Palomar e le bestie

Siamo sinceri! Quanti fra noi, alzando gli occhi al cielo, non pensano “ci risiamo!” quando Giuseppe* pronuncia il fatidico “Palomar”? Ebbene sì! Il protagonista eponimo del romanzo d’Italo Calvino è diventato a sua insaputa il tormentone del nostro viaggio Dal secolo della Scienza a quello dei Lumi. Inutile negare che le meditazioni e gli esperimenti del signor Palomar lascino perplessi e facciano spesso spazientire. A questo giro, il pungiglione di Calvino ha innescato in me una gran voglia di buttar giù quattro righe, secondo l’espressione consacrata del nostro caro prof*.

A / Palomar e l’iguana:

Anche nei brani L’ordine degli squamati e Il fischio del merlo, il protagonista calviniano mette degli animali sotto la sua lente d’ingrandimento ma lo sguardo dell’iguana e il canto del pennuto non mi lasciano il sentimento di tenerezza misto a tristezza che invece provo per la grande scimmia bianca. Con Il gorilla albino mi sento tirata in campo.

Non apprezzo molto gli zoo e non ne conservo bei ricordi. Quando mia figlia era piccola, siamo andati allo zoo di Pistoia e ho in memoria un elenco assai edificante: uno scimpanzé che batteva la mano contro le sbarre per richiamare l’attenzione ed elemosinare qualcosa da mangiare; un asino in fregola che ragliava come un ossesso; un leone guercio che si spostava senza sosta in una gabbia esigua; un procione che andava a picchiarsi la testa contro le pareti del suo loculo ad intervalli regolari; un orso bianco che nuotava in una tinozza d’acqua torbida. Così, il cortile-prigione del gorilla bianco di Barcellona, rinverdito da un alberello spoglio, sta in linea con i miei ricordi.  Negli zoo in generale, provo compassione per gli animali rinchiusi e un senso di profonda desolazione.

  Allora, mi chiedo perché il rettilario del Jardin des Plantes del brano L’ordine degli squamati non mi ha lasciato la stessa impressione benché sia pur esso, un ambiente carcerario.

Quando Palomar si reca allo zoo parigino dei rettili, è più per meditare che per osservare gli squamati distribuiti nei vari reparti. A mano a mano che la sua visita prosegue, è invaso da una sensazione di disagio e di soffocamento. I rettili assumono forme stravaganti e misteriose così da sembrare frutti dell’oscuro intreccio fra regno animale, vegetale e minerale; sono incomprensibili e inquietanti. Non ci viene da compatirli: corazzati e ben armati, sono imperturbabili e indifferenti alla presenza umana. Si muovono con lentezza in mondi atemporali sigillati in teche vetrate. Erano sulla Terra prima di noi e con molta probabilità, ci sopravviveranno. Non siamo capaci d’immaginare un mondo futuro che ci escluda, che possa esistere senza di noi. I rettili sono la testimonianza vivente che è esistito un mondo senza l’uomo. Prendere in considerazione il nostro essere fragili e accessori, bacchetta la nostra naturale supponenza, mette le cose in chiaro ma è allo stesso tempo, agghiacciante e insopportabile. Ecco la calda, umida e acre lezione d’umiltà che Palomar trae dal suo passaggio nel padiglione dei rettili; ecco spiegato il motivo per cui ha fretta di lasciare un luogo che evidenzia magistralmente la nostra debolezza e la nostra contingenza.

B / Palomar e il gorilla:

Nel brano Il gorilla albino sono assenti aculei, scaglie, creste spinose, squame, aggeggi strani e minacciosi. Siamo in presenza di un animale peloso a sangue caldo; si tratta di un mammifero dell’ordine dei primati e della famiglia degli ominidi come noi. Nel mirino di Palomar, c’è un gorilla di pianura realmente esistito che ha trascorso quasi tutta la sua vita allo zoo di Barcellona.  Nel 1966, è arrivato lì giovanissimo, portato dal primatologo catalano Jordi Sabater Pi. Lo studioso l’aveva acquistato a caro prezzo da un contadino in Guinea equatoriale. L’uomo di etnia Fang aveva massacrato l’intero branco di cui il cucciolo faceva parte e il piccolo avrebbe condiviso la triste sorte dei membri del suo gruppo, se non fosse stato una “mosca bianca”, se non avesse avuto una caratteristica morfologica unica causata da un’anomalia genetica: era ricoperto d’un pelo candido. Il contadino non l’aveva risparmiato per clemenza ma nella gretta prospettiva di ricavarne una succosa ricompensa. La tuta nevicata del giovane gorilla, oltre ad avergli salvato la vita, ha condizionato la scelta del suo nome. Si chiama “Floquet de Neu”, ossia “Copito de Nieve” in castigliano e “Fiocco di Neve” in italiano; appellativo buffo e inadeguato ora che la sua stazza lo fa assomigliare più a una montagna che a un fiocco.

