Toccare
Si sa: la pelle, guscio che racchiude il nostro scheletro, i nostri muscoli e i nostri organi vitali è un involucro protettivo, una muraglia difensiva contro gli agenti esterni nocivi.
Questo non ci deve occultare un suo ruolo altrettanto positivo: in effetti, costituisce una vasta superficie che mette in relazione il nostro io con il mondo, una distesa sensibile che raccoglie una miriade di informazioni indispensabili alla nostra esistenza. Rappresenta un terreno di scambio fra me e l’altro, fra me e il diverso da me. È il nostro organo del tatto, del “tangere” latino; è un tessuto che delimita il nostro corpo e nello stesso tempo gli permette di entrare in contatto con altri corpi. Grazie a questa nostra frontiera porosa, ci affacciamo sul mondo esterno e ne scopriamo la vastità.
Oggi, quando pensiamo ai cinque sensi, il tatto non fa certo figura di leader. Nel gruppo dei cinque, la vista capeggia, tallonata dall’udito. Dietro a loro, l’olfatto, il gusto e il tatto arrancano. Senza indugio, Occhio-Orecchio è la coppia vincente: i due organi aristocratici se la tirano e dall’alto del podio sbandierano il loro forte legame con la sfera intellettiva. Naso, lingua e pelle stanno in basso, classificati più rozzi e primordiali. Sono organi terragni e assai più volgari in quanto attivissimi protagonisti della sfera sensuale e sessuale dell’animale-uomo.
Nel Settecento il filosofo francese Étienne Bonnot de Condillac la pensava diversamente: attribuiva al tatto un ruolo preponderante.
Sviluppando la teoria empiristica di Locke (conosciamo solo attraverso l’esperienza), giunge a un sensismo gnoseologico. Il suo Trattato sulle sensazioni (1754), suddiviso in quattro parti, mira a dimostrare che le nostre operazioni spirituali, dalle più semplici alle più complesse, derivano tutte dalle nostre sensazioni, da ciò di cui facciamo esperienza attraverso i sensi. Lungo tutto il saggio, illustra la sua concezione per mezzo di una strana figura ossia per mezzo di una statua marmorea che cela un’organizzazione interna simile alla nostra. La scultura, fornita di una res cogitans ossia di uno spirito e di una res extensa ossia di materia, è capace di compiere operazioni mentali come le nostre. Ovviamente, in linea con l’empirismo di Locke e in contrapposizione con l’innatismo di Cartesio (possediamo idee innate indipendentemente dall’esperienza), Condillac immagina una statua la cui mente in principio è scevra d’idee come una tabula rasa; si animerà progressivamente con lo sbocciare graduale dei sensi. Il filosofo, calcando il metodo induttivo-sperimentale delle scienze naturali, orchestra lo schiudersi dei sensi. Per cominciare, decide di aprire l’olfatto che gli sembra il più semplice dei cinque. La sua statua inizia a percepire il profumo di una rosa; di seguito, distingue altri odori e se ne ricorda, innescando un processo di memorizzazione che rende possibile il confronto, poi il giudizio. A tappe, Condillac le fa acquisire l’udito, il gusto e la vista. È l’argomento della prima parte del suo Trattato. Le informazioni raccolte dai quattro sensi permettono alla statua di descrivere l’immagine delle cose ma non le consentono di misurarne l’estensione. I dodici capitoli della seconda parte del Trattato analizzano in dettaglio ciò che “toccare” significa in termini di sviluppo intellettivo e la peculiarità del tatto. Il titolo è esplicito: “Du toucher, ou du seul sens qui juge par lui-même des objets extérieurs – Del tatto, ossia dell’unico senso che giudica da sé l’esteriorità degli oggetti”. L’acquisizione del tatto è fondamentale perché la statua prenda coscienza del proprio io e faccia la differenza fra sé stessa e il mondo esterno. Quando si tocca, percepisce una sensazione doppia: quella di toccare e di essere toccata. Per contro, quando tocca un oggetto, non percepisce nessuna risposta da parte del suo “io” ossia non prova la sensazione di essere toccata. Questa discrepanza le fa intendere l’esistenza di un “io” e di un “altro” ossia l’esistenza di un corpo diverso dal suo. La terza parte del Trattato mette l’accento sul ruolo decisivo del tatto in relazione con gli altri sensi e s’intitola appunto: “Comment le toucher apprend aux autres sens à juger des objets extérieurs – Come il tatto insegna agli altri sensi a giudicare gli oggetti esterni”. Grazie al tatto, la statua si rende conto di non essere un odore, un suono, un sapore, un colore; scopre che le sue percezioni provengono da uno spazio indipendente da lei. Con il tatto può valutare la realtà delle cose, può palpare il mondo esterno.
