Chi legge piano… va lontano

A/ Cavolfiore e cervello: tempo lungo e cura

 

Certe locuzioni si servono di ortaggi per rappresentare la sfera intellettuale. Dopotutto, non è strampalato se pensiamo al significato primario di “sapere” cioè “aver sapore”. Quindi, “sapere” trae il suo etimo da una percezione prettamente gustativa: esiste un nesso tra il cibo e l’intelletto. Notiamo, en passant, che la “lingua” è insieme organo del gusto e componente anatomico fondamentale nell’articolazione del linguaggio.

1.       Per primo, soffermiamoci su un ortaggio a frutto: la zucca.

Avere del sale in zucca non riflette uno stratagemma culinario. Vuol dire: essere assennato, aver buon senso. Al rovescio, l’espressione “Aver poco sale in zucca” è usata per indicare una carenza d’intelligenza. Nella seconda novella della Quarta Giornata del Decameron, Boccaccio applica l’espressione a una giovane “bamba e sciocca” lasciatasi convincere da Frate Alberto che l’Angelo Gabriele si è innamorato di lei. Così scrive: “… essendo madonna Lisetta…come colei che poco sale aveva in zucca”.

Al fine di capire come nasce l’espressione, analizziamo i due elementi nutrizionali intorno ai quali si è formata. Da una parte c’è il sale che conserva gli alimenti e per antonomasia insaporisce i cibi. Un piatto poco gustoso e scarso di sale è definito sciocco. Facile slittare dall’accezione concreta al senso figurato: una persona insulsa e priva di avvedutezza è detta anche sciocca e scipita perché manca di intelligenza e letteralmente, non sa di nulla. In latino, la metafora è ben ancorata nella locuzione Cum grano salisCon un pizzico di sale” che sta a significare “con un minimo di buon senso”.

Ora che abbiamo evidenziato lo stretto legame tra sale e raziocinio, ci rimane da chiarire il perché della zucca. In partenza precisiamo che non si tratta della grossa zucca arancione di Halloween. Prima della scoperta dell’America, nel Vecchio Continente era conosciuto soltanto la specie del genere Lagenaria. Veniva chiamata zucca a fiasco perché una volta svuotata ed essiccata, diventava un recipiente leggero e impermeabile adatto a ricevere liquidi, a fare da borraccia al pellegrino… e a preservare il prezioso sale dall’umidità. Estesa al registro figurato, questa saliera vegetale rappresenta la testa, guscio dell’intelligenza (il sale della mente).

2.       Esaminiamo ora il caso di un ortaggio a tubero: la patata.

Di chi vuole far ridere ma non è affatto spiritoso, si dirà che ha uno Spirito di patata. L’espressione gioca sul doppio significato della parola “spirito” creando un intreccio fra il senso concreto di bevanda alcolica e il senso figurato di propensione naturale all’arguzia, al motteggio. Il distillato che si ricava dalla fermentazione delle patate è considerato il meno pregiato di tutti. Dai cereali, dall’uva, dalle mele, dalle pere…si ottengono distillati di qualità assai superiore. Credevo che la vodka fosse un distillato di patate ma ho scoperto di recente che la patata entra ben poco nella sua lavorazione e che l’ingrediente principale è in realtà il grano. Dunque, bando alle ciance, la patata non è materiale idoneo alla distillazione e senza difficoltà si deduce che l’appellativo “spirito di patata” non è un complimento; viene appioppato all’autore di facezie insulse e per niente divertenti.

3.      Prendiamo adesso un ortaggio a fiore: il cavolfiore.

Un disegno incontrato sulla rete mi suggerisce l’espressione Innaffiarsi il cavolfiore …con la lettura. Acciocché cresca il cavolfiore, bisogna che l’acqua che riceve sia ricca di elementi nutritivi, sia versata pian piano e con regolarità. Il messaggio iconico riguarda l’accrescimento delle capacità intellettive e lo interpreto così: affinché la lettura sia un’attività proficua, occorre scegliere un libro che contiene pensieri profondi e leggerlo con la massima attenzione, dedicandogli un po’ di tempo ogni giorno. Un buon lettore non si valuta alla quantità di libri che li sono passati fra le mani, bensì alla qualità dei libri che sceglie e soprattutto all’attenzione che accompagna la sua lettura. La chiave di volta del saper leggere è la concentrazione. Cosa implica concentrarsi mentre si legge? Non saprei descriverlo meglio di Francesco Petrarca: “Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra o ai soldi, e almeno mentre legge voglio che sia solo con me”. Leggere veloce corrisponde a guardare sfilare il paesaggio dallo scompartimento di un treno in corsa; leggere piano equivale ad osservare l’ambiente circostante mentre si cammina. Nel mondo latino, il concetto di “prendere il tempo di apprezzare” è concentrato in alcune massime come ad esempio: Non multa sed multumcioè non mirare alla quantità ma alla qualità o “Festina lente cioè affrettarsi con lentezza…Mio suocero lo diceva in modo più prosaico: “Va’ piano perché ho furia.”

 

B/ Libro: merce ordinaria o scrigno prezioso?

 

Dal 1996 si festeggia la Giornata Mondiale del Libro, il 23 aprile. Tale manifestazione serve davvero a fare risaltare i benefici della lettura nella vita di ognuno di noi? Riesce a dimostrare l’importanza di “multum legere sed non multaleggere con estrema attenzione piuttosto che leggere tanto”? A parer mio, è un’operazione futile e meramente demagogica che non approda a nessun incremento dei lettori. Chi legge già, sente osannata la sua attività; chi non legge, non è invogliato a farlo. La gente non si avvicina ai libri a colpa di slogan del tipo “Leggete che tanto bello è!” Non si vende un libro come un barattolo di pommarola o una confezione di cioccolatini. Sensibilizzare le persone alla lettura è un lavoro educativo di lungo respiro.

La scuola dell’obbligo, oltre a insegnarci a leggere e a scrivere, dovrebbe stimolarci a sfogliare anche ciò che esula dai programmi scolastici. Detto in modo spiccio: la scuola dovrebbe farci contrarre la buona abitudine di leggere. La condizione sine qua non è che i professori siano animati da un entusiasmo comunicativo per la lettura. A questo proposito, Gianni Rodari emette qualche perplessità: “…abbiamo anche degnissime persone laureate che hanno finito di leggere libri il giorno in cui hanno presa la laurea. Vorrei dire che abbiamo persino qualche professore di lettere che si è fermato per la poesia a Carducci o a Pascoli, diciamo, ecco forse a Pascoli ci è arrivato, a Gozzano è difficile. Perché? Perché il libro era coltivato nella sua formazione scolastica come un riflesso scolastico, non come un riflesso culturale, se così vogliamo chiamarlo, ma non come quella passione disinteressata che solo può destare qualcosa di durevole.”

Nella fascia compresa tra i 18 e i 65 anni, solo 13% degli italiani si dedica costantemente all’esercizio della lettura. In Italia, le ricerche di EUROSTAT e dell’ISTAT rivelano la debolezza cognitiva di 81% dei cittadini in età lavorativa; il dato fa sobbalzare (è in linea con i dati europei e mondiali. Siamo in buona compagnia!). Tuttavia, il Bel Paese non reagisce, fa lo gnorri invece di rimboccarsi le maniche. Per arginare l’ignoranza e accudire i cervelli, la soluzione c’è: costruire una rete di alfabetizzazione culturale e funzionale degli adulti sul territorio. Vengono proposti qua e là corsi privati a pagamento quando il compito di prendersi cura dei cervelli, di creare delle “teste ben fatte”, dovrebbe spettare al servizio pubblico ed essere attuato tramite un insegnamento gratuito offerto alla popolazione adulta per tutto l’arco della vita.

