Leibniz? monadi… ma non solo

I/ MONADI DI LEIBNIZ

I nomi dei filosofi formano un voluminoso gomitolo avvoltosi via via durante secoli, dai primi pensatori dell’antica Grecia, dell’India, della Cina… ai pensatori dei giorni nostri. Sono all’oscuro di tantissimi filosofi. Di alcuni ho presente il nome senza conoscerne con chiarezza il pensiero: nella mia testa, fino a poco fa, Leibniz era confinato in questo riparto. Era, per me, un tipo imparruccato dall’ottimismo beota che sbandierava l’idea sciocca che viviamo nel migliore mondo possibile. All’origine della mia definizione semplicistica stava l’ironico e incisivo Voltaire: il suo famoso Candide o l’Ottimismo ridicolizzava la posizione leibniziana attraverso Pangloss, precettore di Candide e portavoce del filosofo tedesco. Curiosando nella vita e l’opera di Gottfried Wilhelm Leibniz ho scoperto la sua spumeggiante attività intellettuale, il suo enciclopedico sapere, la sua apertura mentale e la complessità del suo pensiero metafisico.

Leibniz nasce a Lipsia nel 1646 da una famiglia di giuristi. Studia filosofia e diritto, matematica e fisica. È poliedrico: s’interessa di teologia, di medicina, di biologia, di storia, di geografia, di geologia, di paleontologia, di linguistica, di filologia, di sinologia, di psicologia, di politica. Viene inviato in Francia per distogliere Luigi XIV dal suo progetto di invadere l’Olanda. Cerca incessantemente di riunire chiesa cattolica e chiesa protestante. Vorrebbe creare i presupposti per una pace duratura in Europa. Gli preme contribuire a un’organizzazione delle scienze: partecipa alla fondazione dell’Accademia reale prussiana delle Scienze a Berlino, sul modello di quelle francese e inglese, e ne diventa il primo presidente. Viaggia di continuo e si confronta con molti intellettuali del suo tempo che lo influenzano. Tra il 1672 e il 1676 soggiorna a Parigi e frequenta i membri del Circolo Mersenne. Nel gennaio 1673 arriva a Londra per presentare il modello della sua macchina calcolatrice alla Royal Society. Lì conosce Newton, John Wallis, Robert Boyle... Nell’autunno 1676 si reca in Olanda; incontra l’ottico e naturalista Antoni van Leeuwenhoek  a Delft e ha un colloquio all’Aja con Spinoza che gli regala una copia manoscritta dell’Ethica. Nel 1676 i duchi Brunswick-Lüneburg di Hannover lo assumono come consulente e bibliotecario della città. Questa carica gli permette di dedicarsi senza intralci allo studio e di redigere una quantità impressionante di scritti che abbracciano varie discipline. Duecentomila pagine sono conservate nella biblioteca di Hannover; tuttora molte non sono state pubblicate. Leibniz non smette mai di viaggiare in Europa. In Italia nel 1689 incontra il fisico Vincenzo Viviani (depositario degli inediti di Galilei), il biologo Marcello Malpighi … ed entra in possesso dell’opera affascinante Commentari della Cina del gesuita Matteo Ricci, libro proibito dal Tribunale dell’Inquisizione. Nel novembre 1716 si spegne a Hannover nell’indifferenza dei suoi concittadini, emarginato dai duchi verso i quali non ha manifestato il servilismo che pretendevano.

Come Cartesio e Spinoza, è un razionalista ossia un filosofo convinto che la conoscenza si possa acquisire con la sola riflessione razionale; in contrapposizione alla scuola empiristica di Locke, seguita poi da Berkeley e da Hume, dove la conoscenza deriva esclusivamente dall’esperienza. Egli basa la sua filosofia sulla nozione di sostanza, come Cartesio e Spinoza, ma non aderisce alle loro tesi. Cartesio distingue tre tipi di sostanza cioè Dio, lo spirito (res cogitans) e la materia (res extensa) mentre Spinoza considera una Sostanza Unica in quanto assimila sia il pensiero che la materia a due attributi di Dio (Deus sive natura).

