La Scuola di Atene, a modo mio
Dal 19 al 23 maggio 2022, il Salone del Libro apre le sue porte. A Torino, questo festeggiamento internazionale inaugurato nel 1988, si ripropone ogni anno.
Dovrebbe essere una dichiarazione d’amore al Libro, invece si sintetizza in un gareggiare di editori. La vera festa del Libro non può essere una manifestazione a scopo prevalentemente economico, una manifestazione che mira a incentivare le vendite e dove il numero fa da padrone: numero di biglietti venduti, numero degli espositori, numero dei giornalisti, numero dei paesi rappresentati, fatturato… Non mi voglio intrattenere su una fiera a carattere mediatico. La mia riflessione sarà incentrata sul Libro, ma andrò a visitare un luogo più intimo dove risuona l’inno della pagina scritta.
Il libro è un oggetto prezioso in sé, sarei tentata di dire “un soggetto prezioso”, perché è lo scrigno di pensieri umani. Oggetto materiale, sì! Ma ancora di più, oggetto spirituale. Ha un valore intrinseco che risiede nel suo contenuto, che va oltre ai suoi costi di produzione, alla qualità della carta o della rilegatura, al numero delle copie in circolazione.
A pensarci bene, la sua storia è recente. È nato in Mesopotamia dalla prima scrittura sumera circa cinquemila anni fa: sono tavolette di argilla marcate da segni cuneiformi a raccontarci l’epopea di Gilgamesh. Più tardi, gli Egizi l’hanno trasformato in rotoli di papiro, una pianta che bivaccava sulle sponde del Nilo. Non ha disdegnato neppure il regno animale quando ha scelto la pelle di capra o di pecora assottigliata e levigata come supporto: la pregiata pergamena. La parola “libro” evoca in noi un insieme di fogli sottili delle stesse dimensioni, scritti su entrambi i lati, ordinati, rilegati insieme e protetti da una copertina più spessa. È il senso moderno, quello che i Romani battezzavano “codex” ma si chiama “libro” anche il rotolo di papiro, di carta o di pergamena che gli antichi denominavano “volumen”. La parola scritta accomuna tutti i libri: sta lì, rannicchiata nell’argilla, arrotolata nel papiro o la pergamena, adagiata sulla carta. Nel libro, la parola perde il suo carattere volatile originario per cristallizzarsi nella materia; abbandona la sua invisibilità primordiale per farsi guardare e farsi toccare. La voce si tramuta in scrittura per lasciare l’impronta silenziosa della sua musica carica di significati. Il suono delega al segno il potere di comunicare: il segno parla mentre la voce tace. Chi è l’agente di questa trasformazione? L’alfabeto. Sì, è proprio lui il protagonista della scrittura; è lui che àncora il pensiero ad un supporto materiale, è lui che rende possibile il libro. Senza alfabeto, niente libro! L’oralità ha preceduto di gran lunga la scrittura. Un’estesa catena di generazioni ha tramandato di bocca a orecchio i racconti mitologici senza l’ausilio della parola scritta. Che bisogno ha spinto l’Uomo a inventare l’alfabeto? Il bisogno imperioso di conservare in modo durevole la memoria delle sue origini, la memoria degli insegnamenti dei suoi antenati. Lo ha spinto la paura di perdere per sempre le conoscenze acquisite. L’alfabeto, questa geniale trovata, questa meravigliosa invenzione permette di salvare il sapere e i racconti dalle insidie del tempo. Alfa, Beta, Gamma… le lettere si combinano per disegnare parole, frasi e imprimere sul foglio l’immagine di un pensiero fuggevole. Sono le lettere che permettono a Nonno di Panopoli, poeta ellenistico del V secolo, di raccontare nella sua opera Le Dionisiache, come dalla Fenicia esse sono giunte in Grecia, trasportate da Cadmo:
“… Cadmo aveva portato alla Grecia doni provvisti di mente: vocali e consonanti aggiogate in minuscoli segni, modello inciso di un silenzio che non tace: l’alfabeto.”