I cavolfiori non crescono, i cervelli si afflosciano, ma a chi importa? Andiamo avanti lo stesso. L’ignoranza non ammazza subito, solo a lungo andare… Non ci si alfabetizza una volta per tutte alla scuola dell’obbligo; è cruciale un continuo allenamento a pensare, è necessario un aggiornamento e ampliamento delle nostre conoscenze, sotto pena di vedere scemare le nostre capacità cerebrali e annientarsi i saperi acquisiti durante gli anni scolastici. A che serve essere ancora in grado di decriptare e pronunciare la parola scritta se non si capisce il significato della frase che si legge? I libri sono delle porte d’accesso al pensiero altrui ma quelle porte, bisogna pure aver la chiave per poterle aprire! Un insegnamento permanente ci permetterebbe di trovare con facilità serratura e chiave. Leggere multum è un’ottima ginnastica cerebrale che contribuisce a mantenere e accrescere la nostra efficienza cognitiva. Capire in profondità ciò che è scritto, procura un vero piacere. Quando entriamo appieno nel mondo mentale dell’autore, allarghiamo il nostro orizzonte con vedute altrui e di conseguenza arricchiamo la nostra esistenza e ci emancipiamo intellettualmente perché sviluppiamo il nostro senso critico.

Purtroppo, il livellamento dei cervelli verso il basso conduce gli editori ad accettare scritti scadenti e sempliciotti. Spesso ciò che conta per loro non è tanto la qualità o l’originalità del manoscritto quanto la probabilità che ha di riscuotere successo nel grande pubblico. Con un simile criterio di scelta, si può giungere all’obbrobrio. Diversi anni fa, allorché stavo sfogliando alcuni romanzi in una libreria fiorentina, mi è capitato fra le mani. Le tribolazioni di una cassiera. Ho aperto il libro a caso e sono rimasta stralunata: il passaggio descriveva un cliente che si scaccolava alla cassa; la scrittura era così piatta e banale che ho subito richiuso il…, se è degno di questo nome, libro. Poi, tornata a casa mi sono informata e ho constatato con tristezza che si era venduto molto bene al punto di essersi addirittura meritato una traduzione dal francese all’italiano. Penoso! Ora se andate a curiosare sulla rete, vi aspetta una sorpresa italiana DOCG: Diario di una cassiera – il sorriso dietro alla mascherina. Si vede, le storie di cassiere registrano buoni incassi






C/ Un libro che difende i libri e promuove la lettura: FAHRENHEIT 451

 

1.      Titolo enigmatico

Da principio Ray Bradbury (1920 - 2012) non scelse il titolo Fahrenheit 451 quando Horace Gold accettò di pubblicare il suo scritto nel febbraio 1951 sulla rivista fantascientifica “Galaxy Science Fiction”. Chiamò semplicemente la sua novella The fireman ovvero Il pompiere. Conservò questo titolo anche nel 1954 quando propose, sull’esordiente mensile erotico “Playboy”, una versione più lunga, divisa in tre puntate (marzo, aprile e maggio 1954). Comunque, nel 1953 era già uscita la versione ampliata del suo racconto in un libro che, invece di intitolarsi The fireman, riportava in copertina l’espressione assai misteriosa di una temperatura in gradi fahrenheit. Come mai? Andiamo a scoprirlo: 451 degrees Fahrenheit, corrispondenti ai nostri 232 gradi Celsius, è la temperatura di autoaccensione o di autoignizione della carta. Cosa significa? Vuol dire che, esposta a una temperatura di 451 gradi Fahrenheit, la carta incomincia spontaneamente a bruciare cioè si riduce in ceneri senza sorgente esterna di innesco come, ad esempio, una fiamma. Ovviamente si tratta di un valore medio; la temperatura di autoignizione varia a seconda dello spessore e della composizione della carta… ma non restiamo qui a spaccare il capello in quattro. In un’intervista, Ray Bradbury narra di aver ottenuto l’informazione dal capo dei Vigili del fuoco di Los Angeles. Fra le pagine del suo romanzo, non offre nessuna spiegazione del titolo; si limita a fare luccicare il numero arcano 451 sull’elmetto nero del pompiere, a metterlo in risalto sulla manica grigia di Montag e a contrassegnarlo sui serbatoi di cherosene.

A dicembre 1953 The fireman aveva varcato l’Atlantico ed era entrato, scisso in due puntate, nella rivista italiana di fantascienza “Urania” con il nome poco attraente di Gli anni del rogo. Tre anni dopo, nel 1956, l’editore milanese Aldo Martello lo pubblicava sotto un appellativo meno cupo e più ottimistico: Gli anni della fenice. Nel 1966, sulla scia del film di François Truffaut, la Mondadori opterà per il titolo criptico di Fahrenheit 451, quello scelto dall’autore nel 1953.

2.      Romanzo fantascientifico

La fantascienza non è irreale; è una descrizione della realtà” asserisce Ray Bradbury a un giornalista. La definizione calza a pennello il suo romanzo fantascientifico Fahrenheit 451. Il suo dipinto di un futuro immaginario pomicia palesemente con la nostra realtà. Le sue pennellate non illustrano il regno idilliaco di uno stato utopistico come quello delineato da Francis Bacon (1561-1626) in La Nuova Atlantide oppure tracciato da Tommaso Campanella (1568-1639) in La città del Sole. Bradbury ci proietta in un mondo distopico, un mondo di utopia negativa (dis-utopia) in cui il quadro di vita è indesiderabile e angoscioso come succede nel romanzo, uscito nel 1932, di Aldous Huxley Il mondo nuovo (Brave New Word) o in 1984 (Nineteen Eighty-Four) di George Orwell, pubblicato nel 1948. Siamo negli Stati Uniti in un futuro imprecisato, posteriore al 1960. Un governo autoritario ha messo al bando i libri e ha intrapreso di distruggerli tutti, bruciandoli sistematicamente. Gli oppositori che nascondono le loro biblioteche vengono rintracciati su denuncia e arrestati mentre i loro volumi sono messi al rogo insieme alla loro casa. La repressione è svolta da una squadra di vigili del fuoco. Siamo in una società scombussolata nella quale i pompieri sono incendiari e dove chi legge, è un criminale.

In Fahrenheit 451 confluiscono accadimenti personali e fatti storici che hanno marcato la vita dello scrittore. Quando si abbatte la devastante crisi economica e finanziaria del 1929, Ray Bradbury ha nove anni.

È già un fervido lettore che divora con passione racconti e passa ore e ore nella biblioteca rionale. I libri riempiono le sue giornate di emozioni, lo fanno evadere dallo squallore socioeconomico derivato dalla Grande Depressione del ’29.

Censura

A dodici anni Bradbury tocca con mano il potere arbitrario dei bibliotecari: fanno sparire dagli scaffali libri che giudicano di basso livello letterario. Di propria iniziativa, senza che ci sia a tale riguardo una direttiva del governo, si permettono di eliminare Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum, il ciclo di Tarzan (24 romanzi) dello scrittore Edgar Rice Burroughs… Il giovane si rammarica molto di non trovare più in biblioteca personaggi a lui cari. Ahimè, la storia gli dimostrerà che la censura non ha solo un effetto lieve e limitato. È una pratica usata per ingabbiare le teste in un pensiero omologato, una pratica di cui fanno le spese autori eccellenti.

Nel 1933 Bradbury s’inorridisce di fronte ai roghi di libri, die Bücherverbrennungen, orchestrato dagli studenti nazisti per ripulire la nazione dagli scritti ebrei, marxisti e pacifisti, cioè per appoggiare la lotta decretata da Hitler contro “lo spirito non tedesco”. Sulla lista nera degli autori “nocivi” figurano Albert Einstein, Karl Marx, Bertold Brecht, Ernest Hemingway, Jack London, Thomas Mann, Franz Kafka, Arthur Schnitzler; Stefan Zweig, Robert Musil, Marcel Proust, Emile Zola, James Joyce, Charles Darwin, Sigmund Freud. Da marzo del 1933 vengono ingozzati dal fuoco libri proibiti in tutta la Germania. La notte del 10 maggio 1933 regala a Berlino il triste primato del falò più spettacolare e colossale del paese con 25000 volumi sacrificati alle fiamme sulla piazza Opernplatz antistante all’università e oggi ribattezzata Bebelplatz, gremita di sostenitori esultanti. Punto di spicco in questa notte giubilante percorsa da inni, canzoni e giuramenti, il discorso del ministro della Propaganda Joseph Goebbels intento a galvanizzare il pubblico. Sancisce il decadimento dell’intellettualismo ebraico degenerato e annuncia la nascita di uno spirito tedesco forte e impavido. “Und deshalb tut Ihr gut daran, um diese mitternächtliche Stunde den Ungeist der Vergangenheit den Flammen anzuvertrauenFate bene, in quest’ora della mezzanotte, a consegnare alle fiamme lo spirito maligno del passatoaus diesen Trümmern wird sich siegreich erheben der Phönix eines neuen Geistes – da queste rovine s’innalzerà vittoriosa la fenice di un nuovo spirito.”