Leibniz confuta la concezione meccanicistica di Cartesio e quella panteistico-monistica di Spinoza. Costruisce un sistema che unifica la realtà senza annullare la pluralità delle entità che la compongono. Crede in un numero infinito di elementi semplici, inestesi (immateriali) e attivi che chiama monadi. Il termine non è nuovo, deriva dal greco “μόνος-monos” con il significato di “unico, solo”. Da Pitagora alla filosofia medievale, il vocabolo è stato usato in sensi vari. Per Leibniz, riveste questo particolare significato: la monade è una sostanza individuale che conosce tutto l’universo e lo riflette dal proprio punto di vista come uno “specchio”. Ognuna è unica e contiene in sé tutte le idee possibili dell’universo; tutto ciò che ha vissuto, che vive e che vivrà. Non comunica con le altre; non agisce sulle altre perché “non ha finestre per le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire” ma è in connessione con le altre perché tutte sono state regolate da Dio in vista di realizzare il mondo migliore fra tutti quelli possibili. Vale a dire che ogni monade è indipendente, perciò è la causa del suo proprio sviluppo, ma si accorda con le altre in un’armonia universale prestabilita da una causa comune. Dio ha armonizzato in partenza gli strumenti che poi si impegnano a suonare la propria partitura in modo autonomo. Come un architetto di talento, Dio ha usato al meglio gli elementi che aveva a disposizione per ottenere il massimo degli effetti con il minimo dei mezzi: la costruzione la più bella con i mezzi più semplici. La similitudine è formulata al paragrafo 5 del Discorso di metafisica: “Dio è simile… a un buon architetto, che sappia amministrare il terreno e i fondi destinati all’edificio nel modo più vantaggioso, non lasciando nulla di urtante o che manchi della bellezza di cui sarebbe suscettibile.” Nello stesso paragrafo, un po’ più avanti nella lettura, viene fuori l’obiettivo maggiore di Dio: la felicità delle creature dotate di ragione. “Ora, i più perfetti tra tutti gli esseri … sono gli spiriti. Pertanto, non bisogna dubitare che la felicità degli spiriti non sia il principale scopo di Dio e che egli non la ponga in esecuzione nella misura in cui lo permette l’armonia generale.”

Perché la monade non è un atomo di materia? La materia è un’estensione e dunque si può dividere all’infinito. La monade essendo indivisibile, non può essere materiale. È un punto di energia, è un “atomo psichico”: una sostanza inscindibile dotata di “percezione” (psichica) ossia della facoltà di percepire tutto ciò che sta al suo interno (contiene l’universo). Ma allora, visto che tutte le monadi sono uniche, diverse le une dalle altre, che cosa le distingue? Vengono distinte dal loro grado di “appercezione”. Che sarebbe a dire? La percezione di cui tutte sono dotate, è inconscia; l’appercezione indica una “percezione cosciente”. In altre parole, fra loro non c’è una differenza di contenuto, c’è una differenza nella presa di coscienza di quel contenuto. Esiste una gerarchia delle monadi basata sul grado di appercezione che raggiungono. Dal grado più basso al più alto, le monadi si distinguono in:

1.      monade Semplice: quella dell’oggetto o della materia semplice.

2.      monade Anima: quella dell’animale.

3.      monade Spirito: quella dello spirito umano.

4.      monade Dio: la monade delle monadi.

Negli oggetti, nessuna percezione arriva alla coscienza. Tutto rimane confuso, indistinguibile.

Negli animali, le monadi hanno percezioni più distinte e accompagnate da memoria.

Negli uomini, le monadi sono razionali e hanno percezioni ancora più chiare. La loro razionalità dipende dal loro livello di appercezione. Al loro interno, si possono verificare mutamenti, cioè passaggio da una percezione a una appercezione, grazie a un principio dinamico che Leibniz chiama “appetizione”.

Dio è la monade suprema in cui esiste solo l’appercezione: La monade Dio ha chiari e distinti tutti i punti di vista di tutte le monadi dell’universo.

E i corpi organici come potrebbero essere intesi in un mondo tutto spirituale? Sono aggregati di monadi semplici sistemati in modo ordinato intorno a una monade superiore (l’anima o lo spirito).

