Che cosa influenza la mia vita?
Mi hanno chiesto: “che cosa influenza il corso della tua vita? La predestinazione, il caso, la necessità, la libera volontà o cos’altro?
A prima vista, domanda da quiz. Basta spuntare una delle parole elencate per svolgere il compito. Bene, scelgo l’ultima della lista. Ho individuato il fattore che influenza il corso della mia vita: la volontà. Sì, “volontà” è il termine giusto! La parola è corredata di un aggettivo che ne rafforza il concetto: “libera”. Che cosa implica? Significa che sono artefice del mio percorso esistenziale. Della mia vita, tesso i fili; ne compongo la stoffa. Decido l’orientamento della mia esistenza, senza intralcio. È davvero così?
Ora, annuso la complessità del quesito. Sono stata ingannata dalla sua apparente semplicità: non si tratta di una domandina. La domanda è tosta. La mia risposta, breve e univoca, non mi soddisfa. Bisogna effettuare una distinzione nell’elenco proposto. “Predestinazione” e “caso” si riferiscono a elementi esterni che non dipendono da me, mentre “necessità” e “libera volontà” riguardano il mio agire. Di più, ogni coppia di parole è costituita da due termini antagonisti. Così, la “predestinazione” si scontra con l’idea del “caso”. Così, la “necessità” impedisce alla “libera volontà” di esprimersi.
Non credo alla predestinazione. Sarebbe credere che la mia vita si svolga secondo il copione scritto da un’entità superiore o da una divinità. Sarebbe pensare che tutto sia già formulato, ogni mio passo calcolato, ogni mia mossa prevista. Nessuna libertà di manovra, nessuno spazio all’improvvisazione. Chi sono? Nello sceneggiato della mia vita, sono un’inconsistente comparsa, nemmeno l’attrice protagonista e meno che mai il regista. Un pupo azionato da un burattinaio. Rifiuto di essere una creatura in cammino su una strada predefinita.
Non sento di avere un percorso prestabilito. Mi considero frutto dell’azzardo: la mia esistenza si è giocata su un lancio di dadi. Sono il prodotto dell’incontro fortuito fra due gameti; sono uno zigote come dicono gli scienziati. Pure il mio luogo di nascita e il mio ambiente familiare sono casuali. Mi è andata bene, ossia ho avuto fortuna. Sono nata in Europa in una famiglia benestante; potevo capitare peggio, molto peggio. Di tanto in tanto ci penso.
In questi giorni, ci ho pensato. All’Istituto degli Innocenti, una mostra fotografica mi ha colpita. In una cava di granito del Burkina Faso, centinaia di donne con le mani e il corpo per unico strumento di lavoro, trasportano senza tregua pesanti massi, sotto un sole di piombo, nell’aria polverosa satura dal fumo di copertoni bruciati. Un lavoro da bruti, pagato qualche euro il giorno. Insieme alle donne, nella buca infernale della cava di Pissy, ci sono i loro bambini. Questi ragazzini si affacciano nella vita in un pessimo scenario. Hanno una partenza sfortunata.
Il caso, dopo aver segnato la mia nascita, si manifesta durante la mia esistenza. Scombussola i miei progetti, migliora le mie condizioni o le peggiora. Ha la peculiarità di essere imprevedibile. Mia suocera aveva una maniera ben toscana di rammentarlo: “Fin che si ha denti in bocca, non si sa i che ci tocca”. Se il caso fosse un oggetto, lo assimilerei a un lanciapalle, l’attrezzo usato per allenare i giocatori di tennis. Sarebbe un lanciapalle incontrollabile che modifica la direzione e la forza della pallina, a ogni tiro. Perché questa precisazione? Si capisce che un macchinario di questo tipo coglie alla sprovvista e non permette di anticipare.
Poi, allo “sputa-palline” non importa se riesco a battere oppure no, se la palla supera la rete o ne rimane intrappolata. Non è un allenatore che cerca di farmi vincere, non è un avversario che mi vuole portare alla sconfitta. Mi trovo di fronte a una fredda macchina dal meccanismo capriccioso. Con il caso, non gareggio; compongo in funzione di quello che mi presenta. La mia libertà si esprime nella risposta. Quando la palla arriva nel mio campo, decido io la battuta.
Il corso della mia vita serpeggia fra avvenimenti imponderabili legati al caso e reazioni volontarie. Trentadue anni fa, ho impresso una svolta alla mia esistenza. Già trentadue anni! Il tempo scorre così veloce. Avevo deciso di effettuare lo stage di fisioterapista in un centro di riabilitazione funzionale, ad Ajaccio. Un anno prima, un fiorentino ci aveva trascorso quattro mesi e mezzo dopo un complicato intervento di protesi alle anche. Era tornato l’anno dopo per altri tre mesi di rieducazione, giusto appunto nel periodo del mio stage. Non figurava sulla lista dei miei pazienti. Parlava poco francese e aveva bisogno dell’aiuto di un amico corso per tradurre i suoi pensieri. Non conoscevo l’italiano, ero selvaggia e diffidente, sarei dovuto scappare eppure ho voluto comunicare. Siamo diventati amici e un anno dopo, ci siamo sposati.
Tutto questo da imputare al caso? Il caso ha fatto sì che ci siamo trovati nello stesso luogo allo stesso momento. Il resto, l’abbiamo voluto noi. È vero, i sentimenti non obbediscono alla ragione ma non mi sono lasciata guidare solo da essi, ho ponderato la decisione prima di lasciare la Francia e di lanciarmi nell’avventura. Mi sentivo di fronte a un bivio, la mia testa brulicava d’idee contrastanti. Genitori e amici prodigavano consigli ma si trattava della mia vita e la decisione mi apparteneva. Se la mia scelta si fosse rivelato un fallimento, lo avrei voluto imputare solo a me stessa. A ventuno anni, mi sembrava presto per decidere il cammino da intraprendere comunque ho deciso di venire a vivere in Italia e non lo rimpiango. Se avessi scelto di non ascoltare i miei sentimenti, di rimanere in Francia, la mia vita avrebbe preso un altro corso.