 

Osservando Copito de Nieve, Palomar prova qualche difficoltà a classificarlo: sembra un essere a metà strada fra la bestia e l’umano. Dapprima, gli appaiono i suoi tratti fisici paradossali: la pelle rosea d’uomo bianco in contrasto con l’assenza di naso; il pelo bianco e le rughe, attributi della nostra vecchiaia, in contradizione con la sua giovane età; delle mani di cui non si serve per creare ma per camminare. Tuttavia, ad intrigare maggiormente Palomar, è l’atteggiamento antropomorfo della grande scimmia. Al contrario della sua femmina, non tratta il copertone di pneumatico a mo’ di poltrona. Per lui è ben più di un materiale destinato a ricevere il suo posteriore; è un artefatto affettivo di cui non fa un uso pratico. Lo stringe a sé come fosse un tesoro e non lo lascia mai. A Palomar rimane oscura la causa del suo attaccamento; non capisce se per lui sia “un giocattolo, un feticcio o un talismano”. Potrebbe essere un amico di gomma che lo conforta oppure un balocco per spezzare la noia delle sue giornate o ancora uno scudo per proteggersi dagli sguardi indagatori della massa brulicante dei visitatori. Le ipotesi sono tante. Copito de Nieve non è in grado di analizzare e di spiegare il suo comportamento perché gli mancano le parole; perché è estraneo al mondo dei simboli. Quando abbraccia il copertone, cerca di trovare un appiglio in un ambiente che soffoca la sua libertà e dove si sente barcollare; ma questo non lo sa. Siamo noi a interpretare i suoi gesti perché abbiamo a disposizione i segni che ci permettono di formulare un pensiero e di esprimerci in modo preciso. Le mosse del gorilla bianco sono il simulacro delle mosse fatte dall’uomo millenni fa: “l’investire sé stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli”. Per noi, il copertone non è soltanto un oggetto materiale, è anche “un cerchio vuoto” che può simboleggiare una cosa concreta come una arancia, una faccia o la luna ma anche essere un segno astratto come lo zero e la lettera O. Il materiale si fa spirituale; il terragno diventa etereo. Da chi è figlio il nostro pensiero? Da una coppia primordiale di parole: “Paura – Bisogno”. “Lo sgomento di vivere” fa nascere “il bisogno d’una cosa da tener stretta” per placare l’angoscia e rassicurarsi. Davanti a un mondo che non capisce, il cui senso gli “sfugge”, l’uomo ha trasformato le cose in simboli e ha articolato un pensiero. Dopo l’oscurità di una notte priva di significato, nasce la luce del pensiero che dà un senso alle cose: “un primo albeggiare della cultura nella lunga notte biologica”. Immagino una ripresa cinematografica in cui Copito de Nieve interpreta l’Alba del Pensiero mentre la sua femmina è la Lunga Notte Biologica. La cinepresa si sposta dal cortiletto dove il gorilla nero tranquillo fa dello pneumatico un posto per sedersi, al cortile del gorilla bianco inquieto che trasforma il copertone in un amuleto. Copito de Nieve rappresenta l’Uomo di 2500 anni fa che, stringendo a sé gli oggetti come simboli, s’incammina sulla via del pensiero.

 

Tiro un sospiro di sollievo. Ora mi posso rilassare: ho scoperto la chiave di lettura del brano. Eh no, povera illusa! Hai aperto una porta e te ne trovi altre da aprire. Calvino non si ferma; va avanti nell’interrogarsi sulla funzione e la portata delle parole. La parte finale del suo racconto lascia perplessi e accende molte riflessioni. Le parole sono segni che abbiamo inventato per esteriorizzare le nostre paure, per comunicare i nostri sentimenti, per trovare un ordine nel mondo in cui siamo immersi. Insomma, le parole ci permettono di ricordare e di pensare, ma sappiamo usarle per farci capire dagli altri? Le parole sono capaci di raccontare tutto? Copito de Nieve non è solo il simbolo dell’uomo che comincia a pensare tanti secoli fa; l’immagine che lo raffigura con il copertone stretto al petto, è un’icona che ci rappresenta tutti, ogni volta che non riusciamo a farci capire con le parole. Palomar è il gorilla bianco quando, uscito dallo zoo, rimane incomprensibile per i suoi simili: vuole parlare di quello che ha visto e non “riesce a farsi ascoltare da nessuno”. Siamo il gorilla bianco quando non troviamo le parole per esprimerci, quando rimaniamo impigliati in sentimenti che sono intraducibili con le parole, quando vorremmo spiegarci il perché della nostra esistenza. Siamo lo scimmione bianco quando cerchiamo di “raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono”. Mi vengono in mente quattro versi di una canzone d’Yves Duteil:

 

Et c’est parfois dans un regard, dans un sourire       

Que sont cachés les mots qu’on n’a jamais su dire,    

Toutes les choses qu’on ne dit pas,

Et dont les mots n’existent pas. 