Il sistema monadistico di Leibniz si scontra frontalmente con quello atomistico di Democrito o di Lucrezio. Per gli atomisti, l’atomo materiale è l’unità fondamentale di cui sono costituite tutte le cose e la sua combinazione con altri atomi è lasciata al caso. Per Leibniz, l’unità è una sostanza immateriale che rimane singola e che non si muove in modo aleatorio ma sta al posto che Dio le ha assegnato.

La scienza odierna avvalora l’intuizione di Leibniz dimostrando che l’atomo è ancora divisibile, che c’è più piccolo dell’atomo. Ma d’altro canto, il concetto leibniziano è inimmaginabile: come rappresentarci la materia formata da sostanze immateriali? Poi come rendere conto dei cambiamenti che si avvertono di continuo nella realtà se le sostanze non si possono mescolare fra loro? In un mondo materiale, non c’è nessuna difficoltà a spiegare la distruzione e la costruzione delle cose tramite la disgregazione e l’aggregazione di gruppi di atomi. Lucrezio, millesettecento anni prima di Lavoisier, pensava che nulla si perdesse e nulla si creasse. Nel mondo metafisico di Leibniz, le monadi sono sostanze individuali che non comunicano né si associano; i cambiamenti osservati nella realtà non possono risultare di decomposizioni e ricombinazioni. Secondo Leibniz i cambiamenti dipendono dalla brusca comparsa o scomparsa di monadi.

Lo spiega così nel paragrafo 6 della Monadologia: “Le monadi non possono iniziare o finire se non in un istante, cioè non possono iniziare se non attraverso creazione, né finire se non attraverso annichilazione.”

La metafisica di Leibniz è una fonte effervescente di spunti di riflessione che le mie poche parole non hanno la pretesa di elencare. Vorrei soltanto riflettere un istante su un aspetto della monade spirito che mi ha colpita, che risuona in me come un monito: la facoltà che abbiamo di passare dalla percezione alla appercezione. Ogni soggetto (monade spirito) ha in sé la possibilità di portare alla coscienza delle percezioni semplici registrate in modo inconsapevole. Il processo è possibile grazie all’appetizione cioè grazie a una forza interiore che spinge alla concentrazione, all’indagine e all’analisi. Questa appetizione ha un’aria di famiglia con il desiderio di conoscere, evocato da Aristotele all’inizio del libro I della Metafisica: “Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza.” So bene che Leibniz contesterebbe il mio paragone giacché il filosofo greco impernia l’appetito di conoscenza sui sensi e sulla vista in particolare. Ma le due tesi convergono nell’affermare la propensione degli uomini a volere diradare la nebbia che li circonda per rendere l’universo intelligibile. Anche se siamo limitati e l’estensione della nostra intelligenza è finita, anche se siamo impotenti a spiegare tutto, l’importante è lanciarsi nell’avventura dell’apprendimento. L’importante è provare a capire, a fare chiarezza sia nel nostro mondo interiore che nel mondo intorno a noi. Nello slancio della nostra mente curiosa e l’impegno costante e faticoso per lo studio risiede la nostra caratteristica umana e il sommo piacere dell’esistenza.

