Plasticamente corretto
Curiosi per natura, ci piace indagare e scoprire. Le scoperte sono nutrimento per il nostro cervello, acqua per il mulino della nostra creatività. Siamo inventivi, vogliamo progredire. Di rado ci accontentiamo, proviamo il bisogno di innovare, di migliorare le nostre condizioni di vita. “Migliorare” sottintende “cambiare”. In assenza di cambiamento, non c’è miglioramento. Mantenersi in uno statu quo, attaccarsi alla tradizione, rifiutare le trasformazioni, sottrarsi a esperienze nuove, impedisce di progredire. Volere migliorare è lodevole ma si presenta come una sfida. Significa smettere di passeggiare su una strada conosciuta per imboccare una via nuova, irta d’incertezze. Nel cambiamento esiste il rischio di peggiorare, di recare danni a noi stessi e al mondo che ci circonda. Insomma, se puntiamo a migliorare, necessariamente dobbiamo cambiare però, “cambiare” non è sinonimo di “migliorare”.
Da milioni di anni, maleodorante e viscoso, “l’oro nero” dormiva indisturbato nelle profondità della Terra. Gli antichi ne avvertivano l’esistenza quando affiorava naturalmente in superficie. Sembrava un olio trasudato dalla roccia e così l’avevano soprannominato “olio di pietra”. Lo usavano a scopo bellico come arma incendiaria, come fonte di luce, per impermeabilizzare le imbarcazioni e addirittura come medicinale. Tuttavia, la prima scoperta dei giacimenti di petrolio è recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Tramite i pozzi, abbiamo risucchiato “l’oro nero” per portarlo in superficie. È diventato la fonte energetica per eccellenza; abbiamo dato il via all’era del petrolio. Nei primi del Novecento, grazie al nostro ingegno, il greggio ha partorito una sostanza molto resistente: la plastica. Il nuovo composto ha permesso formidabili sviluppi all’industria moderna. L’invenzione è straordinaria: un materiale a basso costo, leggero, plasmabile, infrangibile. Al suo esordio, abbiamo osannato la plastica ma nessun ha preso in considerazione il devastante effetto che poteva produrre sull’ambiente. Ecco il guaio: non è degradabile come la carta, il vetro o la ceramica!
Economica e versatile, sì! Ma anche colonizzatrice. Quando invecchia, la plastica si spezzetta ma, invece di sparire, si accumula perché le sue complesse molecole sono inattaccabili. È un materiale artificiale e in natura non esistono microrganismi capaci di cibarsene. Così non viene scomposta in molecole più semplici e riutilizzata nell’ecosistema. Diventa una vera piaga. Incontrollati, i suoi residui conquistano il pianeta. Quando sono di grandi dimensioni, possono soffocare gli animali marini, intrappolarli o ostruire il loro stomaco e farli morire di fame. Quando sono piccolissimi, vengono ingoiati dai pesci o dai crostacei e si ritrovano nella loro carne. Sul mare galleggiano estese isole di plastica e nei fondali, rifiuti di plastica giacciono a tonnellate. La sabbia è colonizzata da micro particelle di plastica. Sulla terra, la plastica si ammucchia nelle discariche e ovunque si trova plastica abbandonata che deturpa il paesaggio.
Colonizzatrice, ma purtroppo anche serbatoio di sostanze tossiche! Almeno da questo punto di vista, la plastica alimentare non dovrebbe destare preoccupazioni. È studiata per l’imballaggio del cibo, dunque, si presume, è una sostanza inerte. Ora ci informano a denti stretti che alcuni dei suoi componenti possono migrare nell’alimento e finire nel nostro organismo. Il rischio di passaggio di sostanze nocive è aumentato con il calore: bisogna evitare di porre un alimento caldo in contatto con la plastica. Quanti piatti già pronti, da riscaldare al microonde, sono venduti nei contenitori di plastica? L’avvertimento vale anche alla rovescia: la plastica riscaldata ceda più volentieri additivi pericolosi. Per valutare la portata del problema, basti pensare alla bottiglia d’acqua lasciata al sole. Come correre ai ripari se, pure la bustina di carta che sbollentiamo per farci un infuso, contiene plastica? Per sbarazzarsi delle sue scorie invadenti, basterebbe bruciarle. Magari! Sarebbe dimenticare che bruciando, liberano nell’aria sostanze nocive e cancerogene.
Per fermare il suo dilagare, si potrebbe decidere di non produrla più. Utopistico! In molti casi, non sappiamo farne a meno. È ormai un essere tentacolare, entrato in tutti i settori delle attività umane. Tornare indietro, abolirla, pare inconcepibile. Per citare solo un esempio: nei paesi industrializzati, quante mamme sarebbero disposte ad abbandonare i pannolini “usa e getta” per ritornare a quelli di cotone?
Se non la vogliamo bandire, almeno limitiamone il consumo visto che la usiamo in modo esagerato. Conservo il ricordo di un pranzo di Natale, per me, allucinante. Sulla tavola, stoviglie, posate e bicchieri erano tutti di plastica, persino le flûte, mentre piatti di porcellana e cristalli stavano aspettando nelle vetrine della sala.
Ben venga il suo riciclaggio ma più di tutto bisogna imparare a adoprarla con giudizio e non considerarla, come ci è stato a lungo inculcato, un materiale innocuo da usare con leggerezza.
La Lattaia ° A. Tomassi
Dove andiamo? In poco più di cent’anni ci siamo lasciati sopraffare dalla plastica. Ci circondiamo di oggetti di plastica, avvolgiamo tutto nella plastica, ci vestiamo di plastica, mangiamo la plastica, la beviamo e ne ricopriamo la Terra. Fermiamo quest’invasore! Mettiamo un freno!
Joëlle
° Un bicchierino di metallo, debole resistenza a un mondo soggiogato dalla plastica. Foto scattata il 6 agosto 2014 dalla mia amica Antonella Tomassi, nei pressi del monastero di Sakya (Tibet).