Dal 2008 un memoriale realizzato da Micha Ullman sulla Bebelplatz ricorda il “Bücherverbrennung” di Berlino: un pannello luminoso trasparente inserito nel selciato della piazza lascia intravedere, sotto la superficie, una biblioteca di 50 m² dagli scaffali interamente vuoti. Jonathan Rose, direttore del corso di laurea in Storia del Libro, nella Drew University del New Jersey, raggruppa saggi di 18 autori in un libro dal titolo originale The Holocaust and the BookDestruction and Preservation (tradotto in italiano: Il libro della Shoah) dove si legge: La storia dei sei milioni è anche quella dei cento milioni. Questo, secondo i calcoli di uno storico delle biblioteche, è il numero di libri distrutti dai nazisti, in solo dodici anni in tutta Europa”.

Un secolo prima degli autodafé di Hitler, il poeta tedesco Heinrich Heine aveva composto dei versi che suonano profetici, nella sua tragedia Almansor del 1821: “Dort, wo man Bücher vebrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen - Là dove si bruciano libri, si finisce per bruciare anche uomini”. Nessuno si stupirà che Heinrich Heine sia stato inserito nel 1933 sulla lista nera degli intellettuali da rogo.

In Fahrenheit 451 il pompiere Guy Montag affronta un caso anomalo e drammatico. Finallora, quando la squadra incendiaria giungeva alla casa da distruggere, il proprietario non era presente: era già stato arrestato dalla polizia, imbavagliato e portato via su una macchina “nera e lucente come uno scarafaggio”. “Non si faceva del male a nessuno, si faceva del male alle cose soltanto!” Questa volta, il meccanismo registra una pecca: sul luogo da purificare, i militi s’imbattono in una signora anziana che ha deciso d’immolarsi in mezzo ai suoi compagni di carta perché priva di loro, la sua vita non ha senso. L’avvenimento scuote con violenza la coscienza di Montag, lo fa barcollare e dubitare. Perde la convinzione di svolgere un’attività benefica e indispensabile. Quando rincasa, si corica e passa la notte insonne ad interrogarsi sulla sua esistenza, sul suo rapporto con la moglie Mildred. La mattina, inchiodato al letto da un accesso di febbre, non si può recare alla caserma ma ad ogni modo, ha già preso la risoluzione di lasciare un lavoro che ormai gli dà la nausea.

Quale sentimento proverebbe oggi Bradbury nello scoprire che il terrificante mostro della censura si è rinvigorito nel suo stesso paese e che ora si desta minaccioso spazzando via centinaia di libri da oltre cinquemila scuole americane? Balle? Purtroppo, no! È di sconvolgente attualità. Texas in testa con alle calcagna Pennsylvania, Florida, Oklahoma, Kansas e Tennessee … hanno cancellato dalle biblioteche studentesche romanzi e saggi che trattano di razzismo e di sessualità non etero, hanno estromesse opere i cui protagonisti sono afroamericani. Trentadue Stati hanno complessivamente rimosso più di 1600 titoli. Al bando le biografie “scandalose” di Rosa Parks, di Martin Luther King, di Nelson Mandela, di Duke Ellington. Lontani dagli occhi Haruki Murakami, J.D. Salinger, Carmen Maria Machado, Toni Morrison. Via dagli scaffali Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut, L’Alchimista di Paolo Coelho, 1984 di George Orwell, Il buio oltre la siepe di Harper Lee…

Come se non bastasse, alcune università del Regno Unito sembrano voler calcare, per ora in modo meno imperativo e cospicuo, le orme americane. Un’inchiesta del Times rivela la decisione presa da certi atenei, come la Essex University o la Sussex University, di censurare decine di libri. Sono allontanate opere letterarie come La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead (seppure acclamata negli Stati Uniti), La signorina Julie del drammaturgo svedese August Strindberg, Pasto nudo di William Burroughs. Da manipolare con cautela Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, Oliver Twist di Charles Dickens e scrittrici come Jane Austen, Charlotte Brontë, Agatha Christie … James Cleverly, sottosegretario dell’Istruzione, s’interpone: “Certo che le università devono proteggere la salute mentale dei propri studenti, ma allo stesso tempo non si può non affrontare il passato. Se alcuni testi sono complessi, vanno capiti, non censurati.

 Televisione

Nel 1927 il ventunenne americano Philo Taylor Farnsworth fabbrica un modello funzionale di televisione elettronica: concentrati in un tubo catodico e convogliati su una superficie fotosensibile, fasci di elettroni generano immagini. Nell’America degli anni Trenta germogliano stazioni televisive ma la televisione decolla veramente all’inizio degli anni Quaranta e si espande a macchia d’olio dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel 1954 i televisori a colore sono già in vendita sul mercato. Alla fine degli anni Cinquanta i prezzi si abbassano, le “scatole a immagini” sono alla portata del grande pubblico e nove americani su dieci possiede un televisore a casa.

Nel 1951, mentre sta scrivendo Fahrenheit 451, Bradbury intuisce il pericolo legato al nuovo mezzo di comunicazione. L’era televisiva segna un cambiamento nelle abitudini: non importa più andare a cercare il divertimento fuori se arriva comodamente a domicilio tramite lo schermo. Lo scrittore analizza gli effetti nocivi che questa nuova tecnica produce sui rapporti umani: un ripiego su di sé a casa propria con un intrattenimento che ammutolisce la creatività, costringe alla passività e impedisce il dialogo. A questo si aggiunge il rischio che lo spettatore faccia un uso compulsivo del mezzo e ne diventi dipendente, ipnotizzato da un contenuto scelto e controllato dalle autorità e vittima inconsapevole di trasmissioni perniciose che invadono la sua sfera privata.

In Fahrenheit 451 si cozzano i comportamenti di due donne di fronte alla TV. La diciasettenne Clarisse McClellan, vicina di casa di Guy Montag, non apprezza affatto il piccolo schermo e preferisce andarsene a passeggio per osservare la natura e riflettere con la propria testa. “Raramente guardo alla TV il programma TRA LE PARETI DEL SALOTTO o vado alle corse e ai parchi di divertimento. Così, mi resta un mucchio di tempo per i pensieri più strampalati, direi.” All’opposto Mildred, la moglie del protagonista, s’incanta davanti alla televisione e passa le sue giornate inscatolata nel salone ad intossicarsi con trasmissioni insulse e inebetenti, trasmissioni che assomigliano come due gocce d’acqua ai nostri attuali reality e talk show. È fredda e indifferente a tutto ciò che esula dai programmi TV al punto di rimanere senza reazione davanti ai preparativi di guerra del suo paese. Accentra la sua esistenza sul punto nodale della casa: i muri del salone che proiettano ininterrottamente la vita di parenti fittizi dandole l’illusione di appartenere a una grande famiglia. “Una cosa davvero divertente. E lo sarà ancora di più quando potremo fare anche l’impianto della quarta parete. Quanto tempo ancora credi che dovremo aspettare prima di poter far portare via quella parete e installare una quarta parete TV? In fondo la spesa non supera i duemila dollari.”