II/ TIGLI DI LIPSIA…DI BERLINO, DI KIEV E DI MOSCA

Nel 1646 Leibniz nasce a Lipsia. Perde suo padre all’età di sei anni. L’anno dopo entra alla Nicolaischule. Lo zio e la madre lo lasciano libero di accedere alla ben fornita biblioteca paterna. È un ragazzo brillante che impara il latino a otto anni da autodidatta, sfogliando un’edizione illustrata di Livio. In giovane età impara da solo pure il greco e legge con fervore i Classici, la Patristica e la Scolastica. A quindici anni entra all’Università di Lipsia per studiare filosofia e diritto; frequenta i corsi di matematica, logica e fisica all’Università di Jena.  Due anni dopo, si laurea in Filosofia a Lipsia. L’anno successivo, a diciott’anni, diventa Magister di Filosofia e potrebbe già insegnare. Altri si sarebbero sentiti appagati e gratificati, avrebbero imboccato la via dell’insegnamento con orgoglio ma per Leibniz i confini del mondo accademico sono troppo stretti. Ha sete d’imparare e di perfezionarsi. Così, a vent’anni, vuole conseguire il dottorato in diritto a Lipsia. Incontra però un ostacolo irremovibile: riceve un rifiuto secco da parte del Decano che lo considera troppo giovane. È lecito ipotizzare che le strutture accademiche incrostate non erano in grado di accettare i nuovi concetti destabilizzanti di Leibniz. Il giovane filosofo lascia allora la sua città natale; in futuro ci farà ritorno solo di rado e sempre per pochi giorni. Si trasferisce a Norimberga dove, nel 1667, ha la soddisfazione di ricevere il titolo di Dottore in Diritto “Juris Utriusque Doctor” all’Università di Altdorf. Nel 1670 accetta la proposta dell’elettore di Magonza di diventare il suo consigliere.

Nella corte interna dell’Università di Lipsia, sull’Augustusplatz, il filosofo è assorto nella lettura. Si diletta a trascorrere le giornate in mezzo agli studenti anche se conserva sempre un pizzico di risentimento nei confronti della Universität Leipzig. La sua figura bronzea realizzata nel 1883 dallo scultore Ernst Julius Hähnel si è soffermata in vari luoghi della città prima di approdare lì, nel 2009, per commemorare i seicento anni della fondazione dell’Alma Mater Lipsiensis. Rendetevi conto, seicento anni! La “Universität Leipzig” dove Leibniz ha studiato è prestigiosa e risale al 1409. È la più antica della Germania dopo quella di Heidelberg nata nel 1386. Comunque, modestia a parte, il primato spetta all’Italia: l’Università di Bologna è stata fondata nel 1088. Scusate la precisazione ma era troppo sfiziosa perché la lasciassi sotto silenzio… La lucente facciata azzurrastre di cristallo e pietra naturale dell’Università di Lipsia ingloba ciò che da lontano assomiglia a una chiesa antica: il Paulinum. Il Paulinium funziona come chiesa universitaria, come aula magna e sala da concerti ma è una struttura moderna costruita per ricordare la Paulinekirche, chiesa domenicana del 1231, che Lutero aveva tramutata in chiesa dell’università. Purtroppo, da tempo la splendida Paulinekirche è sparita: dopo essere scampata alle bombe degli Alleati, non è potuta sfuggire alla dinamite del governo comunista che l’ha fatta saltare in aria il 30 maggio 1968.

A Lipsia, Leibniz non è solo; sta in buona compagnia. La Vecchia Borsa, al Naschmarkt, fa da sfondo barocco alla statua di Goethe eretta su un piedestallo di porfido. Lo scultore Carl Seffner l’ha colto adolescente mentre passeggia in una viuzza di Lipsia in discesa, il cappello tricorno in una mano, un libro nell’altra e lo sguardo puntato verso il cielo con un mezzo sorriso sulle labbra. Johann Wolfgang Goethe ha studiato diritto dal 1765 al 1768 all’Università di Lipsia; tre anni spensierati in cui si è goduto la vita con leggerezza e si è pure innamorato di Anna Katharina Schönkopf. Tre anni durante i quali ha frequentato più assiduamente la taverna Auerbach del Mädler-Passage che le aule dell’università. Nella prima parte del suo monumentale dramma in versi Faust, la cantina di Lipsia “Auerbachs Keller” incornicia l’incontro movimentato fra una brigata di quattro bevitori alticci e la coppia Faust - Mefistofele. Davanti alla chiesa luterana Thomaskirche, un’altra scultura di Carl Seffner rende questa volta omaggio a un genio della musica. Johann Sebastian Bach ha esercitato la sua arte a Lipsia in qualità di direttore del coro e maestro di cappella della Thomaskirche dal 1723 fino al 1750, anno della sua morte. Saldamente piantato su una massiccia base di pietra, il prolifico compositore regge in mano uno spartito arrotolato e appoggia la sua possente corporatura bronzea a un organo. Una statua per salutare con riconoscenza e rispetto 27 anni d’impegno frenetico a comporre centinaia di cantate e oratori.