Ho scoperto un posto dove il Libro è onorato come conviene, dove è considerato un personaggio e non abbassato al livello di una mercanzia qualunque. Non siamo al Lingotto Fiere di Torino. Siamo in Città del Vaticano; siamo nella Stanza della Segnatura, già biblioteca privata del papa Giulio II che succede ad Alessandro VI Borgia nel 1503. Di fronte a me sulla parete, si distende una grande pagina colorata, dipinta da Raffaello dal 1508 al 1511, che celebra i libri fondamentali del pensiero greco: La Scuola di Atene. L’opera celeberrima brulica di particolari e di dettagli che mi attraggono. È stata commentata e interpretata da innumerevoli critici dell’arte che si sono arrovellati nell’individuare i filosofi rappresentati e nello spiegare i loro vari atteggiamenti. Voglio fare astrazione di tutte queste considerazioni specialistiche e avvicinarmi all’affresco come fosse popolato di persone senza nome, come fosse una piccola comunità anonima che non rappresenta delle scuole filosofiche distinte ma bensì, veicola un messaggio universale. In poche parole, lo voglio osservare a modo mio liberandomi dai vincoli eruditi. Immagino che Giulio II e Raffaello saranno infastiditi dalla mia impertinenza e non apprezzeranno il mio divagare fuori senno ma spero che mi perdoneranno, considerati il mio rispetto per il Libro e il mio amore per la Scrittura. Le epoche si mescolano, s’intrecciano. La Grecia antica sfocia nel Rinascimento e il Rinascimento si sposta al tempo della Grecia antica. Mi sento immersa in un presente continuo, nel Kairòs, un tempo qualitativo che non conteggia i minuti. Dimentico il terribile Chronos, il tempo quantitativo che divora le ore ma che tempo non è più perché è solo memoria di un tempo che fu. La scena rappresentata da Raffaello non è un pezzo di passato; è attuale se la considero come una sintesi dei diversi modi di rapportarsi alla lettura e alla scrittura. Allude ai benefici che si ottengono nella pratica regolare del leggere e dello scrivere.
Si può leggere spaparanzati, in disparte, aguzzando la vista per accrescere il senso critico come suggerisce il signore anziano vestito di blu sulla scalinata. Si può leggere composto, in piedi, in mezzo ad altri come dimostra il signore maturo incoronato di pampini, anch’egli vestito di blu, in primo piano all’estrema sinistra. A guardarlo bene, mi accorgo che non legge in silenzio; sta leggendo ad alta voce per i tre che lo circondano e che, forse, non possono leggere. Il lattante è troppo piccolo per aver imparato, l’anziano soffre di un calo della vista. L’uomo giovane m’intriga. Ha un comportamento singolare: sta dietro al lettore stringendogli le spalle con le mani. Invece di seguire i caratteri sulla pagina come la sua posizione glielo concede, abbassa lo sguardo e il suo viso è velato d’ombra. Gli piace il racconto ma si vergogna di non sapere leggere. Si aggrappa alle spalle del lettore, come fossero una ciambella di salvataggio, per non sprofondare nell’oscurità dell’ignoranza. Intuisce che l’ascolto è un primo passo nell’apprendimento ma che non basta; chi sa leggere per conto proprio è in possesso di una maggiore autonomia; non necessita di un intermediario. A questo proposito, come non rammentare gli audio-libri che sono un approccio alla letteratura ma che non sostituiscono una lettura diretta del testo, non sviluppano la concentrazione necessaria a una buona comprensione e ad una proficua assimilazione.
Lattante Ragazzino Giovane
Nella lettura è rilevante la qualità dell’opera scelta ma al di là di questo, la maniera di leggere è determinante. Un buon lettore non si giudica alla quantità dei libri che ha letto ma alla concentrazione che accompagna la sua lettura. Non importa leggere tanto ossia “legere multa”; bisogna “legere multum” cioè leggere ogni giorno qualche pagina di buona letteratura, con la massima attenzione.
Dunque, in un percorso di alfabetizzazione l’incipit è l’ascolto, il passo successivo è la lettura e il terzo, qual è? I tre personaggi in fila indiana che ci fissano, ce lo fanno capire. Il lattante rotondetto, che tocca il libro con la manina, simboleggia l’ascolto. Il ragazzino vestito di bianco inserito tra l’uomo incoronato di pampini e l’uomo col turbante rappresenta la lettura. Infine, il giovane vestito di bianco anche lui, collocato nelle vicinanze di tre uomini intenti a scrivere, evidenzia il terzo passo: la scrittura.
Delle tre attività, la scrittura si colloca nel tratto finale. Perché? Semplice! Scaturisce dal fatto che per scrivere bene, bisogna saper leggere “multum”. La scrittura è il traguardo. La nostra scrittura non è solo alimentata dalle nostre esperienze personali ma si nutre pure della lettura di opere importanti che contribuiscono ad arricchire la nostra visione del mondo e il nostro modo di raccontare. Tanti semi della nostra scrittura si formano nel retroterra delle nostre letture. Nell’atto di scrivere, notevole è il contrasto tra il corpo che s’immobilizza e la mente che accelera la sua attività. Seduto sul primo gradino della scalinata, un uomo poderoso appoggia il gomito su un blocco di marmo. Come un puntello, la mano e l’avanbraccio del lato sinistro sostengono la testa. Dall’espressione assorta del suo volto, appare chiaro che sta pensando. La mano destra regge una penna ed è pronta a tradurre sul foglio il “disegno” del suo pensiero. La scrittura innesca una reazione che mette in corrispondenza diretta la nostra mente con la pagina bianca, il nostro discorso interno con le lettere dell’alfabeto. Richiede sforzo e concentrazione ma in cambio quest’attività ci sgancia dalla pesantezza del nostro corpo perché ci fa viaggiare in un mondo mentale dalle potenzialità illimitate e ci distoglie dall’inquietudine che caratterizza la nostra condizione umana. Dalla testa alla mano, dalla mano alla testa, ecco lo scrivere: un moto senza soluzione di continuità perché un pensiero fa nascere una frase e da una frase sboccia un altro pensiero. Questo moto continuo è simboleggiato dall’ellisse, formata dalla linea delle braccia dell’uomo, in cui i due fuochi sono rispettivamente la testa e la penna. La scrittura è movimento della mente che riecheggia nel movimento della mano.