Montag non condivide l’entusiasma di Mildred per la televisione; si sente asfissiato dall’assenza di dialogo, defraudato dal suo diritto di comunicare, frustrato di non essere ascoltato. Esterna così il suo malessere a Faber, il dotto professore: “Nessuno più ascolta. Io non posso parlare alle pareti, perché sono le pareti che urlano verso di me. Non posso parlare con mia moglie, perché sta sentendo quello che dicono le pareti. Io semplicemente ho bisogno di qualcuno che stia a sentire quello che ho da dire.”

 Biblioteca

La televisione è anche il nemico più temibile delle biblioteche; guardare la televisione è rubare tempo alla lettura, è allontanarsi dai libri. Bradbury ha promosso senza tregua la letteratura e sempre difeso con entusiasmo le biblioteche: “You must lurk in libraries and climb the stacks like ladders to sniff books like perfumes and wear books like hats upon your crazy heads - Dovete rintanarvi nelle biblioteche e salire sulle pile come fossero scale per andare ad annusare i libri come fossero profumi; dovete portare libri come cappelli sulle vostre teste matte.” In California, ogni volta che gli è stato possibile, ha partecipato a raccolte di fondi per evitare la chiusura di biblioteche colpite da tagli budgetari. Da quando ha saputo leggere, la biblioteca è stata il suo rifugio, la sua navetta spaziale dell’evasione e della conquista intellettuale: piccolo, si è lanciato di liana in liana dietro a Tarzan, ha esplorato la Terra insieme a Jules Verne, si è addentrato nel mondo misterioso e inquietante di Edgar Allan Poe, ha investigato con Sherlock Holmes, immerso nei romanzi di Arthur Conan Doyle. Visto che le scarse risorse finanziarie della sua famiglia non gli hanno permesso di proseguire gli studi, ha fatto della biblioteca il suo collegio; ha trovato in qualche modo una scuola sostitutiva per la sua mente effervescente e fantasiosa. Non potendo frequentare il collegio, si è recato alla biblioteca tre volte la settimana per dieci anni, si è guadagnato da vivere vendendo giornali e ha trascorso parte delle sue notti davanti alla macchina da scrivere.

Nella sua casa di Los Angeles, i libri hanno colonizzato le pareti; si ritrovano ora allineati sugli scaffali della biblioteca di Waukegan nello Stato dell’Illinois, la città dove ha trascorso i primi tredici anni della sua vita. Voleva lasciarli in eredità alla biblioteca della sua infanzia, la “Waukegan Public Library”, e così è stato: dopo la sua morte, avvenuta il 5 giugno 2012, tutti i volumi hanno abbandonato la casa di Los Angeles e si sono incamminati verso la sua città natale Waukegan, identificabile con il nome “Green Town” nel romanzo Dandelion Wine (L’estate incantata) pubblicato nel 1957, poeticamente ispirato alla sua fanciullezza nell’Illinois.

 Macchina da scrivere

Se per l’autore di Fahrenheit 451 la lettura assume un ruolo di prim’ordine, la scrittura rappresenta qualcosa di ancora più importante. La scrittura oltrepassa la lettura in quanto risulta essere un’attività fondamentale e fondatrice, una linfa vitale. Bradbury fa risalire il suo bisogno quotidiano di scrivere a un’esperienza giovanile, precisamente a un incontro con Mister Electrico. Chi era costui? Era il membro di una piccola compagnia di artisti ambulanti che si esibivano all’aperto facendo tappe qualche giorno nelle città attraversate per proporre un’animazione ibrida, un incrocio tra numeri circensi e attrazioni da baraccone. Era il 1932; Ray aveva dodici anni ed era affascinato dagli spettacoli di magia. Quel giorno, il “carnival magician” Mr Electrico l’aveva individuato fra gli astanti e si appropinquava; la faccia incoronata da capelli ritti sotto l’effetto dell’elettricità statica, il mago, gli toccò il naso con la punta della sua spada “energetica” mentre pronunciava un incantesimo: “Live forever! Che tu possa vivere per sempre!” Per il ragazzo fu un’illuminazione. Da quell’istante fu convinto che sarebbe diventato uno scrittore e iniziò a scrivere tutti i giorni senza mai sgarrare: “I decided that was the greatest idea I had  ever heard. I started writting every day. I never stopped. – Decretai che era l’idea più grandiosa che avessi mai sentita. Cominciai a scrivere ogni giorno. Non mi sono mai fermato.

A Natale di quell’anno, in segno d’incoraggiamento, i suoi gli regalarono “a toy dial typewriter” cioè una macchina da scrivere giocattolo, comunque funzionante. Cinque anni dopo, se ne comprò una vera con dieci dollari. Benché abbia sempre dimostrato diffidenza e sfiducia per le innovazioni tecnologiche, con la macchina da scrivere è stato amore a prima vista: l’ha adottata senza esitare e le è rimasto fedele per tutta la vita. Non ha mai usato il computer; nel 2009 qualifica addirittura Internet di “tempo sprecato”. Sostenitore del libro cartaceo, ha sempre rifiutato la pubblicazione delle sue opere in formato elettronico. Solo per Fahrenheit 451 ha fatto uno strappo alla regola autorizzando nel 2011 il suo formato e-book.

La prima stesura di Fahrenheit 451, The fireman, è nata nella UCLA library’s typing room, nel seminterrato della biblioteca Powell dell’UCLA (University of California, Los Angeles) su una “typewriter” a gettoni, al costo di dieci centesimi per ogni mezz’ora d’uso. Bradbury l’ha concepita in nove giorni, allineando 25000 parole. In un secondo tempo, costruirà la versione estesa e definitiva del racconto con 50000 parole. Nella prefazione del suo libro Zen in the Art of Writting (Lo Zen nell’’arte di scrivere -1989) ribadisce la potenza curativa e salvatrice della scrittura giornaliere: “If you did not write every day, the poisons would accumulate and you would begin to die, or act crazy, or both – Se non scriveste ogni giorno, i veleni si accumulerebbero e comincereste a morire, oppure a dare i numeri, o entrambi.” Dunque, la scrittura come antidoto alla depressione, alla malattia e alla morte. Tramite le sue opere, Bradbury realizza il sogno della sua esistenza: “Vivere per sempre - To live forever”. Per l’appunto, l’ultimo libro che ha scritto s’intitola Now and Forever (Ora e per sempre) …

Fra le tracce che possiamo lasciare del nostro passaggio sulla Terra, la nostra scrittura è forse la traccia più rappresentativa e persistente. In Fahrenheit 451, il ribelle Granger sottolinea l’importanza di lasciare un’opera propria prima di morire per essere ricordato dai viventi e non scomparire del tutto. “Non ha importanza quello che si fa purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta.”

 Automobile e pedone

 Bradbury non aveva la patente: si spostava per le strade di Los Angeles a piedi, in bicicletta (e come lo capisco!) o a bordo di un taxi. La scelta di non guidare gli era stata dettata dalla sua scarsa acuità visiva; basti sapere che, per i suoi problemi di vista, non fu arruolato nell’esercito durante la Seconda Guerra mondiale. Alla base della decisione di non prendere la patente, aveva pesato anche la profonda traccia emotiva che gli rimaneva da quando aveva assistito a un grave incidente stradale durante l’adolescenza. Davvero sorprendente! Ray non è mai stato al volante di un’automobile e non aveva confidenza con le macchine. Ha viaggiato tantissimo con la mente, ma poco fisicamente parlando; è rimasto quasi ottant’anni senza uscire da Los Angeles.