L’aquilone

Piccolo scioglilingua: Lipsia-Leibniz-Leipzig-Lipsk. Leibniz ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza a Lipsia, ossia Leipzig in tedesco. Leipzig nasce dalla parola slava Lipsk con il significato di “Luogo presso i tigli”. “I tigli” si traducono in tedesco con “die Linden”. Il mio aquilone “La sottile linea verde del Tiglio” lascia Lipsia e si sposta verso nord-est. La sua meta è Berlino e più precisamente, il Mitte. Vuole vedere la striscia alberata lunga un chilometro e mezzo di cui suo nonno gli ha parlato. Dopo un paio di morbide arabesche sopra il Viale Sotto i Tigli -Unter den Linden- che si srotola dal Ponte del Castello -Schloßbrücke- alla Porta di Brandeburgo -Brandenburger Tor-, l’aquilone si lascia cadere adagio sul largo percorso pedonale inserito fra le due carreggiate che lo delimitano a destra e a sinistra. È deluso: si aspettava un fitto susseguirsi di fronde e di chiome, una veduta boschereccia. Suo nonno gli aveva dipinto un viale di alberi maestosi, ampliato agli inizi del Settecento sotto il regno di Federico I. Lì per lì non capisce l’immagine scarsamente verdeggiante del luogo, poi si ricorda le parole del nonno e si spiega la forma spilorcia dei tigli: “I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale non sono responsabili della distruzione dei tigli centenari. È l’architetto Albert Speer che ha deciso l’abbattimento dei vecchi alberi per trasformare il viale in palcoscenico delle parate militari: sulle foto, le loro fronde erano un insopportabile elemento di disturbo.”

Ho sbagliato mese, pensa sconsolato l’aquilone. Siamo a maggio; se fossi arrivato a giugno, avrei potuto almeno inebriarmi del profumo dei tigli in fiore. E comincia a canticchiare Solang noch “Untern Linden” di Marlene Dietrich: Finché sulla “Unter den Linden”/Fioriscono i vecchi alberi/Niente può superarci/Berlino è ancora Berlino. Il vento si è alzato e una raffica lo fa salire sopra la chioma degli alberi del Viale. Ormai ha in testa un’altra città e un’altra donna, oltre i confini della Germania. Riprende il volo e punta deciso verso est. Sorvola la Polonia ma non si ferma: la sua meta è l’Ucraina. Il paese è in guerra. Dal 24 febbraio è stato invaso dalle truppe russe. Ciò che nei primi giorni appariva per la Russia una pura formalità, un cambio di potere indolore, si è dimostrato una lotta inferocita e uno scontro cruento. Come tutte le guerre, questa è mostruosa e abominevole. L’aquilone è giunto a prossimità della capitale assediata all’inizio del conflitto ma da un mese e mezzo, sciolta dalla morsa dei russi. Intorno a Kiev, giacciono carri armati abbandonati, intrappolati nel fango. In molti punti i missili hanno seminato morte, deturpato la città ma la gente si sforza di ripristinare le attività e di vivere come se non sentisse più la voce stridula delle sirene che continuano ad avvertirla ogni giorno dei pericoli imminenti, dei lanci micidiali del nemico sempre presente seppure meno vicino di prima. L’aquilone non è sorpreso dallo scenario; era al corrente della situazione ma considerarla dal vivo è raccapricciante. Ha fatto bene a venire qui. Lo sente come una specie di pellegrinaggio in ricordo di una scrittrice nata a Kiev l’11 febbraio 1903 e cancellata a trentanove anni in un forno di Auschwitz: Irène Némirovsky. È scosso da un’ondulazione febbrile e nervosa mentre pensa alla piccola Irina che respirava a pieni polmoni l’aria stregata dai fiori di tiglio nei quartieri alti di Kiev. Gli viene voglia di intonare una canzone che infonda speranza di pace come il nome della scrittrice: “Finché i tigli fioriscono nella città alta, Kiev rimane Kiev!”

