Magico maestro
All’elementare, durante tutto l’anno, ci seguiva un unico maestro che veniva sostituito l’anno successivo. Così voleva il sistema scolastico francese. Quindi, dalla prima alla quinta avevamo ogni anno un maestro diverso. Il cambiamento lasciava indifferenti gli alunni che non nutrivano un particolare affetto nei confronti dell’insegnante: per loro, la sostituzione scivolava come l’acqua sull’impermeabile. Il meccanismo era invece una manna per chi temeva l’insegnante o semplicemente non l’amava giacché consentiva di essere liberati dal maestro dopo un anno. Il disagio sorgeva pungente solo per chi si era molto affezionato all’insegnante.
Provai una grande sofferenza a dovermi staccare dal maestro di seconda elementare. Fu un dramma intimo che cercai di assorbire il meglio che potevo. Sapevo che lamentarmi o ribellarmi non sarebbe servito a niente ma non riuscivo a mettere a tacere la rabbia che si annidava dentro di me, né a soffocare la disperazione che a tratti mi dava voglia di piangere. Non mi rassegnavo a perdere il mago che mi aveva trascinata per mesi nell’avventura mozzafiato della scoperta. Non mi andava giù. Non era giusto!
In seconda elementare, rapita dal vortice dell’apprendimento, vissi momenti d’intenso coinvolgimento. Era così meraviglioso andare a scuola che le domeniche mi irritavano; le consideravo giorni inutili, intralci fastidiosi e non vedevo l’ora che arrivasse il lunedì. Certo, la mia prima elementare è stata avvincente, scandita dall’ebrezza e dalla gioia di imparare a scrivere e a leggere ma l’impronta della maestra non è sopravvissuta, si è cancellata con gli anni. La mia seconda elementare fu straordinaria: il maestro rendeva appassionante ogni argomento e mi affascinava. Ironia della sorte: ero assente il giorno della tradizionale foto di classe sicché non conservo un ritratto cartaceo del mio maestro del cuore. Ho dimenticato il suo viso. Sul suo cognome però, nessuna esitazione: si chiamava “Monsieur Monthorin”. Ricordo che portava una cicatrice sul volto, lasciatagli da un grave incidente stradale come seppi da pettegolezzi, e che aveva gli occhi neri. Oggi direi che era carismatico.
La mia memoria custodisce vari episodi di quell’anno magico. Il primo giorno di scuola fu speciale. Mentre aspettavamo in fila indiana che si aprisse l’aula, circolava una voce che preannunciava un anno tosto: eravamo capitati su un maestro terribile e temibile. Il dato allarmante scaturiva dalla bocca di una di noi la cui sorella era stata proprio alunna di questo maestro e l’aveva visto all’opera l’anno precedente. Mi sarei abbandonata allo sconforto se non avessi sentito l’ulteriore commento della ragazza: era sì severissimo, ma per quelli bravi, non c’erano problemi. In quell’instante mi feci la promessa che sarei stata brava. Ciò nonostante, la notizia mi aveva scossa e quando finalmente il maestro spalancò la porta per farci entrare, mi sembrò di addentrarmi nella tana di un orco.
Dopo averci sistemati ai nostri banchi, si recò alla lavagna per scrivere in corsivo un nome comune di cinque lettere: boite (scatola). Poi si sedette in fondo all’aula e ci invitò a sussurrargli all’orecchio l’errore che notavamo nella parola appena scritta. Via via i miei compagni andavano a bisbigliargli qualcosa. Egli rimaneva impassibile; di tanto in tanto manifestava il suo dissenso, scuotendo la testa. Che cosa gli dicevano? Quanti avevano già individuato l’errore? Avevo pronta una risposta ma non volevo abbandonare il mio banco. Avevo paura di sbagliare; temevo di avvicinarmi; era meglio stare a distanza. Andare a soffiargli la risposta nell’orecchio? Anche no! Vedendo che non mi decidevo, mi chiamò e fui costretta a obbedire. Non udì ciò che mormoravo e me lo fece ripetere. Con un filo di voce gli dissi che mancava un accento circonflesso sulla i. Sodisfatto, mi mandò alla lavagna a correggere lo sbaglio. Ci spiegò che l’accento circonflesso era testimone di una “s” scomparsa col tempo, che anticamente forêt si diceva forest, che le parole avevano una storia. Già dal primo giorno, fece germogliare il mio interesse per l’etimologia.
Non scherzava con la precisione. Dovevamo curare sia la scrittura che la presentazione. Ce lo fece capire subito. La prima settimana di scuola ci distribuì due piccoli fogli di etichette bianche adesive per coprire le sbavature d’inchiostro e le cancellature in modo da mantenere i quaderni sempre ordinati e puliti. Verso la fine dell’anno si accorse con meraviglia che mi servivo ancora delle etichette che ci aveva consegnato all’inizio. L’aveva intuito dalla loro forma: a differenza di quelle vendute nelle cartolerie, le sue avevano angoli arrotondati. Non era stato difficile seguire il suo consiglio di partenza “Non sprecate gli adesivi e ritagliateli secondo necessità!” giacché da subito il monito mi era suonato naturale; mi era congeniale. Ritagliando al meglio le etichette, non avevo esaurito la scorta originaria e quindi, non avevo avuto bisogno di comprare altre “toppe”. Per palesare il fatto al resto della classe, braccio teso, il maestro aveva levato in alto il foglietto miracolato, laudando la mia oculatezza. E come ogni volta che mi faceva un complimento, ero arrossita.