Comodamente seduto nell’abitacolo, un automobilista macina chilometri e riduce senza sforzo i tempi di percorrenza rispetto a un pedone. Tuttavia, quando si tratta di cogliere le sfumature dei luoghi attraversati, il conducente non ha la meglio sull’uomo a piedi. “Alle volte mi coglie il dubbio che gli automobilisti non sappiano che cosa sia l’erba, o come siano i fiori, perché non li hanno mai visti, non ci sono mai passati vicini con lentezza” dichiara Clarisse a Montag. La fretta impedisce di guardare in modo accurato; per afferrare i dettagli, occorre procedere adagio. Si potrebbe stringere il concetto in una formula del tipo: la possibilità di vedere con nitidezza è inversamente proporzionale alla velocità. La giovane Clarisse ha perfettamente capito questo meccanismo d’interdipendenza e lo spiega al pompiere usando l’esempio dei cartelloni pubblicitari: “Avete mai visto quei cartelloni pubblicitari alti come grattacieli ai margini delle autostrade appena fuori città? Lo sapevate che una volta i cartelloni pubblicitari erano alti al massimo sei o sette metri? Ma poi le auto sono diventate così veloci che si è reso necessario dilatare la superficie riservata alla pubblicità, perché gli automobilisti avessero il tempo di leggerla, passando.” Tutto è impostato in funzione della velocità e la macchina deve per forza sfrecciare. Guai a chi tenta di guidarla con più tranquillità, di rallentarne la corsa: è subito un trasgressore. Clarisse confida a Montag: “Mio zio una volta fu colto a guidare lentamente su un’autostrada. A settanta chilometri all’ora, andava, e lo tennero in prigione per due giorni.” Camminare vuol dire seguire il ritmo biologico, è opporsi con la pacatezza all’andamento frenetico imposto dal mondo tecnologico, è prendersi il tempo di osservare gli uccelli, è meravigliarsi davanti all’erba impreziosita da gocce di rugiada, è scoprire il piacere di cogliere fiori, di raccattare noci cadute dall’albero del giardino, di odorare le foglie d’autunno, di assaporare l’acqua piovana e di sentire il suo tocco sulla pelle. “Mi piace buttare la testa all’indietro, come adesso, e lasciare che la pioggia mi cada in bocca. Ha il sapore del vino. L’avete mai assaggiata?” Purtroppo, la lentezza è disprezzata, non gode di un permesso di soggiorno nel mondo accelerato e freddo della tecnologia. La velocità se ne beffa e la stronca: la macchina lanciata a tutta birra si diverte a centrare il pedone come fosse un birillo… “Una macchina gremita di ragazzi d’ogni età, buon Dio, fra i dodici i sedici anni, i quali, lanciatissimi, schiamazzando, fischiando, urlando evviva, avevano visto un uomo, spettacolo davvero straordinario, un uomo che andava a spasso a piedi, una vera rarità, e avevano detto: Becchiamolo!” In Fahrenheit 451, oltre ad essere emarginato e deriso per i suoi interessi fuori moda, per il suo ritmo lento in evidente contrasto con le mosse scattose di una società nevrotica, il pedone è, inspiegabilmente, un uomo di cui diffidare, un delinquente in atto. Sempre a proposito di suo zio, Clarisse racconta: “Lo zio fu arrestato un’altra volta … perché era pedone.” Questa frase echeggia una situazione incresciosa nella quale lo scrittore si è trovato una sera del 1949. Allorché stava camminando in strada con un amico, fu fermato da un agente di polizia, insospettitosi per il fatto che erano gli unici a passeggiare a quell’ora. Alla domanda “Che sta facendo?” Ray aveva pensato bene di ironizzare: “Sto mettendo un piede davanti all’altro”. Il poliziotto se l’era presa e aveva vietato a Bradbury di andarsene a piedi nei luoghi deserti. Tornato a casa, in preda alla rabbia, lo scrittore aveva steso la storia del pedone Leonard Mead, unico uomo della sua città che preferisce gironzolare la sera all’aria aperta piuttosto che guardare la televisione come fanno gli altri. Un racconto eloquente e conciso, pubblicato nel 1951 sotto il titolo The Pedestrian, e che, in seguito, Bradbury indicherà come il prequel di Fahrenheit 451.

Nell’America dei primi anni Cinquanta regnava un’atmosfera di sospetti e insicurezza. All’accesa tensione provocata dalla Guerra Fredda si sovrapponeva il clima pernicioso di intrighi, denunce e arresti ingiustificati fomentato dal senatore repubblicano Joseph McCarthy. Anche Bradbury subì le conseguenze del maccartismo: fu sospettato di attività filocomunista e sorvegliato da agenti speciali. Su di lui l’FBI aprì un’inchiesta che durò dal 2 aprile al 3 giugno 1959.

 Nero / Bianco

 Dalle prime righe del romanzo salta fuori una contrapposizione manichea tra l’oscurità e la luce fra il nero e il bianco. Nere sono le immagini che rappresentano gli aspetti negativi, i comportamenti errati. Dopo il rogo dei libri, sono anneriti il cielo e il vento. È insudiciata “di carbone fossile” la faccia di Montag. Di “color coleottero” è l’elmetto del pompiere. “Dentro il suo budello bene oleato nelle viscere della terra” appare oscura e scivolosa la ferrovia sotterranea che riporta Guy a casa sua nel cuore della notte.  Uno dei colleghi di  Montag si chiama Black . Benché lo spettro della guerra appari solo in filigrana nel romanzo, la sua evocazione è contraddistinta dal colore nero. Bradbury usa il nero per dipingere l’urlo funeste e straziante dei bombardieri a reazione che attraversano lo spazio aereo: “Fu un terribile suono, lancinante, come se due mani gigantesche avessero cominciato a lacerare diecimila miglia di lenzuoli neri lungo le cuciture.” L’apparecchio che strappa Mildred alla morte, dopo il suo tentativo di suicidio, s’insinua nel suo stomaco come “un cobra nero” per risucchiare i veleni ingeriti.

All’opposto, bianchezza e luminosità caratterizzano i lati positivi, ciò che è buono, giusto e auspicabile per la società. Clarisse deriva dal “clarus” latino cioè il “chiaro e lucente”; il suo cognome McClellan potrebbe alludere a quello della moglie di Bradbury, Marguerite McClure o più semplicemente essere un riferimento diretto al senatore democratico John Little McClellan. La ragazza ha la facciabianca come latteo ancora “luminosa come neve al chiaro di luna” e “biancaè la sua veste. Il bianco richiama la sua purezza, la sua innocenza e la sua bontà. Certo, i suoi occhi sono neri ma non indicano malvagità bensì profondità e intelligenza perché brillano di luce propria: sono “limpidi”, “scintillanti”, “due lucenti gocce d’acqua fulgida” e vivaci giacché rifiutano di fermarsi all’aspetto superficiale delle cose. Clarisse è una ragazza che non vuole sapere “come una cosa è fatta ma perché la si fa.” Quanto ai preziosi libri, Bradbury li presenta come uccelli offerti in sacrificio, esseri arrendevoli destinati al rogo: “Un volume scese, quasi docilmente, come un colombo bianco, tra le sue mani, le ali tremule. Nella luce fioca, vacillante, una pagina rimase aperta e ferma ed era come una penna nivea, con le parole delicatamente dipintevi sopra.”

 Fuoco

Nel romanzo viene considerato la doppia valenza del fuoco: un elemento a turno malefico e benefico. Per la sua ambivalenza che oscilla fra aspetto positivo e negativo potrebbe essere accostato al bianco: Herman Melville al quarantaduesimo capitolo di Moby Dick, intitolato La bianchezza delle balene, analizza la simbologia del colore bianco. Da un lato è segno di bellezza (perla), di regalità (elefante bianco), di innocenza, di giustizia (ermellino), di superiorità (razza bianca), di sublime (Apocalisse di Giovanni); dall’altro incute paura perché richiama la morte (pallore), il sudario. È un colore spettrale che intensifica l’orrore di cose o esseri  già terribili di per sé, come ad esempio l’orso bianco o lo squalo bianco... Durante l’adolescenza Bradbury ha sicuramente letto il capolavoro di Melville; nel 1956 ne farà pure l’adattamento cinematografico per il regista John Huston. In Fahrenheit 451, egli rimarca l’ambivalenza del fuoco un po’ come Melville ha enfatizzato l’ambivalenza del bianco. Espone insieme l’azione distruttrice del fuoco e il suo lato protettore e rassicurante. Il fuoco è malvagio in quanto può divorare tutto il creato e ciò che di più nobile esiste della produzione umana: il libro.