L’ultima tappa del suo viaggio sarà Mosca. Disegnerà nel cielo una dolce curva fra Kiev e Mosca, come un arcobaleno. Certo, quando si ritrova sopra l’anello dei giardini, non può reprimere un sorriso: il nome ben poco si adatta al largo tracciato di asfalto e cemento che cinge il cuore di Mosca, sotto di lui. Le aree verdi dell’epoca zarista hanno ceduto il posto a un circuito automobilistico urbano di quasi sedici chilometri. Tuttavia, in alcuni punti, qualcosa è rimasto degli antichi giardini. Siamo a metà maggio. Per ripararsi dal sole impertinente, l’aquilone decide una sosta sotto i tigli nel luogo che Michail Bulgakov ha scelto come ambientazione nel primo capitolo del suo romanzo d’amore Il Maestro e Margherita. “In quell’ora, quando ormai sembrava di non avere nemmeno la forza di respirare, quando il sole, dopo aver bruciato Mosca, si inabissava lontano oltre l’anello dei giardini, il Sadovoe kol’co, in una caligine secca, nessuno era venuto a passeggiare sotto i tigli, nessuno si sedeva sulle panchine, e il viale era deserto.” L’aquilone non ha bisogno di prendersi una bibita al chiostro come i due personaggi all’inizio del romanzo ma si sdraia su una panchina all’ombra generosa dei tigli. Mentre si rilassa, pensa che il portamento saldo, i rami protettori, le foglie a forma di cuore e i fiori paglierini inebrianti, facciano davvero del tiglio l’albero dell’amore. Pensa che Bulgakov è nato a Kiev come la Némirovsky. Pensa che niente possa giustificare una guerra, che ogni guerra è causata dall’ignoranza e dall’idiozia umana. Pensa che invece di cercare vie per la pace, bisogna convincersi che la pace è l’unica via.

III/ BISCOTTI DI HANNOVER

Per quarant’anni Leibniz ha eletto residenza a Hannover dove ha lasciato un numero impressionante di scritti non pubblicati. Nel mese di gennaio 1686 si trova in qualità d’ingegnere nelle miniere dello Harz (in Bassa Sassonia) per introdurre delle innovazioni tecniche. In un momento di interruzione dei lavori (l’inazione non è il suo forte) stende una cinquantina di pagine in francese che formano il suo Discorso di metafisica (Discours de métaphysique). Trentasette capitoli espongono per la prima volta la sua filosofia in modo organico. Nell’impostazione si percepisce l’influenza del Traité de la nature et de la grâce de Malebranche , che Leibniz ha letto l’anno precedente. Un mese dopo invia il sommario del suo libro al teologo Antoine Arnauld (capofila del giansenismo e fratello della badessa Mère Angélique di Port-Royal) per constatarne le reazioni. Non farà mai pubblicare quest’opera che dovrà aspettare il 1846 per essere stampata.

Nel 1710 escono ad Amsterdam, in francese, i Saggi di Teodicea (Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal). Ha iniziato la loro stesura nel 1706 a Hannover e l’ha conclusa a Berlino nel 1707. Vengono pubblicati anonimi anche se non fa mistero di esserne l’autore. Per il titolo ha coniato un neologismo unendo due parole greche Θεός-dio e δίκη-giustizia col significato di “giustificazione di Dio” di fronte alla presenza del male nel mondo.   Due anni prima di morire, nel 1714, compone a Vienna, sempre in francese, il suo capolavoro Princìpi di filosofia (Principes de philosophie) che uscirà postumo tradotto in tedesco nel 1720 con il titolo di Monadologia. In una ventina di pagine sono esposte novanta proposizioni che condensano il suo concetto del mondo, dalla monade fino al governo perfetto di un Dio architetto.