 

E a volte, è in uno sguardo, in un sorriso

che sono nascoste le parole che mai riusciamo a dire,

tutte le cose che non si dicono, e le cui parole non esistono.

 

A Palomar, non occorre che Copito de Nieve parli, per rendersi conto che è un “gigante triste”. Lo legge nei suoi occhi, capisce la sua sofferenza dal “lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia”. Intende il linguaggio corporale di una bestia silenziosa: gli “sembra di capire perfettamente il gorilla”. A questo punto, sorge un altro interrogativo: se il nostro pensiero ci permette di analizzare e di capire ciò che facciamo, d’interpretare il mondo esterno, perché non agiamo in modo corretto, nel senso del bene? Visto la tristezza e il disagio di Copito de Nieve, come mai lo manteniamo in detenzione? Forse perché è “l’unico esemplare al mondo” di gorilla albino e dunque attrae un gran numero di visitatori. A che scopo l’Uomo mette e lascia in gabbia delle bestie? Per la mera ed egoista soddisfazione di osservarle dal vivo oppure per convincersi di essere un animale superiore e palesare il suo dominio sulle bestie?

C / Palomar e il merlo:

Nel brano Il fischio del merlo, niente zoo e niente gabbia: il precedente giardino zoologico pubblico delle due metropoli francese e spagnola cede il posto al giardino privato di Casa Palomar. Comodamente seduto su una sdraio, il protagonista sta “lavorando” nel tardo pomeriggio di una giornata estiva, quando una coppia di merli distrae la sua attenzione. Regolarmente, ci casca: gli sembra che una persona amica voglia “segnalare il suo arrivo”.

È ingannato dalla sconcertante somiglianza fra il verso dell’uccello e il fischio umano. Lo scrittore mette in parallelo lo scambio sonore dei merli con il battibecco discreto del signor Palomar e di sua moglie. La scena è divertente. Con sottile ironia, Calvino s’interroga e ci fa riflettere sul valore che assume il silenzio nella comunicazione verbale. I coniugi non conversano faccia a faccia, guardandosi negli occhi; sono distanti l’uno dall’altro e ognuno sembra assorto nella propria attività. La presenza della coppia di uccelli nel giardino dà lo spunto a uno scambio di frasi corte, parole sconnesse e onomatopee. Ogni battuta è brevissima e seguita da un lungo silenzio; pare un fischiettare tra merli. Ci accorgiamo che il reale senso del messaggio non è da ricercare nel poco che viene espresso ma si trova nel non detto, nel taciuto. Ormai il signor Palomar conosce il modo di pensare di sua moglie e lei sa interpretare il borbottio di suo marito; così i lunghi discorsi sono superflui per capire lo stato d’animo dell’altro. I due hanno caratteri differenti, due maniere diverse di esprimersi ma nell’intervallo apparentemente vuoto fra le loro battute, intercettano il significato nascosto di una frase anodina, le implicazioni di uno “Ssst”. Il silenzio non è un tempo morto; è uno spazio temporale in cui i pensieri dei coniugi s’incontrano e caricano di un senso intimo delle considerazioni banali. In amore o in amicizia, poche parole bastano per intendersi e i silenzi parlano. Come non citare un pensiero del Mahatma Gandhi?

 

Se urli, tutti ti sentono

Se bisbigli, ti sente solo chi ti sta vicino

Ma se stai in silenzio…

Solo chi ti ama, ti può sentire.

Un’emissione puntiforme di suoni incornicia il vero protagonista del dialogo: il silenzio.

La musica percepita durante lo scambio vocale fra Palomar e sua moglie si presenta così:

“Eccoli!  - pausa -  Ssst!  - pausa -  Da ieri è di nuovo secca  - pausa -  Per storto… con tutto che… da capo … sì, col cavolo…  - pausa -  Ssst…! Li spaventi”.