“I libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall’incendio.” Il fuoco è pericoloso per l’uomo stesso perché è in grado di annientarlo, di ridurlo in ceneri. Ma il fuoco, dai tempi più remoti, è anche un alleato in quanto fonte di luce nel buio, sorgente di calore nel freddo, fulcro di assembramento e di condivisione per le comunità umane. Per tradizione è associato alla veglia contadina. Un aspetto del fuoco che Montag scopre alla fine del romanzo quando ha cambiato sponda dopo essersi reso conto che non aveva bruciato solo libri ma idee in essi contenute. Prende coscienza che bruciare un libro equivale a cancellarne l’autore e a negare la propria umanità: “Dietro ogni libro c’è un uomo. Un uomo che ha dovuto pensarlo. Un uomo a cui è occorso molto tempo per scriverlo, per buttar giù tante parole sulla carta.” Quando ormai diventato fuorilegge, si rifugia nella foresta per scappare ai suoi inseguitori, si imbatte nell’accampamento di un gruppo di ribelli intellettuali, i “freedom-and book-loving exiles”. Lì vede il fuoco con occhi nuovi; gli appare l’altra faccia del fuoco: “Il poco moto della fiamma, il suo colore bianco e rosso, rivelavano un fuoco strano, dato che per lui significava una cosa ben diversa.

Non serviva a bruciare, ma a scaldare… Non aveva mai sospettato in vita sua che il fuoco potesse dare, esattamente come prendeva. Perfino l’odore era diverso” A dire il vero, nel passato, la fiamma aveva già assunto per lui un significato altro da quello di divoratrice di libri. Una sera della sua infanzia, la fiamma aveva sostituito la luce artificiale durante una breve interruzione della corrente elettrica. L’episodio s’inserisce nelle prime pagine del romanzo e ha il sapore di una madeleine proustiana: “Una volta, quand’era bambino, essendo venuta a mancare la luce, sua madre aveva trovato e acceso un’ultima candela e c’era stata una breve ora di riscoperta, un’ora di tale interiore illuminazione, che lo spazio perdeva le sue vaste dimensioni per farsi confortevolmente loro intorno, soltanto intorno a loro, madre e figlio, che, trasformati, s’erano messi a sperare che la luce elettrica tardasse un bel po’ a tornare.” In questo passaggio la candela non rappresenta soltanto il focolare, la luce primordiale addomesticata dall’uomo ma si erge anche come fievole oppositrice della tecnologia, antagonista dell’“isterica luce dell’elettricità. È simbolo d’introspezione, di dialogo intimo, di calore umano, di serenità. Bradbury teme che l’uso sfrenato dei mezzi tecnologici sofisticati conduca alla passività, alla rarefazione dei rapporti umani, alla scarsità e superficialità degli scambi verbali. La fiamma della candela è l’intelligenza attiva che non si lascia abbindolare dai lumi ammalianti della società dei consumi, che non si accontenta di risposte già pronte; è la luce interiore che Montag nota sul viso di Clarisse: “La sua faccia, volta ora verso di lui, era fragile cristallo di latte, con dentro una luce molle e continua… la luce stranamente confortante, rara e lievemente adulatrice, carezzevole, d’una fiammella di candela.”

3.      Scrittore autorevole

Nei confronti di Fahrenheit 451 si verifica un atteggiamento paradossale. Il romanzo è stato subito acclamato dal pubblico; è considerato un faro della letteratura statunitense eppure, l’hanno censurato varie volte da quando è stato pubblicato. Ci viene da sghignazzare: censurare un libro che parla della censura! Per coloro che lo hanno avversato in passato o che lo osteggiano tuttora, è un’opera di registro volgare perché contiene termini scurrili. Gli rimproverano inoltre i riferimenti all’uso della droga, al suicidio, alla violenza; gli contestano il modo poco riverente di rapportarsi con la Bibbia. Forse sono infastiditi dal grido d’allarme che lo scrittore lancia sui disastri intellettivi provocati dall’abbandono della lettura abbinato a una subdola censura dell’informazione. Sono disturbati da affermazioni come questa: “Non c’è stato nessun governo ad attuare la proibizione dei libri. È stata la società ignorante a ripudiarli in nome della tranquillità” oppure non riconoscono la fondatezza di questa: “Se non vuoi un uomo infelice per motivi politici, non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai: dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno

Nel 1979, per rispondere a quelli che gli chiedevano di modificare i suoi scritti, Bradbury ha aggiunto una nota conclusiva a Fahrenheit 451. Il suo messaggio, presente a ogni ristampa successiva, è assai chiaro e potrebbe sintetizzarsi così: “Non intromettetevi nelle mie opere!” Bradbury sosteneva che il problema centrale della nostra civiltà non era la lotta al terrorismo o alla disoccupazione, era l’insegnamento della lettura e della scrittura. Una pratica che avrebbe dovuto iniziare in età prescolare quando i bambini sono avidissimi di conoscenza e vorrebbero trovare da soli il significato del testo che affianca le illustrazioni dei loro libri preferiti. Si trattava giusto di fare notare al piccolo i segni neri adagiati sul foglio bianco e di invitarlo all’ indagine e al decriptaggio. Con la sua solita impronta poetica Bradbury ci spiega come avvicinare il bambino alla lettura: “Vedi questi insetti, queste piccole cose nere? Te li metti negli occhi e dentro finiscono per trasformarsi nei personaggi illustrati del libro. Ti ricordi Alice nel paese delle Meraviglie. Vorresti saperne di più su di lei? Bene, stacca questi insetti dalla pagina e mettiteli negli occhi, e lei vivrà dentro la tua testa.” Anche al crepuscolo della sua vita, diventato cieco e costretto alla sedia a rotelle, Ray non si è mai spartito dell’entusiasmo dei primi giorni. Nell’introduzione a Fahrenheit 451 che ha redatto nell’aprile 2013, lo scrittore britannico Neil Gaiman lo ricorda in questi termini:

I knew Ray Bradbury for the last thirty years of his life, and I was so lucky. He was funny and gentle and always enthusiastic. He cared, completely and utterly about things. He cared about toys and childhood and films. He cared about books. He cared about stories. This is a book about caring for things. It’s a love letter to books, but I think, just as much, it’s a love letter to people…”

Ho conosciuto Ray Bradbury gli ultimi trent’anni della sua vita, e sono stato parecchio fortunato. Era divertente e gentile e sempre entusiasta. S’interessava in modo totale e intenso alle cose. S’interessava ai giocattoli e all’infanzia e ai film. S’interessava ai libri. S’interessava alle storie. È un libro (Fahrenheit 451) sull’interesse per le cose. È una lettera d’amore ai libri, ma penso che sia, in egual misura, una lettera d’amore alla gente…”

I care” lo diceva un prete in un paesotto sperduto della Toscana nell’autunno del 1954. “Mi interessa” scrisse in inglese sulla porta della sua scuola esperimentale di Barbiana nel Mugello. Oltre a seguire la sua vocazione di curato, curando le anime, si era prefissato di curare le menti, di prendersi cura delle giovani teste isolate nella campagna toscana. I ragazzi di Barbiana erano poveri e in gran difficoltà di fronte al sistema scolastico statale. Don Lorenzo Milani voleva dare loro gli strumenti affinché ottenessero la stessa scioltezza espressiva, la stessa proprietà di linguaggio dei ragazzi borghesi che usufruivano di un ambiente colto e agiato. Si scontrava con la “scuola tagliata su misura dei ricchi. Di quelli che la cultura l’hanno in casa e vanno a scuola solo per mietere diplomi.”

