Io e i fichi
In Bretagna, nel giardino dell’Eden di mia nonna, un grande fico stendeva le sue braccia contorte. Stava nella parte più a nord del giardino, addossato a un vecchio muro di pietra. Per tre motivi, non mi era simpatico. Il primo perché, appunto, era collocato nel luogo più freddo e meno assolato. Il secondo perché i suoi frutti erano immangiabili. Dopo diversi tentativi, la nonna aveva rinunciato a farmeli apprezzare. Mi ricordo la buccia verde e spessa, la polpa bianchiccia lievemente zuccherina e piena di semi, il succo lattiginoso e urticante nel picciolo. Non era nemmeno parente lontano del fico secco che conoscevo! Non capivo l’impegno di mia nonna nel cogliere questi frutti scipiti. Aveva fabbricato un attrezzo. Consisteva in un barattolo di metallo dal bordo dentato, montato in cima a una pertica. Semplice ed efficace: i “denti” staccavano il picciolo e il frutto così liberato cascava nel barattolo. Nemmeno i fichi più in alto avevano scampo. Questa pesca aerea mi divertiva e ci partecipavo volentieri ma la golosità di mia nonna per i fichi freschi rimaneva un enigma. Il terzo motivo che mi rendeva l’albero antipatico: le sue foglie. Da piccola, durante le vacanze estive, trascorrevo interi pomeriggi nel giardino. Per la pigrizia di dovermi accompagnare nel bagno di casa, la nonna aveva decretato che potevo tranquillamente liberarmi la vescica sotto il grande fico. Intendeva però che il posto fosse il mio gabinetto pomeridiano a tutto tondo. Il problema sorgeva quando dovevo sbarazzarmi di un inquilino più ingombrante. Lei aveva previsto l’evenienza. Mi elargiva tre o quattro foglie di fico: per pulirmi e per coprire il “medaglione”. Era organizzata. Affare fatto, accorreva con la pala. Scavava e interrava il bottino ai piedi dell’albero. Mi adeguavo alla sua strana decisione. Forse voleva che esperimentassi un crudo “Ritorno alla Natura” alla Rousseau o mi faceva vivere quello che aveva conosciuto da bambina? All’epoca, le ragioni della sua scelta non m’interessavano, semplicemente mi vergognavo di dover cacare come un cane. Poi, la rigida foglia ruvida che fungeva da carta igienica, non era il massimo: sul sedere, mi passava la lingua gigante di un gatto!
La Toscana mi ha riconciliato con i fichi freschi. Mia suocera ne andava ghiotta. “I fichi sono calorosi” diceva, ogni volta che aveva esagerato e che sentiva in bocca un inizio d’infiammazione. Li mangiava con il pane; d’altronde mangiava tutto con il pane, persino le arance. Me li ha fatto assaggiare e mi sono piaciuti. Erano ben diversi da quelli della mia infanzia. Viola o verde, entrambi morbidi, zuccherati e dalla buccia sottile: una dolcezza naturale! Non c’è da stupirsi, il fico è originario dell’Asia Minore: predilige temperature alte e molto sole. Esprime il meglio di sé sulle rive del Mediterraneo, non certo sulle coste bretone. La scorsa estate non ho mangiato fichi freschi. Per contro, l’estate precedente sono stata invitata in campagna da amici. Gli alberi erano carichi di fichi maturi. Ne abbiamo mangiato, appena colti, con salame e prosciutto crudo. Piacevole ricordo di un pranzo all’aperto, servito fra gli olivi, su una collina che domina la valle dell’Arno. Poi, tornata a casa con due cassette colme di fichi, via libera alla preparazione della confettura!
In francese, italiano, spagnolo, si usa il femminile per indicare un frutto mentre il maschile è riservato all’albero che lo produce. Come tutte le regole grammaticali, comporta delle eccezioni: in italiano, Il fico è una di quelle. Ero da pochi mesi in Italia. Una sera, a tavola, mia suocera mi fece scoprire l’abbinamento del pecorino con la confettura. Non si aspettava il mio complimento: “Buonissima, questa confettura di fiche!”. Di sicuro, è stata la mia gaffe linguistica più grossa.