Epifania dei Medici

Quando vengono elencate delle opere di Botticelli, “La Primavera” e “La nascita di Venere” non mancano mai e anzi, arrivano in testa. Citare l’ “Adorazione dei Magi di Lami” è meno spontaneo. Questi tre capolavori del pittore fiorentino si trovano collocate all’interno del Museo degli Uffizi.

L’ Adorazione dei Magi di Lami, benché di ridotte dimensioni paragonata alle altre due tavole, contiene dettagli significativi. È uno scatto fotografico ante litteram della famiglia Medici, del committente e del pittore.

L’adorazione dei Magi è un tema ricorrente nella storia dell’arte. Innumerevoli opere raffigurano questa festa cristiana. Apparentemente non c’è niente di nuovo nel dipinto di Botticelli. Siamo in presenza di tre Magi portatori di doni: uno anziano, uno maturo e uno giovane. Gesù Bambino riceve la loro visita, in braccia a Maria, sotto lo sguardo protettore di Giuseppe. Però, l’epifania botticelliana rompe con l’angolatura tradizionale. Finallora in pittura, la visione del presepe era laterale. Qui, la Sacra Famiglia è centrale, in posizione sopraelevata. Abbiamo una visione frontale della scena. Assistiamo all’avvenimento dietro a Baldassarre e a Gaspare; la Madonna è di fronte a noi.

A renderci ancora più partecipi, concorre la figura del Botticelli. Nel Quattrocento, non è raro che un artista inserisca la sua immagine fra i personaggi, all’interno della sua opera. È un modo di firmare, di eseguire una firma non scritta. Qui, il pittore si è ritratto in primo piano, ammantato di giallo e ci fissa. La sua espressione è enigmatica. Il suo sguardo ci invita a sostare, ci interroga: “Per favore, rimanete un po’! Vi piace il mio quadro? Ne capite il significato?”. Il colore dell’abito che indossa, non è privo di ambiguità. Il giallo rappresenta il sole, la gloria e la potenza ma anche la bile, la malinconia, la malattia. Insomma, è una cromia che lascia incerti, perplessi. Qui, il giallo è simbolo di gloria perché Botticelli si sta affermando nel mondo degli artisti e s’inorgoglisce di contare la potente famiglia Medici fra i suoi committenti. Nel 1475, anno in cui realizza quest’Epifania, riceve infatti il rilevante incarico di dipingere lo stendardo di Giuliano de’Medici con Pallade vittoriosa, in occasione di una giostra. Però, se si pone in prima linea, se si mette così in evidenza, per quale motivo nasconde la sua mano nel mantello? La mano è lo strumento dell’artista per antonomasia, perché nasconderla?

Altri due personaggi volgono lo sguardo verso di noi. Uno, giovane e vestito di rosso nel gruppo di sinistro, l’altro con i capelli bianchi e l’abito azzurro nel gruppo di destra. Si assomigliano nei tratti e nell’espressione: di sicuro, sono membri della stessa famiglia. L’uomo anziano ha una mano guantata, l’indice puntato verso il petto: “Il dipinto, l’ho pagato io!”. È il committente, Gaspare del Lama, di umili origini. Suo padre Zanobi era barbiere. Nel 1454, Gaspare ha comprato una casa in Via della Scala; abita nello stesso quartiere di Botticelli. La sua condotta non è stata esemplare, la sua vita piuttosto spregiudicata. È diventato sensale all’ Arte del Cambio, ossia mediatore dei banchieri. Quando, a sessantaquattro anni, commissiona “L’adorazione dei Magi” per l’altare della cappella che ha fatto costruire in Santa Maria Novella, è all’apice della sua fortuna. Il soggetto scelto enfatizza il suo nome: il Mago più giovane si chiama appunto Gaspare. Il committente rende pubblicamente omaggio ai Signori “in pectore” della Firenze quattrocentesca, i veri capi politici che tengono ben saldi le redini della finanza: i Medici. Deve molto del suo successo alla potente famiglia fiorentina. L’evento religioso si fa specchio di una società, del ceto facoltoso cui appartiene, nel quale Botticelli è approdato da poco grazie al suo talento. Forse il pittore nasconde la mano per sottolineare la sua ascesa sociale: non ci guarda in qualità d’artista ma in quanto Alessandro Filipepi, uomo nato da un modesto conciatore di pelli e ora, accolto nella prestigiosa cerchia di Lorenzo il Magnifico.

