quindi la comunicazione sprofonda nel nulla. Non mi affido a una persona che mi lascia indifferente, con la quale non sente di aver argomenti da discutere. Però lo scambio verace non basta, ci devo aggiungere un’altra condizione: per rivelare lo strato profondo dei miei pensieri, ho bisogno di sentire una persona schietta che mi parla a viso scoperto.

La fiducia richiede un atteggiamento reciproco, una simmetria di comportamento. Se il mio interlocutore non racconta niente di sé, chiude a doppia mandata il suo giardino privato, non ho voglia di abbandonarmi a confidenze. Per contro, se mi affida dei segreti o dei pensieri molto personali, la mia fiducia raggiunge i gradini più alti; non indugio a confidarmi. Queste considerazioni mettono in luce una mia singolarità: la necessità che l’altro si scopra per primo, faccia i primi passi. La mia diffidenza è dura a morire, si è molto indebolita ma rimane in agguato. Aver fiducia è buttare giù le maschere, presentare la pelle e non la camicia, non temere di esporre le proprie debolezze. Certo, esiste il rischio d’essere ingannati o traditi, dunque di soffrire, ma pazienza! Vale la pena correre tale rischio. Confidarsi è assaporare la pienezza di una comunicazione profonda con l’altro senza timore di mettersi a nudo. Fidarsi è provare il benessere di sentirsi al sicuro vicino all’altro, la serenità di poter contare su di lui; è aver l’immensa soddisfazione di essere apprezzati per quello che si è, la certezza di non aver bisogno di giocare con le apparenze.

La fiducia è forte e insieme fragile: nasce, si sviluppa, raggiunge le alture ma può anche afflosciarsi come un soufflé uscito dal forno. Non mi viene in mente di controllare le persone di cui mi fido, sarebbe un atteggiamento contradittorio. Capisco che la verità non si possa sempre dire. Quello che non ha mai sparato una bugia per svincolarsi da una situazione delicata, scagli la prima pietra! Però non riesco a capire le menzogne gratuite proferite con l’unico scopo di attribuirsi dei meriti fasulli. Un’amica mi è caduta per una storia dolciaria. Era una guida turistica francese sposata con un italiano: le devo la mia prima visita agli Uffizi. Seguivo ammirata le sue spiegazioni sui quadri, le statue, l’architettura. Avevamo un bel rapporto, ci invitavamo spesso a casa. Un giorno portò in tavola uno splendido millefoglie fatto da sé quando si vedeva chiaramente che usciva da una pasticceria. Suo marito non mangiò la foglia e si stupì: “Monique, l’hai fatto te?”  “Certo!”  replicò lei stizzita e gli buttò in malo modo il cucchiaino nel piatto. Da quel momento, l’ho considerata una mitomane, ho dubitato delle sue parole e ho subodorato che infarciva di bischerate le sue spiegazioni davanti alle opere d’arte.

 

                                                                                           Joëlle

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