Lorenzo Milano non anelava a guadagnarsi la nicchia del santo, non ambiva all’etichetta “Uomo esemplare”, non si sarebbe fatto un baffo di essere citato dalla Presidente della Commissione europea. Voleva che il suo messaggio fosse ascoltato e capito e che il suo metodo fosse preso in considerazione e applicato. Avrebbe avuto piacere che nel 1958 Esperienze pastorali fosse stato letto e non sospeso dal veto del Sant’Uffizio, che Lettera a una professoressa avesse fatto riflettere e indotto dei cambiamenti di rotta da parte della Pubblica Istruzione. Per insegnare, mischiava severità e dolcezza, usava “una mano di ferro in un guanto di velluto” come si suol dire in Francia. Praticava la lettura collettiva, la scrittura di gruppo, incentivava la discussione e il commento. “Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani”: il punto cardine della sua didattica era l’acquisizione delle parole, del significato preciso di ogni singolo vocabolo perché bisogna conoscere le parole per incrementare un pensiero autonomo, per fare sentire la propria voce e difendersi con incisività contro i soprusi e le ingiustizie, per essere in grado di intervenire con dignità e arguzia nella vita politica, sociale e culturale. “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta” scrisse al direttore Ettore Bernabei del Giornale del Mattino il 28 marzo 1956.

Lorenzo Milani cared about words and kids. He cared about books and newspapers. He loved Humanity. Lorenzo Milani s’interessava alle parole e ai giovani. S’interessava ai libri e ai giornali. Amava l’Umanità.

4.      Trasposizione cinematografica

Nel 1979 Ray Bradbury scrisse una versione teatrale di Fahrenheit 451: un dramma in due atti.

Già tredici anni prima, Fahrenheit 451 era uscito sul grande schermo: François Truffaut ne aveva curato l’adattamento cinematografico; l’aveva girato nel Regno Unito in lingua inglese.

Per il regista della Nouvelle Vague, l’impresa non fu né facile né veloce. Impiegò ben quattro anni a portarla a compimento. Sua nonna materna, appassionata lettrice, gli aveva insegnato a leggere e comunicato l’amore per la letteratura. Da tempo maturava il progetto di una sceneggiatura nella quale i libri sarebbero stati i protagonisti. Un giorno un produttore fece il nome del romanzo di Bradbury e gliene spiegò la trama a grandi linee. Truffaut fu rapito dal racconto benché nutrisse all’epoca molte perplessità riguardo al genere letterario della fantascienza. Decise di portare Fahrenheit 451 al cinema. Aveva trent’anni e quattro film al suo attivo, tutti in bianco e nero. Fahrenheit 451 fu il suo primo film a colore; una scelta imprescindibile visto che voleva esaltare le tinte calde del fuoco. La difficoltà maggiore consisteva nell’animare il più possibile i libri, fare di loro dei personaggi. Pertanto, i libri non ci vengono presentati come una folla anonima di carta stampata. Formano una vasta popolazione dove ogni soggetto si distingue dagli altri con un nome individuale, una copertina singolare, un colore particolare. La prima figura a farsi avanti è Don Chisciotte di Cervantes; ne vediamo spuntare tante altre nel corso del film: The moon and six pence di Somerset Maugham, Vanity fair di Thackeray, Othello, the Moor of Venice di Shakespeare, Madame Bovary di Flaubert, Le Monde à côté de Gyp, Lolita di Nabokov, Moby Dick di Melville. Di Defoe scorgiamo Robinson Crusoe ma anche A journal of the plague year, di Sade Justine, di Salinger The catcher in the Rye (Il giovane Holden), La peau de chagrin di Balzac, Plexus di Henry Miller, Fathers and sons di Turgenev, Jane Eire di Charlotte Brontë, Confessions of an irish rebel di Bredan Behan, The Ginger Man di Donleavy, My Life and Loves di Franck Harris, My autobiography di Charles Chaplin, Jeanne d’Arc di Joseph Delteil, Roberte ce soir di Pierre Klossovski, Zazie dans le metro di Raymond Queneau… Non mancano l’Etica di Aristotele, Gargantua e Pantagruel, Le avventure di Pinocchio, Alice’s adventures in Wonderland. Truffaut fa comparire due poeti francesi che predilige: Jacques Audiberti attraverso Marie Dubois e Jean Genet tramite due delle sue opere The thief’s journal e Les nègres . Si sbizzarrisce. Si offre anche il piacere di bruciare Mein Kampf e di salvare Kaspar Hauser dalle fiamme: due gesti che hanno forza di simbolo.

Trasferisce nel protagonista un po’ della sua storia personale: la smania di leggere che ad un tratto s’impossessa di Montag è la stessa che lo ha ghermito nell’adolescenza e lo ha spinto a divorare quattrocentocinquanta Classiques Fayard, comprati a cinquanta centesimi l’uno, “in ordine alfabetico…senza saltare un titolo, un volume, una pagina”. Comunque, Truffaut non intende la smania di leggere come una bulimia di racconti, un inghiottire testi senza assaporarli. No, la sua smania è ben diversa: corrisponde a un leggere profondo in cui multa cammina insieme a multum. Ce lo dimostra l’episodio del dizionario: nel cuore della notte, Montag sta leggendo. Sul tavolo di cucina sono aperti vari libri ma in quel momento, il pompiere è concentrato su uno di essi, un vocabolario. È assorto nella lettura di una definizione. Voleva trovare una parola il cui senso gli sfuggiva e ora se ne sta gustando il significato “Rinoceronte. Animale del genere rinoceros, degli ungulati perissodattili, di forme tozze e pesanti, di aspetto poderoso con pelle assai spessa e dura.” Così facendo Guy ha imboccato la strada dell’investimento in intelligenza, quella che conduce a comprendere sempre di più seguendo un percorso continuo e inarrestabile. Bisogna conoscere molte parole per “legere multum” ma leggendo multum, se ne imparano altre.

Fa tenerezza la scena dove Montag, imbacuccato in un accappatoio bianco, inizia di notte la sua prima lettura: David Copperfield, l’ottavo romanzo di Charles Dickens. C’è nel suo atteggiamento qualcosa di sacrale; sembra la celebrazione di un culto. Legge tutto a voce bassa, lentamente. Il suo dito segue le parole a una a una: titolo, nome dell’autore, numero delle illustrazioni, nome dell’illustratore, casa editrice, sede della casa editrice. La cinepresa si avvicina e fa un primo piano del dito che scivola sulla pagina “Capitolo I”. Scopriamo insieme a Montag le lettere nere sul foglio bianco. Insieme al protagonista leggiamo l’incipit “ Chapter I:  Whether I shall turn out to be the hero of my life, or whether that station will be held by anybody else, these pages must show. - Se risulterò essere l’eroe della mia stessa vita o se quella posizione verrà occupata da qualcuno altro, dovranno dimostrarlo queste pagine.” La frase è rilevante: esorta a prendere in mano la nostra esistenza e a non permettere ad altri di scegliere per noi, di pensare al posto nostro. Mette in guardia contro il rischio che c’è di passare accanto alla propria vita. Giusto appunto ciò che Montag, più avanti nel film, rimprovera a sua moglie e alle sue frivole amiche: “Voi non vivete, vi limitate ad ammazzare il tempo!” La lettura lo ha trasformato e ha svegliato in lui pensieri autonomi. Non si lascia più plasmare dalla censura e in silenzio, disapprova le considerazioni fuorvianti del suo superiore, il capitano Beatty: “I romanzi non hanno niente da dire. Sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti e cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, cosa assolutamente impossibile.” A riguardo delle opere filosofiche, il giudizio del capo si fa ancora più tagliente e negativo: “Liberiamoci di tutta quella filosofia; è ancora peggio dei romanzi. Pensatori e filosofi dicono tutti la medesima cosa: ho ragione soltanto io, gli altri sono imbecilli. Un secolo ti dicono che il destino dell’uomo è prestabilito, il secolo dopo invece, ti affermano che hai la libertà di scelta. È solo questione di moda; la filosofia è come le minigonne quest’anno e le gonne lunghe l’anno prossimo… Bruciamo questi mucchi di contraddizioni, Montag! Noi lavoriamo per la felicità dell’uomo.” Basta tenere gli uomini lontani dai libri per farli felici perché “i romanzi sono lacrime, i romanzi parlano di suicidi, parlano di malattie.”