Ero timida e selvaggia. Selvaggia, lo sono tuttora. Timida, forse non più. Riservata, senz’altro. Spesso, a scuola, le domande mi si intrappolavano in gola. La lingua prudeva, il cuore batteva all’impazzata ma dalla bocca non usciva niente. Restavo muta.
Una mattina, il maestro ci impartì una lezione di educazione sessuale. Per cautelarsi aveva chiesto ai genitori un’autorizzazione firmata e ricordo che solo una ragazza non l’aveva ottenuta. Mi sembrava ridicolo: che male c’era? Perché i suoi le vietavano d’imparare cose nuove e di sicuro interessanti? Non mi tornava. Quella mattina il maestro ci diede un sacco di spiegazioni ma ovviamente si guardò bene dal descriverci l’atto sessuale. Capii che il seme della mamma era l’ovulo, che quello del babbo era lo spermatozoo e che per fare un bambino i due semi si dovevano mescolare…ma come si incontravano se uno era dentro il corpo della mamma e l’altro nel corpo del babbo? Qualcosa mi sfuggiva. Portai la mia domanda a casa: mio padre si strangolò dalle risate mentre mia madre se la cavò con l’immagine del giardiniere che, annaffiando il piccolo seme, gli permette di trasformarsi in una piantina. Che ci crediate o meno, oggi mi domando ancora che risposta mi avrebbe dato il maestro se avessi avuto il coraggio di porgli il quesito.
In un’altra occasione rimpiango di non aver alzato la mano, di non essere intervenuta. Ancora una volta, la timidezza m’ingessò la lingua. Il maestro aveva sottomesso alla nostra attenzione la fiaba de La principessa sul pisello. Mentre ce la raccontava, avevo la sensazione che si aspettasse qualcosa da noi. Nessun fiatò, io compresa. Eppure, dentro di me, lo sdegno lievitava. Mi turbava che uno potesse scegliere la sua fidanzata in base alla sensibilità della sua pelle. Ce l’avevo con il principe: era un idiota. Non gli importava che la ragazza fosse intelligente o che fosse gentile; contava solo che avesse una pelle delicata. La principessa era insopportabile, da schiaffo! Aveva trascorso una notte in bianco per colpa di un pisello nascosto sotto una pila di materassi. Che smorfiosa! Poi, gli unici piselli che conoscevo erano quelli teneri in scatola, riscaldati sui fornelli. Come poteva un tenero pisello non essere schiacciato dal peso di tanti materassi se per spiaccicarlo, bastava un dito? Detestavo questa fiaba! Il maestro non si accorse che il racconto mi aveva indignata perché i miei pensieri rimasero senza voce.
Ricordo la gita in campagna e il primo erbaio fatto a scuola. Ricordo il divertimento di creare biglietti di auguri. Il maestro aveva realizzato delle mascherine raffiguranti pupazzo di neve, Babbo Natale, abete… che appoggiavamo su dei rettangoli di carta bianca prima di fare schizzare sopra, puntini di colore. Lì stava il bello: per colorare le figure, bisognava strofinare, su un setaccio metallico, uno spazzolino da denti intinto nella pittura. In pratica, si usa la stessa tecnica quando si decorano i dolci con lo stencil e lo zucchero a velo.
Ricordo la soddisfazione di fabbricare in classe il mestolo porta-presine per la festa della mamma e di assemblare e decorare le piccole scatole di fiammiferi per la festa del babbo.
Ricordo l’ascolto attento di brani strumentali classici da interpretare a modo nostro. Dovevamo raccontare agli altri le storie che aveva imbastito la nostra immaginazione mentre scorreva la musica.
Ricordo il pennino in cima a una lunga bacchetta che veniva a pizzicarci la schiena quando assumevamo una cattiva postura durante le lezioni…
Ho ben presente il sentimento che provai quando vide Monsieur Monthorin attraversare orgoglioso il cortile mano nella mano delle sue figlie gemelle, una a destra e una a sinistra. Un pinzo al cuore: nemmeno uno sguardo, nemmeno un saluto. Mi sentii sola e abbandonata. Ero in terza e la scena mi rammentò crudelmente quanto avevo perso. Il nuovo maestro non era all’altezza; era scipito e noioso. Dietro ai suoi vetri, si affacciavano due occhi chiari sporgenti come quelli di una rana. Delle sue lezioni non me ne importava niente; mi redarguiva spesso perché chiacchieravo con la mia compagna di banco. Con lui si camminava in pianura e il paesaggio era monotono. La domenica non era più un ostacolo; era tornata ad essere il giorno di riposo della settimana.
L’anno dopo abbiamo cambiato casa e sono andata a vivere in un’ altra zona della città. Ho lasciato la Scuola Jean Moulin e iniziato la quarta in una nuova scuola. Da quell’anno non ho più rivisto il maestro di seconda elementare.
Joëlle