Di questo scambio di poche parole, un estraneo alla coppia non ne può cogliere il significato profondo perché la musica autentica è scritta durante le pause e rimane sottotraccia, inaccessibile alle sue orecchie. Calvino alza il sipario e ci svela il funzionamento della rete di comunicazione fra i coniugi: la gara di predominio sui merli, il rimprovero della moglie per l’ozio del marito, l’affermazione di lui sull’importanza del suo lavoro, il messaggio rassicurante di lei quanto alla serenità del momento.

Nemmeno questa volta, la. ricerca ansiosa e meticolosa del protagonista lo conduce a raggiungere una certezza. Di nuovo, i suoi sforzi per sondare il mondo non approdano a un punto fermo perché niente si lascia circoscrivere con chiarezza. Quando pensa di aver trovato un ramo a cui aggrapparsi, gli sfugge di mano. Quando crede di aver individuato una fratellanza fra lui e il merlo che faccia eco alla sua solitudine, sorgono dubbi e nuove domande. Non ottiene certezza ma altre incertezze. Nel gioco di specchi fra la sua coppia e la coppia di merli dove gli sembrava di intravedere un punto di congiunzione, “un ponte gettato su l’abisso”, si rende conto che non esiste che un vaneggiare della sua mente irrequieta. Fra lui e il merlo rimane un divario incolmabile dove le ipotesi più rassicuranti di una possibile corrispondenza non possono essere confermate.

Attraverso l’episodio dei merli, Calvino valuta non solo il silenzio ma anche la scrittura.  Sostiene sia la superiorità della forza espressiva del silenzio rispetto al linguaggio, sia il primeggiare dell’oralità sulla scrittura. Lo scrittore ci racconta un silenzio popolato di significati; un silenzio che veicola ciò che le parole non vogliono o non riescono ad esprimere. “Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello, che il linguaggio può dire”. Quando il romanzo viene pubblicato nel 1983, l’autore, in un’intervista, lo definisce così: “È un libro sul silenzio e quante parole possono uscire dal silenzio”. Marca anche la sua preferenza fra parole dette e parole scritte. All’inizio del brano, si dimostra gran sostenitore della tradizione orale. È convinto che, nel trasmettere il sapere, nessun libro possa rivaleggiare con l’insegnamento orale. “Il nuovo sapere che il genere umano va guadagnando non ripaga del sapere che si propaga solo per diretta trasmissione orale e una volta perduto non si può riacquistare e ritrasmettere”. Il carattere mutevole, mobile, musicale dell’oralità si contrappone a quello stabile, definitivo e muto della scrittura.

D / Calvino e l’OULIPO

Limitatezza della scrittura, inadeguatezza della parola. Calvino trasforma di continuo l’architettura del ponte che lo collega agli altri: si esprime facendo sbocciare poesie, canzoni, recensioni di film, testi teatrali, articoli di giornale, saggi, racconti, romanzi.  Giunto a Parigi nel 1967, scopre le idee innovative di un gruppo di letterati e di matematici francesi, riuniti sotto la sigla “Ouvroir de la Littérature Potentielle (OULIPO)” ovvero “Officina della Letteratura Potenziale” e ci aderisce. “Ouvroir” in francese designa il laboratorio di cucito in un convento di monache. L’OULIPO è un laboratorio di scrittura creato nel 1960 da François le Lionnais e da Raymond Queneau, che accoglierà oltre a Calvino, Georges Perec, Jacques Roubaud... Si tratta di manipolare la lingua usando delle costrizioni per farla uscire dal suo funzionamento ordinario. L’intento è di liberare la creatività dello scrittore con delle restrizioni formali. Sembra paradossale eppure non lo è, visto che ogni libertà presuppone delle regole. Perec dirà: “In fondo, mi do le regole per essere completamente libero”. Gli oulipiani giocano a sganciare le parole dalle forme abituali del comporre per sottometterle a nuove obbligazioni che loro stessi inventano. Secondo il motto di Queneau, l’oulipiano è “un topo che costruisce da sé il labirinto dal quale si propone di uscire”. Un labirinto di che cosa? Un labirinto di suoni, di parole, di frasi, di capitoli, di libri, di prosa e di poesia. Calvino è preciso nell’inquadrare l’originalità di questo laboratorio di scrittura: “il metodo dell’Oulipo si sostanzia nella qualità delle sue regole; quello che conta è la loro ingegnosità, la loro eleganza; se alla qualità delle regole corrisponderà subito la qualità dei risultati, delle opere ottenute per questa via, tanto meglio, ma comunque l’opera non è che un esempio delle potenzialità raggiungibili solo attraverso la porta stretta delle regole.”