Lo strumento che ci concede di usare appieno l’organo del tatto è la mano. Oggi la biologia ha identificato gli elementi che ci permettono di analizzare ciò che tocchiamo: nella nostra epidermide e nel nostro derma si nascondono ricettori sensoriali che registrano le informazioni e le mandano al cervello. L’epidermide, lo strato più superficiale della cute, ospita terminazioni nervose libere (senza capsula) responsabili della sensazione di dolore. Nel derma, lo strato più profondo, sono all’opera quattro tipi differenti di corpuscoli sensoriali (terminazioni nervose incapsulate). Si attribuiscono ai corpuscoli di Vater-Pacini il compito di percepire la pressione e ai corpuscoli di Meissner di individuare la forma degli oggetti e le caratteristiche delle superfici incontrate. I corpuscoli di Ruffini sono protagonisti nella percezione del caldo e i corpuscoli di Krause in quella del freddo. Ho schematizzato la fisiologia di questi recettori per non addentrarmi in una realtà più complessa e dilungarmi in precisazioni. All’epoca di Condillac l’istologia non esisteva. Il microscopio elettronico non era ancora entrato in scena e dunque non aveva svelato l’esistenza dei corpuscoli tattili ed evidenziato la loro elevata concentrazione all’estremità distale degli arti superiori. Ciò nonostante, il filosofo aveva già classificato la mano come l’organo del tatto per antonomasia. Espone le sue considerazioni in proposito nell’ultimo capitolo della seconda parte del Trattato. Questo capitolo, il dodicesimo, è interamente consacrato alla mano: “Du principal organe du toucher – Del principale organo del tatto”. Allorché nella Storia naturale (1749-1789) il suo connazionale, il naturalista Georges Louis Buffon, valuta di maggior efficienza cognitiva un’ipotetica mano costituita da venti dita, Condillac considera perfetto l’attrezzo biologico dotato di cinque dita che la natura ci ha regalato. Ancora oggi, la locuzione “Toccare con mano” testimonia l’affidabilità che si riconosce alla mano nel verificare la concretezza delle cose. All’inizio del Cinquecento Niccolò Machiavelli scrive: “La udiva ogni cosa ma la prestava fede a quello che la toccava con mano esser vero.”
Cos’è la mia mano? Un’architettura complicata che combina 27 ossa, 19 muscoli, tendini, legamenti, vasi sanguigni, nervi. Un gioiello d’ingegneria che mi rende possibile la scrittura, la cucina, il disegno, il massaggio, una carezza… Però, in fondo, che sarebbe questa formidabile costruzione senza il suo involucro di pelle? La mia mano scorticata avrebbe tutti i requisiti per muoversi guidata dalla mia volontà ma senza il tatto non compiccerebbe niente. Quando d’inverno il gran freddo abbassa la mia sensibilità tattile, le mie dita intirizzite non riescono nemmeno a girare la chiave nella serratura della porta d’ingresso. D’estate mentre annaffio in terrazza, mi stupisco di avvertire la minuscola presenza di un pidocchio delle piante che cammina sul mio braccio. Mi meraviglio dell’altissimo grado di percezione della mia cute, dell’impareggiabile proprietà sensoriale del tessuto di cui sono coperta. La mia pelle: il mio vestito originario confezionato su misura e tagliato in una stoffa esclusiva e personale. Ogni pelle è unica: basti pensare alle impronte digitali per convincersene.