Sulla tavola, sono raffigurate tre generazioni della dinastia medicea (ovviamente tutte al maschile!). Cosimo il Vecchio, Melchiorre, è inginocchiato davanti al bambino Gesù. Gli avvolge i piedini in un velo trasparente. Sembra l’atteggiarsi tenero di un nonno con il suo nipotino, di un anziano con un neonato. Il vecchio Mago indossa una raffinata tonaca nera impreziosita da ricami dorati. Il nero è la quintessenza dell’eleganza maschile. È anche il colore o piuttosto il “non colore” di uno stato primordiale, di una fase iniziale. In questo caso, segna il fondatore di una dinastia.

I figli di Cosimo il Vecchio impersonano i Magi Baldassarre e Gaspare. Il primogenito, Piero il Gottoso, sfoggia un manto vermiglio foderato di ermellino. Il rosso brillante associato alla pregiata pelliccia simboleggia la regalità, il potere. Difatti, Piero succede a Cosimo nella dinastia medicea. Il secondogenito, Giovanni, indossa un abito bianco leggerissimo, in forte contrasto con i vestiti colorati e pesanti degli altri personaggi. Sta conversando con suo fratello. Impossibile! Quando Piero prende in mano le redini della famiglia, Giovanni è deceduto da un anno. Botticelli evidenzia l’incongruenza cronologica con il vestito quasi immateriale del Mago più giovane. È come se Piero stesse parlando con un angelo, con l’anima di suo fratello defunto. Il bianco come luce spirituale, il bianco per illustrare una mancanza, un’assenza. Quando Botticelli realizza il dipinto, Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso e Giovanni sono già scesi nella tomba. Nel 1463 Giovanni è uscito di scena per primo, precedendo suo padre di un anno. Il colpo è stato durissimo per Cosimo che l’aveva allevato come suo successore perché lo considerava più sano e più arguto del primogenito. Forse il velo trasparente fra le mani del vecchio Mago allude al dolore e alla delusione di Cosimo dopo la perdita del figlio prediletto: il velo sembra un pezzo dell’abito di Giovanni. Piero muore nel 1469, a solo cinque anni dalla scomparsa di suo padre. Il quadro rende dunque un omaggio postumo a tre illustri esponenti della famiglia Medici.

Botticelli esegue anche i ritratti di due esponenti viventi della famiglia: i figli di Piero il Gottoso. Lorenzo, ventunenne, ha raccolto l’eredità politica di Pietro, non per sete di potere ma per timore di perdere la ricchezza accumulata dal nonno e dal padre. Come scrive: “A Firenze, si poteva mal vivere ricco senza stato”. L’anno del dipinto, egli ha ventisei anni. Lo vediamo nel gruppo di destra, vicino a Gaspare e Baldassarre. Indossa un vestito nero e rosso, colori che richiamano la tonaca di Cosimo e il manto di Piero. Ha l’aria pensosa; sa già i sacrifici e i pericoli legati alla sua posizione.

Suo fratello minore Giuliano, in primo piano all’estrema sinistra, è spavaldo. Ha ventidue anni. Da poco, ha vinto la giostra corsa sulla Piazza di Santa Croce, in onore della sedicenne Simonetta Cataneo, la “Senza pari” sposa di Marco Vespucci. A ricordare il torneo, ci sono le due teste di cavallo all’altezza della spalla e della capigliatura del giovane Medici. Per l’evento, Botticelli ha dipinto lo stendardo di “taffettà alexandrino” dove Simonetta appare sotto l’aspetto di Minerva, tutta rivestita d’oro e calzante stivaletti azzurri.  