Adesso basta!  È ora di allontanarsi dalle definizioni dell’Oulipo e di entrare in azione. Voglio usare tre vincoli oulipiani per mettermi alla prova e illustrare i brani di Calvino. Inizierò con L’ordine degli squamati, proseguirò con Il fischio del merlo e concluderò con Il gorilla albino.

 

L’ORDINE DEGLI SQUAMATI

Comincio adagio con un anagramma per il primo brano.

Regola: permutare le lettere di una o più parole in modo da creare altre parole o formare eventualmente frasi.

Nella sua visita al rettilario parigino, Palomar si sofferma ad osservare l’iguana; lo colpisce l’occhio “evoluto” dotato di sguardo… un occhio carico di mistero.

Scelgo in partenza, le parole: occhi dell’iguana

Le trasformo in: ecco, laghi di luna ! Per rendere l’idea di mistero.

 IL FISCHIO DEL MERLO

Con il secondo brano, mi addentro in un lipogramma .

Regola: riscrivere un testo eliminando una determinata lettera, ma conservandone il senso.

Duemilacinquecento anni fa, Laso di Ermione scrisse poesie senza il “Ʃ” perché gli era sgradevole il sibilo del “sigma”. Nell’Ottocento, l’abate Luigi Casolini, spesso motteggiato per la sua “erre moscia”, componeva  dei sermoni senza la “r”.

Nel Novecento, Il testo lipogrammico per eccellenza è “La Disparition” (La Scomparsa) di Perec, pubblicato nel 1969: un romanzo di 78000 parole che non contiene la lettera “e”(ossia la vocale più ricorrente in francese). Nel 1973 compì un’altra prodezza: scrisse un libro d’un centinaio di pagine“ Les Revenentes”  usando solo la vocale “e”.

Dopo le considerazioni di Calvino sul silenzio, mi sembra azzeccato il proverbio:

“La parola è d’argento, il silenzio è d’oro”.

Lipogramma in “A”: Molto meglio esser zitti che esprimersi.

Lipogramma in “I” : Parlare vale meno che tacere.

Lipogramma in “O”: Taci invece di intervenire!

 

IL GORILLA ALBINO

Nell’ultimo brano, mi alleno a lanciare una palla di neve.

Regola: comporre un poema ropalico

Nella poesia classica, un poema ropalico è un poema di cui il primo verso è monosillabo, il secondo bisillabo, il terzo trisillabo… l’aggettivo deriva da “ropalo” che, in greco antico, significa “clava”.  Il poema assume una  forma  analoga alla clava che aumenta di grossezza da un’estremità all’altra. Nel laboratorio dell’Oulipo, viene chiamato “Boule de neige” ovvero “Palla di neve”.Per gli oulipiani, il procedimento  evoca  la crescita continua di una palla di neve. È un poema di cui il primo verso è una parola di una lettera, il secondo è una parola di due lettere… l’ennesimo è una parola di n lettere. La “Boule de neige fondante” ovvero “Palla di neve che si scioglie” è una “Palla di neve” che, dopo essersi costruita per aggiunte successive, ridiscende verso la sua sparizione.

In memoria di Copito de Nieve, ho composto una palla di neve che si scioglie. Le tre “O” finali sono un’allusione al suo copertone:

 

E

SE                                                                   

NON

PERÒ

FOSSE

USCITO

CANDIDO

NEVICATO

SAREBBE

FINITO

SENZA

FARE

PIO

IO

O

 

Bianco Copito de Nieve, bianco il fiocco di neve.

Bianca la palla di neve e bianca la colomba.

Blanca la paloma e bianca la genuinità di Palomar.

Leggero il fiocco di neve, pesante Copito de Nieve.

Leggero lo spirito e pesante il corpo.                                                     

Le ali del pensiero e gli zoccoli della materia.

Ascendente colomba e scendente fiocco.

Alto e basso, Paradiso e Inferno.

Chi siamo noi per giudicare le bestie, se verso il Paradiso salgono anche i fiocchi?

 

Si come di vapor gelati fiocca

In giuso l’aere nostro, quando il corno

De la capra del ciel col sol si tocca,

<---- Ascesa delle anime dei beati all’Empireo con una similitudine naturalistica in quanto paragonati a fiocchi di neve che salgono lentamente verso l’alto.

in su vid’io così l’etera adorno

farsi e fioccar di vapor trunfanti

che fatto avean con noi quivi soggiorno.

 Dante (  Paradiso,  c. XXVII )

 

E qui concludo; fermo la mia valanga di parole. Faccio silenzio. D’accordo, ma se il silenzio è pieno di parole?

 

Mercoledì 25 marzo 2020, Dantedì                                                                        

 

Joëlle

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