Pesce a tavola
“Non essere né carne né pesce” ossia non sapersi collocare da una parte o dall’altra, rimanere nell’ambiguità. Nessuna esitazione: in cucina, mi schiero in favore del pesce. Posso fare a meno della carne, non faccio a meno del pesce. Chi non l’apprezza, lo accusa di puzzare ma puzza soltanto se non è fresco, altrimenti esalta un inconfondibile odore di alghe, di brezza iodata. Non sono attratta dal pesce di fiume, prediligo quello del mare, quello selvaggio che si sposta libero e viene catturato per caso. Scanso quello d’allevamento, ingrassato dall’uomo e imbottito di antibiotici; muovendosi squami a squami con i suoi congeneri, diventa per forza untuoso e scipito.
Porto di Treboul Finistère Bretagna
La mamma quasi ignorava il pesce. Lo mangiava ma non lo cucinava. Per la nonna, invece, era un ingrediente fondamentale: lo preparava spesso quando soggiornavo da lei, sull’Atlantico. La mattina si recava presto al mercato, la sua cesta di vimini sotto il braccio. Voleva essere presente all’arrivo dei pescherecci. Quando ero sveglia, l’accompagnavo. Scendevamo a piedi fino al porto in un viottolo ripido, fiancheggiato di case basse. Nei vasi di terracotta, cespuglietti di marinelle rallegravano il davanzale delle finestre. Sul finire dell’estate, dopo una fioritura bianca, le piante accendevano delle piccole palle gialle e arancione come tante festose lampadine vegetali. Anche il loro nome era poesia: “les pommiers d’amour”. Ricordo i pescatori nella loro giacca di grossa tela blu senza bottoni. Berretto in testa, i piedi protetti da stivali di gomma, scaricavano sul molo le loro casse. Lo sgombro non mancava mai, il resto cambiava secondo i capricci dell’oceano: ignoravamo in partenza che cosa avremmo trovato. La nonna si adeguava. Accompagnarla mi piaceva. Vicino ai pescatori, le bancarelle colorate dei contadini esponevano frutta e verdura della zona, o come si definiscono oggi “prodotti a chilometro zero”. Via a via, la cesta di vimini si arricchiva di derrate. Come erano saporiti i fagiolini finissimi e le famose fragole di Plougastel ! Impossibile tornare a casa senza una sosta dal fornaio Guellec il cui pane diffondeva sulla strada un profumo che faceva venire l’acquolina in bocca. Sul marciapiede si allungava la fila dei suoi clienti. Varcata la soglia, ci aspettavano il “ Kuign Aman”e il “Quatre-quarts breton”, due dolci generosi di burro. Il primo era tondo, ricoperto di una croccante crosta dorata. L’altro, soffice e quadrato, presentava una superficie lievemente rigata.
Bernard Morinay Une belle pêche
Pulire il pesce? Le mani della nonna si agitavano nel grande acquaio di ceramica bianca: lo squamavano, lo vuotavano con un taglio deciso sotto la pancia, lo passavano sotto l’acqua del rubinetto. In un baleno, era pronto. Questi gesti mi appaiono naturali; li ripeto senza disgusto. A tavola, non voglio proporre i soliti pesci, cerco di alternarli per non cadere nella monotonia. Comunque, non perdo mai di vista il primo criterio di scelta: la freschezza del pescato. “Guarda questa pelle cangiante, quest’occhio trasparente e il rosso vivo delle branchie. Più fresco di così !” esclamava mia nonna mentre puliva il pesce. Lo sgombro, nel giro di poche ore, passava dall’oceano al suo forno a gas; acceso con i fiammiferi, il vecchio apparecchio si svegliava con un rombo inquietante. Sotto la pelle sollevata dal calore, lo sgombro offriva una carne bianca e tenera, profumata di mare. È il pesce della mia infanzia ; a Firenze, non lo compro mai perché, a parere mio, andrebbe consumato appena pescato. Anche le sardine mi ricordano la Bretagna: penso a quelle grigliate da mio padre nel giardino della nonna, sopra un fuoco di legna. Cuocendo si alleggerivano, liberando a poco a poco nella brace goccioline di grasso. E le alici ? In Francia, mangiavo soltanto quelle confezionate nelle scatole d’alluminio o nei barattolini di vetro. In Italia, ho scoperto quelle fresche. Bisogna eliminare la lisca centrale, congelarle almeno tre giorni e decongelarle per distruggere eventuali parasiti. Quindi basta lasciarle marinare nell’aceto un’ora prima di condirle con olio d’oliva, un po’ di aglio e prezzemolo. Cotte, non mi piacciono. Si sa, per molti “tonno”rima con “scatola”ma il tonno fresco, passato in forno con pomodorini, dadini di patate e cipolle comunica un altro sapore. E’ versatile al punto di risultare buonissimo con le pere. Davanti a un trancio di tonno rosso del Mediterraneo, trovo azzeccato il soprannome “bistecca del mare” lanciato da un cugino corso. Comunque lo compro di rado perché è in via di estinzione anche se temo sia la triste sorte di tutti i pesci selvaggi.