La voglia e il bisogno di toccare nascono insieme a noi. Nei primi mesi di vita, la luna sembra afferrabile: basta allungare il braccio. Solo l’esperienza legata al tatto ci fa capire la lontananza e la vicinanza degli oggetti, ci fa integrare il concetto di distanza, di profondità dello spazio circostante.
“Questo, non si tocca!” è un imperativo ricorrente della nostra infanzia. Chi di noi, la mano tesa nel momento più eccitante dell’esplorazione domestica, quando era finalmente giunto al punto di acchiappare un oggetto ambito, non è stato immobilizzato da un sonoro e perentorio “Non toccare!”. Eppure, c’è poco da fare, il divieto accresce la bramosia, acutizza la curiosità e il desiderio di toccare scavalca ogni raccomandazione e ogni ordine. Ciò che si perdona a un bambino non è altrettanto perdonabile a un adulto. È infantile e irrispettoso non contrastare l’atavico bisogno di toccare quando visitiamo un museo, un sito archeologico o quant’altro. Che senso ha toccare quando la guida ci ha appena spiegato che così facendo, danneggiamo? Mi ricordo una visita alle grotte carsiche di Frasassi nella provincia di Ancona. Ci era stato esplicitamente richiesto di non toccare le stalagmiti per non depositare grasso su queste sculture calcaree formatesi nel corso di millenni e rischiare in tal modo, il grasso essendo idrofobo, di interromperne la crescita. Nondimeno per alcuni, la tentazione fu troppo forte.
Poiché “toccare” significa entrare in contatto fisico con qualcosa o qualcuno, è indubbio che sfiorare, accarezzare, abbracciare, modellare, palpare, impastare, massaggiare, sono tutti modi di toccare. Tutte queste azioni manifestano un carattere intenzionale all’eccezione dello sfiorare che può risultare accidentale. Non accarezziamo senza saperlo, non palpiamo senza volerlo. Per contro, ci capita di sfiorare senza accorgercene. Il verbo ospita in cuor suo la parola “fiore” nell’accezione di “superficie”. Lo sfioramento caratterizza un contatto così breve e lieve che in certe situazioni, non lo avvertiamo. Diventa un quesito affannoso per gli innamorati e un punto interrogativo nel linguaggio del corpo: mi ha sfiorata sbadatamente o per farmi capire che si sente attratto da me? Lo devo considerare evento casuale o cauto segno di gradimento? Domanda in sospeso, senza risposta. Lo sfioramento: una “Toccata e Fuga” evanescente che semina dubbio.
Carezza e abbraccio sono invece dichiarazioni nitide che ci offrono il piacere di un contatto prolungato. Al più forte della tempesta pandemica abbiamo dovuto rinunciare a baci, abbracci e strette di mano. Durante mesi e mesi le parole d’ordine sono state “Mantenete le distanze” e “Salutate senza toccarvi”. Adesso riconquistiamo a poco a poco l’esuberanza dei gesti di una volta. Tuttavia, la necessità di evitare il più possibile i contatti fisici per rallentare i contagi ha lasciato strascichi. Riscontro una differenza nel mio comportamento con gli altri. Ho perso la spontaneità dell’abbraccio e della stretta di mano: sembrano gesti pericolosi e ingiustificati che espongono inutilmente a rischi di contaminazione. Prima di abbracciare o di stringere una mano, indugio un attimo con un pizzico d’incertezza: mi chiedo sempre se l’altro gradisce o preferirebbe farne a meno. Eppure, nessun messaggio verbale o visivo rimpiazza il calore del contatto fisico.
