Poesia della nebbia

Grazie Nebbia!

Insolito ringraziamento.

“Grazie, Sole!” e “Grazie, Pioggia!” si capiscono al volo ma “Grazie, Nebbia!” (Thank you, Fog) lascia perplessi. È il titolo della raccolta di poesie dello scrittore angloamericano Wystan Hugh Auden pubblicata nel 1974, l’anno successivo alla sua morte. Questo titolo corrisponde agli ultimi versi di una delle poesie contenuta nella raccolta:

Effetto nebbia.   Palazzo del Parlamento a Londra

Claude Monet (1840 -1926)

Nessun sole d’estate potrà mai dissolvere

le Tenebre totali diffuse dai Giornali,

che vomitano in prosa trasandata

fatti violenti e sordidi

che non riusciamo, sciocchi, ad impedire:

la terra è un brutto posto,

eppure, per quest’attimo speciale,

così tranquillo ma così festoso,

ti rendo Grazie: Grazie, Grazie , Nebbia.

 

 Nel 1972 Auden si stabilisce in un cottage del Christ Church College a Oxford dove ha studiato durante la sua adolescenza. Dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti, fa ritorno alla sua terra natale. Lì ritrova con piacere la nebbia della sua giovinezza, “Sorella immacolata” dello Smog di New York e “acerrima nemica della fretta”.

La nebbia non è solo un fenomeno atmosferico legato al clima umido dell’Inghilterra. Per Auden è soprattutto la metafora di un periodo di tranquilla felicità, di un “attimo speciale”, di un posto appartato dove per un momento può illudersi di vivere in un mondo di pace e dimenticare i “fatti violenti e sordidi” della realtà umana.

Cavalcando la metafora, si potrebbe dire che la nebbia filtra l’abbagliante realtà con il velo delle utopie e delle speranze per affievolire le angosce e fare indietreggiare la disperazione. Nella nebbia, scrive l’uruguayano Mario Benedetti nel suo poema Uomo che guarda attraverso la nebbia (Hombre que mira a través de la niebla ):

…L’angolo perde il suo spigolo affilato

Nessun direbbe che esiste la crudeltà.

Stare nella nebbia, non è seppellire la testa a mo’ di struzzo. È guardare il paesaggio senza volere mettere a fuoco. È rifiutare una visione nitida delle cose, essere come un miope che si toglie gli occhiali. È stare in un ambiente sfocato come la piccola Eugenia nel racconto Un paio di occhiali della scrittrice Anna Maria Ortese. Nell’Italia del dopoguerra, Eugenia si muove in un mondo annebbiato per colpa della sua vista bassa. È una bambina “mezza cecata” del quartiere povero di Napoli. Allorché indossa per la prima volta gli occhiali che zia Nunzia le ha regalato, lo squallore di ciò che la circonda la colpisce come un pugno in pieno viso. Forse la zia non sbagliava quando in precedenza aveva sentenziato con malinconia: “Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo”.       

 Per Giovanni Pascoli, la nebbia non è un velo che permette di distaccarsi dalla malvagità e di sognare a occhi aperti un mondo più giusto e solidale. Nella sua poesia Nebbia, il fenomeno atmosferico assume la valenza di uno scudo protettivo. Il poeta non invoca la presenza della nebbia per smussare gli angoli della realtà e attenuarne la cruda visione, ma vuole che la nebbia gli faccia da muro. Vuole che si erga come una cinta per difenderlo dal mondo ostile fatto di cose lontane nello spazio, ma anche lontane nel tempo. Così, la nebbia delimita un nido rassicurante che contiene poche cose familiari e lenitive e che, nello stesso tempo, esclude i ricordi dolorosi.

… Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che danno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

 

Quindi, Pascoli intende la nebbia come una culla che lo separa dal mondo esterno sconosciuto e pieno d’insidie; una culla dove trova il miele che addolcisce la sua vita tormentata.

Ben diversa è l’immagine della nebbia per Marsilio Ficino che la dipinge come simbolo della  nostra condizione esistenziale precaria: “Ansio troppo e infelice è l’uomo in terra collocato dalla natura in una nebbia mezza tra giorno e notte.

Considerando la nebbia non più in termini metaforici ma dal punto di vista meteorologico, la si potrebbe definire come l vapor che l’aere stipa (il vapore che addensa l’aria) secondo il verso di Dante  e che “piovigginando sale” alla maniera di Giosuè Carducci.

Se dovessi ringraziare la nebbia, la ringrazierei soltanto quando sono a casa, al sicuro nel mio ambiente familiare. Allora mi sento avvolta in una coltre quando mi affaccio alla finestra e che il paesaggio è diluito in un fumo lattiginoso, che i rumori sono attutiti da un’aria cotonosa.

Ma se mi trovo sull’autostrada mentre salgono i banchi di nebbia, la scarsa visibilità fa sorgere in me irrequietezza per il timore di un incidente stradale.

 

Joëlle

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