Simpatia e affinità

Secondo me, la simpatia non si coltiva. Non è in grado di svilupparsi con delle cure adeguate. La considero un substrato indispensabile alla crescita di un’amicizia o una condizione favorevole alla nascita di un amore. È un’inclinazione istintiva di gradimento. Davanti a una persona che incontro per la prima volta, scatta un meccanismo indipendente da ogni riflessione: mi appare simpatica oppure no. Di rado questa sensazione “a pelle” m’inganna: antipatia e simpatia sono segni premonitori. “Le antipatie sono un primo movimento e una seconda vista” scrive Goncourt. La simpatia, quando è condivisa, costituisce il preludio di una nuova amicizia.

In qualsiasi rapporto interpersonale, lo sguardo è essenziale. Posso ammirare il taglio degli occhi, il colore dell’iride ma in fondo sono accessori perché quello che conta risiede nell’intensità dello sguardo. I nostri occhi tradiscono o rivelano stati d’animo; sono piccole porte aperte sul nostro mondo interiore. Di fronte a una persona sconosciuta capto istantaneamente il suo sguardo: non mi piacciano gli occhi spenti, quelli freddi o quelli sornioni. Sono colpita da occhi che sprizzano di vita, che sono profondi. Mi piace uno sguardo dritto e leale. Sono attratta da un sorriso radioso e spontaneo, diffido di quello artificiale e forzato che sembra stampato sul viso. Poi, la stretta di mano deve essere forte e decisa perché non sopporto le mani molli e inconsistenti che si svincolano come viscide anguille.

Aver affinità con un’altra persona presume l’esistenza di una reciproca simpatia; senza di quella, non c’è affinità possibile. Poi giungono criteri selettivi secondo interessi personali e modi di concepire l’esistenza. Mi accosto volentieri alle persone desiderose di ampliare le proprie conoscenze, decise ad allargare l’orizzonte della propria cultura. Ho piacere a scambiare con loro punti di vista e informazioni, a patto che non adoperino un tono dottorale e si atteggino a “tacchini pavonati”. In tale caso, mi allontano anche se hanno cose interessanti da esporre. Apprezzo l’umiltà e la semplicità. Trovo ridicoli gli stolti che si credono intelligenti. Provo indignazione nei confronti dei dotti che usano il loro sapere per schiacciare i meno istruiti o peggio ancora, per ingannarli.  Le conversazioni superficiali mi annoiano: non potrei legare con uomini che considerano di primaria importanza le vicende dei calciatori della loro squadra preferita, con donne che fanno salotto sulle tendenze della moda o i prodotti di bellezza più efficaci. Sono attratta dalle persone “solari” perché affrontano la vita in modo positivo: vedono il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Si rallegrano di quello che possono fare e non piangono sulle cose che non sono in grado di compiere. Gli individui che si lamentano di continuo mi fanno fuggire; non ho nessuna voglia di tuffarmi nel loro pessimismo. “La lamentela è un buco nella vasca della tua felicità” asserisce un detto buddista. Sono attratta dalla gente dotata di un forte senso dell’umorismo. L’ironia serve a sopportare tante prove difficili della vita. La risata è l’unguento in grado di alleggerire molte sofferenze. Ridere e scherzare insieme a persone con le quali ho affinità, rinforza la complicità e accresce l’intesa. Scanso le persone seriose.

Ora mi chiedo: dopo la scintilla iniziale di simpatia, può bastare la stessa volontà di arricchire il proprio bagaglio culturale? È sufficiente la stessa voglia di leggere la vita in chiave positiva con ironia e senso dell’umorismo? Quest’intesa può essere chiamata “amicizia”? Potrei ancora aggiungere che sono attratta dalle persone sensibili, buone e generose ma non basta. C’è una dimensione imponderabile, non definibile con criteri precisi perché uno scambio reciproco diventi amicizia.

 

                                                                                                                                           Joëlle

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