Leibniz muore all’età di settant’anni a Hannover dopo un attacco acuto di gotta. Al suo funerale: nessuno tranne il segretario e collaboratore Johann Georg von Eckhart che fa apporre sulla barra un ornamento raffigurante un 1 all’interno di uno 0, con l’iscrizione OMNIA AD UNUM, chiaro riferimento al sistema numerico binario sviluppato da Leibniz (il principio con il quale lavorano i nostri moderni computer). Il filosofo è sepolto nella Neustädter Kirche, chiesa luterana di St. Johannis (San Giovanni). Leibniz malgrado tutto ha perdonato alla città la sua iniziale indifferenza, anzi gli è grato di aver chiamato l’università: la “Gottfried Wilhem Leibniz Universität”.

A Hannover ci mette anche la faccia: in mezzo al traffico cittadino, di fronte all’Opera, il profilo metallico del suo volto si erge sopra una base rettangolare di granito grigio. Da un lato si può leggere l’iscrizione: “EINHEIT IN DER VIELHEIT – unitas in multitudine” ossia “L’UNITÀ NELLA PLURALITÀ”. Sull’altro lato della sagoma sono esposti i caratteri del sistema binario leibniziano.

A Hannover Leibniz è nella bocca di tutti: il suo nome è scritto su un biscotto! La Monade suprema (Dio) non poteva ignorare che questo sarebbe accaduto; la monade spirito di Leibniz non l’ha potuto appercepire.

Il biscotto Leibniz è nato due anni dopo che Hermann Bahlsen aveva ricomprato a Hannover nel 1889 la fabbrica inglese “Cakes und Biscuits” e l’aveva rinominata “Hannoversche Cakesfabrik H. Bahlsen”. Il Leibnizkek è all’origine della popolarità e del successo della ditta che lo ha lanciato sul mercato. La tenace azienda Bahlsen sopravvive alle due Guerre Mondiali e si espande, creando sedi prima in Italia e in Francia, poi in Russia e in Polonia…

Rettangolino croccante e dentellato, il sottile biscotto Leibniz delle origini, è ancora sulla piazza a ostentare con orgoglio il suo primato e il suo sapore genuino di burro e vaniglia: il Butterkek (biscotto al burro).

Certo la sua famiglia si è allargata e i più giovani si sono arricchiti di copertura al cioccolato fondente o al latte, i ChocoLeibniz, oppure si sono lasciati guarnire di un ripieno di crema al cioccolato. Comunque, rimane lui il fortunato pioniere dell’azienda Bahlsen di Hannover, il primo ad aver portato impresso sulla sua superficie dorata il nome del geniale pensatore tedesco…

Dolce Leibnizkek, mi dispiace comunicarti che non sei il numero uno della stirpe Butterkek. Il tuo creatore, Hermann Bahlsen, ha riprodotto nei minimi particolari un biscotto francese nato dalla mente estrosa del pasticciere Louis Lefèvre-Utile. Ti prego, non crucciarti! Vorrei raccontarti la storia del tuo fratello maggiore. Capirai che la tua forma ha un significato preciso. Ascolta! Sono certa che ti stupirai.

Nel 1846 i genitori di Louis, Jean-Romain Lefèvre et Pauline-Isabelle Utile, aprono una pasticceria nel centro di Nantes (Dipartimento Loira Atlantica); la battezzano LU, accoppiando le iniziali dei loro cognomi. Anni dopo, Louis prende in mano l’azienda di famiglia con l’intento di modernizzarla.  Nel 1886 gli viene l’idea di creare un biscotto genuino e leggero che si possa mangiare tutti i giorni e in qualsiasi momento della giornata. Sceglie quattro ingredienti semplici (farina, burro, zucchero e latte), una forma a centrino rettangolare e dei dettagli che evocano la nostra maniera di scandire il tempo. I quattro angoli arrotondati simboleggiano le stagioni; il lato lungo sette centimetri ricorda i giorni della settimana; i cinquantadue dentini che frastagliano i bordi rappresentano il numero di settimane in un anno; i ventiquattro puntini disposti a intervalli regolari sulla superficie illustrano le ore della giornata.

Siete quasi gemelli. Se vogliamo essere pignoli, ti manca qualche buchino: ne hai solo quindici invece di ventiquattro… La cosa che vi distingue veramente è il vostro nome. Tuo fratello francese si chiama “LU Petit-Beurre Nantes”.

Joëlle

  Maggio 2022

 

 

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