Nel verbo “toccare” percepisco il rintocco di “poiéin - ποιέιν”, l’antico predicato greco che assume il senso generico di “fare”, spaziando dalla basilare attività artigiana fino alle vette della creazione eccelsa, quella del poeta- ποιητής. Esprimiamo la nostra creatività nel modellare, nel disegnare, nell’impastare, nel lavorare con le nostre mani, insomma, nel toccare… ma toccando, possiamo anche curare gli altri.
Da bambina trasformavo i rettangolini di Pongo, o più esattamente di “pâte à modeler”, in animali variopinti. Il calore dei palmi rendeva la plastilina più duttile. Mossi dalla flessione e dall’estensione delle falangi, i pezzetti di Pongo si torcevano, si stiravano, si piegavano, si univano gli uni con gli altri. Ciò che più mi divertiva era aggiungere i particolari: una coda al gatto, delle antenne alla chiocciola, delle ali alla gallina.
Comunque, da piccola, la mia attività manuale di predilezione era il disegno. Trascorrevo ore di beatitudine, rapita dal foglio bianco e dalle matite. Rivestivo le forme delineate dal lapis, di colori che lo strofinamento sulla carta dei polpastrelli aveva lo scopo di unificare. Tuttora quando reggo tra pollice e indice uno di questi bastoncini a sezione esagonale dalla mina colorata e dal dolce odore di legno appena tagliato, percepisco un non so che di magico.
A parte rari casi, in cucina non uso guanti, lavoro a mani nudi. Si dice che cucinare è sensuale; per me, lo è. Ho bisogno del contatto diretto pelle - alimento; non voglio intermediario. Mi ritrovo con le unghie annerite dall’inchiostro di seppie, le dita inverdite dal carciofo o dal basilico; piccoli inconvenienti che non riescono a farmi cambiare abitudine. Solo l’ortica mi costringe a indossare guanti. Da quando sono stata operata al tunnel carpale, è entrata in casa la “Planetaria”, il robot freddo ed efficace che impasta al posto mio. Certo, molto pratico quando si tratta per esempio di lavorare la farina di segale appiccicosa come una colla ma, nel contempo, assai usurpatore! Non di rado faccio senza; scarto l’impastatrice tecnologica e uso le dita con l’indicibile piacere di mescolare le farine con l’acqua, d’imprigionare l’aria con movimenti lenti, di valutare la consistenza del composto, di tastarne l’elasticità, di sentire nascere il pane sotto il palmo delle mie mani.
Non ho esperimentato il gesto dell’impastamento facendo il pane, l’ho conoscevo già prima di lanciarmi nella panificazione casereccia. Durante la mia formazione di fisioterapista dopo la maturità, avevo imparato il “pétrissage”. Nel percorso di studio, tra i vari laboratori ai quali dovevamo partecipare, quello del massaggio era il mio preferito. L’insegnante spiegava i movimenti da eseguire, poi ci allenavamo fra di noi ed eravamo a turno il massaggiatore e il paziente. Niente a che vedere con la noiosa mobilizzazione passiva manuale o il laboratorio rompicapo delle carrucole dove bisognava destreggiarsi tra funi e pulegge e tener d’occhio la direzione delle forze applicate agli arti. No, nella sala da massaggio, era ben diverso: ci esercitavamo in un’atmosfera distesa, quasi giocosa. Quando la mano, scivolando sul corpo dell’altro, identifica i duri rilievi ossei, le strisce fibrose di legamenti e tendini, la massa carnosa dei muscoli nascosti sotto la pelle, sembra che stia leggendo un libro in Braille e che i polpastrelli abbiano gli occhi. Che immensa soddisfazione riuscire ad alleviare il dolore o meglio ancora a farlo sparire, usando semplicemente il potere curativo delle mie mani!