Agnolo Poliziano cinge le spalle di Giuliano con affetto. Nelle Stanze, i suoi versi hanno celebrato la gara del “Bel Julio”. Accanto, Pico della Mirandola, indica loro il Mago maturo Piero, con un gesto della mano. Sembra che voglia ricordare a Giuliano le sue venerabili origini.

Per me, il dipinto illustra il passaggio da un’era antica, a una nuova era. Nella tradizione, L’Epifania del Signore marca il passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Sul fondo a sinistra, i vestigi di un edificio antico contrastano con la capanna della Natività, collocata davanti. All’interno della grande famiglia Medici, il commando sta passando da una generazione all’altra. Da poco, Piero il Gottoso ha lasciato il testimone a suo figlio Lorenzo il Magnifico. Sempre, una nuova era è sorretta dal periodo che l’ha preceduto. La religione cristiana trova le sue radici nella religione pagana, nella filosofia dei pensatori greci. La tettoia del presepe si appoggia su ruderi antichi. E Lorenzo! A chi deve la sua posizione sociale, se non ai suoi industriosi antenati mercanti e banchieri?

In alto a destra, il pavone appollaiato sui ruderi che sorreggono la capanna, osserva la scena della Natività. L’uccello “dai cento occhi” funge da cerniera fra mondo classico e mondo cristiano. Nell’antica Grecia, si chiamava “Volto di Era”.  Il suo piumaggio adorno di ocelli simboleggiava il cielo stellato e lo splendore dell’universo. Così, il pavone era l’attributo della grande regina dei cieli, regina degli dèi e sposa di Zeus. Era poteva generare senza il concorso di alcun essere maschile. In questo, la sua figura ricorda Maria, madre di Gesù. Nello stesso quadro, Botticelli unisce l’epifania di Era cioè il pavone, con l’epifania del Signore cioè l’adorazione dei Magi. La Regina degli dèi greci osserva la Sacra Famiglia. Il culto politeista è sovvertito dal monoteismo. L’avvento del cristianesimo segna la fine del paganesimo.

Raffigurazione musiva di due pavoni

Cimitero Monumentale di Milano

Già nella tradizione persiana, il pavone simboleggiava bellezza, regalità e immortalità. Presso i romani, si riteneva che fosse un animale imputrescibile. Pure Sant’Agostino credeva le sue carni incorruttibili. Difatti, la sua carne è secca, dura, difficile da cuocere e da digerire; più che putrefarsi, si mummifica. Per questa sua caratteristica, Il mondo cristiano dei primi secoli lo adottò come simbolo d’immortalità, simbolo di Dio. Dopo la stagione riproduttiva, le lunghe piume della coda cadono; la loro ricrescita a primavera era sinonimo di resurrezione, accennava a Gesù Cristo. Il pavone era anche un animale caro a Piero il Gottoso.

Comunque, l’immortalità non è riservata al pavone ossia alla divinità. Non è appannaggio esclusivo di Era o di Dio. Unire sul dipinto, esponenti della famiglia de’ Medici già deceduti con membri ancora viventi, ha valore di messaggio. Avere una discendenza è trasmettere ai propri figli una parte di sé, e di conseguenza non morire del tutto. Anche l’artista diventa un’immortale: grazie a Botticelli, Alessandro Filipepi lascia la sua impronta nella Storia. Poi, l’opera d’arte stessa ha la facoltà d’immortalare: se Gaspare di Zanobi del Lama non avesse commissionato la tavola d’altare per la sua cappella, oggi nessun lo ricorderebbe. E così se Botticelli non avesse scelto il viso di Simonetta Cattaneo come modello per la sua “Venere” o la sua “Flora”, la ragazza genovese andata sposa a Marco Vespucci, sarebbe sparita senza lasciare traccia nella notte dei tempi…

Joëlle

 

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Leibniz? monadi… ma non solo