Agnello
Un soffice batuffolo candido che salterella in un verde prato. Ecco l’immagine che s’impone subito alla mia coscienza. La parola mi fa sorgere in mente anche l’illustrazione eseguita da Saint-Exupéry nelle prime pagine del suo celeberrimo racconto. Ma, mi obietterete, il Piccolo Principe chiede con insistenza il disegno di una pecora, non di un agnello! È vero. Però il tratto maldestro e semplificato raffigura più un tenero agnello incerto e vulnerabile. Riflettendoci bene, se un giorno avessi accarezzato una simile creatura dolce e lanosa, avrei sicuramente rinunciato all’arrosto tradizionale di Pasqua e di Natale. Purtroppo, non mi è mai capitato, sicché, due volte all’anno, sono ancora vergognosamente “agnellofaga”. L’animale e la sua carne rimangono istintivamente due oggetti scollegati nella mia testa: pensare all’uno, esclude l’altro.
Vetrata Duomo di Firenze Agnello di Dio XVIII sec.
Se lascio da parte la rappresentazione visiva della parola, risuona una formula liturgica che mi riporta indietro negli anni. Da piccola, accompagnavo mia nonna in chiesa per assistere alla noiosa messa domenicale. In quell’edificio dove mi sentivo intrappolata, giungeva un susseguirsi di parole misteriose e incomprensibili, fra le quali: Agnello di Dio / Che togli i peccati del mondo / Abbi pietà di noi. Sulla costa bretone, non si scherzava con la religione: la preghiera era parte del quotidiano, profondamente radicata in una popolazione abituata da tempo a rivolgersi a Dio per affidare i propri marinari all’Atlantico, inghiottitore di vite umane. Era impossibile sottrarsi al rituale della messa.
A scuola, mi ricordo lo sgomento e la rabbia provati durante la lettura della favola “Il Lupo e l’Agnello” di Jean de La Fontaine. Come si poteva abbandonare alla crudeltà e all’ingiustizia, un animale inerme di fronte a un’ignobile bestia sanguinaria e senza scrupoli! La terribile sentenza introduttiva “La ragione del più forte prevale sempre” scendeva come una ghigliottina e si sarebbe poi concretizzata nelle ultime righe con l’uccisione del piccolo innocente. Avrei voluto salvare il timido agnello e sconfiggere il lupo malvagio. Avrei voluto lottare, con tutte le mie forze, affinché non si avverasse l’ineluttabile conclusione della favola.
La Fontaine Il lupo e l’agnello
Chi meglio di Jodie Foster, nel film “Il Silenzio degli Innocenti”, interpreta il dolore straziante di aver fallito nel tentativo di salvare un agnello? Mi è rimasta impressa la scena dove Clarice, un nodo alla gola, descrive a Hannibal Lecter il suo tormento di non essere riuscita a scappare con un agnello condannato alla macellazione. Ne voleva portare in salvo almeno uno fra i tanti che belavano disperati, in preda al panico. L’agnello come simbolo dell’innocente destinato ingiustamente a una morte cruenta.
Joëlle