Nel film, le pagine dovevano bruciare in modo estetico, torcersi e avvolgersi come delle conchiglie, mutarsi in fiocchi di cenere. Bisognava ottenere una combustione graduale per lasciare allo spettatore il tempo di indovinare una frase, scoprire un titolo, riconoscere una copertina, vedere la scomparsa progressiva di una fotografia o di un’illustrazione. Truffaut si sarebbe potuto accontentare di filmare da lontano il rogo di una catasta di libri o l’incendio di volumi sparpagliati in terra ma non gli bastava, voleva avvicinarsi al fuoco per mettere in risalto la tragedia delle singole opere, desiderava martellare la sua pellicola con la ripetizione lancinante di agonie personalizzate.

Pregnante è l’inquadratura del libro The World of Salvador Dali di Robert Descharnes, fotografo e segretario del pittore. Siamo un istante prima dell’autodafé, nella casa-biblioteca della vecchia signora risoluta a seguire i suoi amici di sempre nella morte. Al capitano Beatty che le ha proposto di salvarsi, ha appena risposto con fermezza: “Questi libri erano vivi, parlavano con me!” E vivi lo sono ancora: le pagine del libro di Dali girano guidate da una mano invisibile. Fotografie e riproduzioni di pitture si susseguono come pulsazioni cardiache: il cuore del libro batte ancora prima del martirio. Continua pur a battere quando un getto omicida di cherosene blu si spande sulle pagine inermi: sembra di assistere agli sforzi inutili di una farfalla intrappolata in una ragnatela liquida. Ormai non c’è più scampo per i fragili petali del fiore risucchiato da un vortice mortifero.

L’antidoto alla distruzione sistematica della scrittura è la memoria. Imprimere nella mente i libri per salvarli dal rogo, renderli inaccessibili al fuoco e poterli restituire sulla carta in tempi migliori, è il compito che si è assegnato un gruppo di uomini per resistere alla censura e proteggere letteratura e conoscenza. Ciascuno sceglie un libro, lo impara a memoria e ne distrugge la traccia cartacea. Ognuno si muta in Uomo-libro e viene identificato col nome dell’opera che ha imparato: c’è Aspettando Godot, c’è La Repubblica di Platone, c’è Il Principe di Machiavelli, c’è Cronache Marziane (un ammiccamento di Truffaut a Bradbury) e tanti altri… La neve cade soffice e silenziosa sull’accampamento degli intellettuali, custodi segreti del sapere umano. Quanto durerà l’inverno? Avrà fine? Truffaut non si sbilancia, ci lascia nell’inquietudine.

 5.      Finale di Bradbury

Per Bradbury il futuro si staglia in un orizzonte meno cupo; il suo romanzo distopico si conclude con una nota di speranza. Il suo punto finale potrebbe essere un punto di ripartenza.

L’esplosione di una fulminea guerra nucleare ha distrutto la città. Lo scrittore richiama lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Mentre scrive Fahrenheit 451 ha in testa i tragici eventi di qualche anno addietro, dell’estate 1945, quando il 6 e il 9 agosto di quell’anno, l’essere umano ha sperimentato un ordigno che lo può fare scomparire dall’universo, un’arma in grado di portarlo all’estinzione totale. “Davvero, Homo Sapiens?” s’interroga Bradbury. Comunque sia, non perde fiducia nell’uomo, un uomo capace della più impensabile efferatezza ma anche della più improbabile resilienza. Dopo la mostruosa sciagura, Montag e i suoi compagni si avviano speranzosi in direzione della città polverizzata. Come i profeti biblici, sono decisi a guidare gli uomini sul sentiero della giustizia e della pace. Vogliono fare sentire ai superstiti una voce che trae la sua saggezza dalla storia del pensiero umano, dai libri che sono al riparo nei loro cervelli. E se la gente non ascoltasse? Bisogna perseverare; mai perdersi d’animo o darsi per vinti. “Se il mondo non ascolterà, dovremo semplicemente aspettare ancora. Trasmetteremo i libri ai nostri figli, oralmente, e lasceremo ai nostri figli il compito di fare altrettanto coi loro discendenti.”

La testa di Montag non è una biblioteca vuota, custodisce alcuni versetti di due Libri della Bibbia: il Qoelet e l’Apocalisse di Giovanni.  Qoelet, nome col quale lo scrittore ebraico designa sé stesso nel primo capitolo, sarà tradotto Ecclesiaste nella versione latina della Volgata. L’Ecclesiaste (o il Qoelet) è un ketubim cioè un libro sapienziale dell’Antico Testamento. Si compone di 12 brevi capitoli redatti intorno al III secolo a.C. Dalle sue pagine escono espressioni che suonano familiari come “Tutto è vanità”, “Niente di nuovo sotto il sole”, “Andare a caccia di vento”, “Tutto è come un soffio” … L’Ecclesiaste ci spiattella con amara ironia l’assurdità della nostra vita, la vanità dei nostri sforzi, la nostra impotenza davanti alla morte. Ci palese l’alternarsi continuo e monotono della vita e della morte, della demolizione e della costruzione, del pianto e del ridere, dell’amore e dell’odio, della guerra e della pace. Mentre sta camminando verso la città distrutta, Montag rimemora le parole del Qoelet e annuisce: “Per ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa…” Questo qualcos’altro è la possibilità che abbiamo di costruire un mondo migliore, animati dalla volontà di non ripetere gli errori del passato, di interrompere il ciclo infernale della Fenice che “ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci s’immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare.”

San Giovanni a Patmos (1489)

Hieronymus Bosch

Questo qualcos’altro è la speranza di realizzare sulla Terra una città che si avvicini a quella perfetta dipinta da Giovanni nella sua Apocalisse (non da intendere come “catastrofica fine del Mondo” ma come “messaggio di ottimismo”); il desiderio di fondare un regno intramontabile di giustizia e di pace. Nelle righe conclusive del suo romanzo, Bradbury riporta il versetto 2 capitolo 22 dell’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo capitolo dell’ultimo Libro della Bibbia: “E sull’una e sull’altra riva del fiume v’era l’albero della vita che dava dodici specie di frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell’albero erano per la guarigione della gente.” Ecco il messaggio che Montag serba e vuole comunicare ai superstiti della tragedia nucleare. Il libro è salvezza, è l’albero della vita che nutre e cura. Da un lato racchiude il sapere umano e affranca dall’ignoranza; dall’altro conserva il ricordo degli errori commessi e offre la possibilità di correggerli, di sbagliare sempre meno. Fa cadere un’asserzione come quella del versetto 11 capitolo 1 del Qoelet: “Non c’è più ricordo delle cose passate, come non ci sarà delle cose avvenire presso coloro che dopo vivranno.” Il libro permette all’uomo di non perdere la memoria e di migliorare se vuole. Se sapessimo con nitidezza le immani conseguenze dei conflitti armati della Storia, non faremmo più la guerra. Lo dichiara fiducioso il sovversivo Granger prima di mettersi in cammino con gli altri Uomini-libri per raggiungere la città azzerata dalla bomba atomica: “E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra.”

Succede che i buoni scrittori, quelli che “toccano la vita” e infondono “sostanza” secondo l’espressione del vecchio professore Faber, facciano tutt’uno con la loro opera: Dante è La Commedia, Cervantes è Don Chisciotte, Tolstoj è Guerra e Pace, Proust è La Ricerca, Joyce è Ulisse, Marx è Il Capitale… Bradbury è sepolto a Los Angeles; la sua tomba riporta un semplice epitaffio: “Author of Fahrenheit 451”.

“C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” dice il Qoelet. È giunto il tempo di ultimare questo mio lungo discorso. Vi lascio con una mia considerazione utopica “Se fosse un’attività svolta sul modo “legere multum” e condivisa dall’intera comunità umana, la lettura salverebbe il mondo” e un’affermazione incontrovertibile di Ray Bradbury “Non devi bruciare libri per distruggere una cultura, basta che la gente smetta di leggerli.”

 

                                                                                                              Joëlle

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