Ci sono i miei coccolini, “mes chouchoux”: il branzino o spigola, l’orata e soprattutto … il pesce Sanpietro! Di quest’ultimo ho fatto la conoscenza in Italia, in un ristorante nei pressi di Urbino. Il ristorante era singolare. Insediato su un promontorio fra piccoli laghi, incappellato da un’unica capriata in legno, lasciava penetrare il verde circostante attraverso ampie vetrate. Il contatto intimo con la natura non si fermava lì: nella sala stessa, i tronchi di querce secolari s’innalzavano verso il soffitto come le colonne d’un tempio boschivo e andavano a perdere la loro chioma oltre la capriata. Dopo il primo boccone di Sanpietro vestito di una crema al vino rosso, l’orata è passata seconda nella classifica dei miei pesci preferiti. Da allora il Sanpietro non è mai retrocesso; non gli conosco rivali. Non so perché si chiami “Zeus faber” ossia Zeus fabbro; invece conosco la storia legata al suo nome comune. Al centro del suo corpo, da ambedue i fianchi, spicca una macchia tonda e scura bordata di chiaro. È la traccia indelebile delle dita che lo reggevano per estrarre dalla sua bocca una moneta d’argento: sono le impronte del santo pescatore. L’esattore romano di Cafarnao non transigeva. Andava pagata la tassa per accedere al tempio. Gesù lo sapeva. Così ordinò a San Pietro: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. È la scena del Tributo dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci. Il pesce prelibato figura nell’affresco, fra le mani dell’apostolo piegato in riva al lago, intento a scovare la moneta. Il suo corpo schiacciato inganna: è un falso magro. Difatti regala due copiosi filetti di una squisita carne bianca e soda, priva di lische.
Le lische: qui tocchiamo un argomento spinoso in famiglia. “E tu lo sai, mi piace il pesce ma non sopporto le lische!”. L’ha sentita sotto i denti e ora me la brandisce, esasperato: è la lisca della discordia. “ Se ti piace, tu lo fai ma così non te lo mangio!”. Conosco il ritornello. Cerco sempre di evitare l’incidente diplomatico ma a volte l’intrusa si fa discreta. Armata di pinzette, passo in rassegna il pesce: filetti di merluzzo, di gallinelle, di branzino … Con la precisione di un orologiaio e la pazienza di una certosina, cerco di eliminare la minima traccia sospetta. Se me ne scappano alcune, ho diritto alla scena tragica. Ribatto: “Anch’io ne ho trovato due e non ne faccio un dramma!”. È più forte di lui, non resiste al gesto teatrale… Ricavo serenità dal polpo, dai calamari, dalle seppie, dalle vongole, dalle cozze, dagli scampi, dai gamberetti. Rana pescatrice e razza mi rilassano: non nascondono lische!