Questa considerazione si rispecchia in un ragazzo collocato sopra la scalinata, a destra: addossato a una colonna, chinato in avanti, sta scrivendo. Noncurante della sua posizione scomoda e instabile, indifferente all’agitazione che lo circonda, scrive. Isolato nel suo mondo interiore, viaggia con la penna. È fermo, eppure si muove; è immobile, eppure tutto in lui indica il movimento: le gambe sembrano muoversi, la mano si sposta senza tregua sulla pagina del quaderno, i capelli sono scombussolati da un vento impetuoso. Figura insolita e magnetica che traduce mirabilmente l’intensa attività cerebrale indotta dalla scrittura!
Alle sue spalle, un uomo regge il calamaio e legge frase dopo frase il suo racconto. Non è un maestro; lo conosciamo già: è l’uomo giovane che stava dietro al signore incoronato di pampini. Ha seguito con impegno la trafila dell’apprendimento: ora è in grado di leggere e fra non molto, si confronterà con la scrittura. Ha seguito la regola della costanza e dell’andamento piano e progressivo, illustrata dai due personaggi vestiti di bianco. Così facendo, si è elevato. Gradino dopo gradino, è salito in cima alla scalinata ed è finalmente approdato alla scrittura. Ha capito l’importanza della tenacia e della progressione lenta in un programma di studio.
Non ha commesso lo sbaglio grossolano del giovane, in alto all’estrema sinistra. Aveva fretta e voleva saltare le tappe, animato dalla voglia di arrivare prima al traguardo. La furia fa gli studenti ciechi! È stato cacciato malamente come un pezzente: “Tu! Dove credi di andare? Qui, non si corre! Qui si procede ad agio. Fuori! Tornerai quando l’avrai capito”. L’intervento paterno è stato inutile: “Ha portato i volumi e i codici richiesti. Ha tanto desiderio di imparare!”
In questo cortile di fervidi intelletti, le altercazioni sono un’eccezione e quando si manifestano, sono sempre di breve durata. Il ragazzo aveva passato la misura ed era giusto respingerlo ma se si fosse di nuovo presentato con un atteggiamento consono, sarebbe stato di sicuro accolto. Non sbagliare mai è impossibile ma l’importante è capire il proprio sbaglio e correggersi. In primo piano, nel gruppo di sinistra, il maestro col turbante redarguisce un alunno che indugia a sottoporgli il compito eseguito sulla piccola lavagna. Il giovane con il cappuccio ricamato che assiste alla scena punta l’indice verso il docente, rimproverando al fratello minore il suo comportamento indisciplinato. Le prove scritte e orali fanno parte integrante di un percorso di studio. Da un lato permettono all’alunno di valutare il suo grado di apprendimento; dall’altro, consentono al docente di evidenziare le carenze per poter indirizzare meglio il suo insegnamento e tornare su dei punti che non sono stati ben assimilati.
Dal laboratorio di alfabetizzazione collocato in basso sotto la scalinata, salendo le scale, si accede al piano dell’oralità fine. Qui, non esiste la parola grezza di un linguaggio rudimentale. Qui, s’incontra una parola levigata dall’esercizio della lettura e della scrittura, nobilitata dallo studio: una parola che si è guadagnato l’appellativo di “Logos”. Spiccano al centro due personaggi che conversano fianco a fianco mentre si dirigono verso le scale. Camminano in mezzo a un folto gruppo di persone intente ad ascoltarli. Ognuno dei due tiene un libro in mano. Tra la posizione della mano sinistra e la posizione del libro retto dalla mano destra, si coglie un parallelismo: il signore più anziano, che punta l’indice verso il cielo, tiene il libro verticalmente, invece il signore più giovane che stende il palmo aperto tra cielo e terra, regge il libro orizzontalmente. Che il libro l’abbiano scritto loro o che sia opera di altri, non lo possiamo dire. Per contro, la rilevante dissimmetria che esiste fra il gesto dei due protagonisti, sottolineata dall’inclinazione dei loro rispettivi libri, segna una divergenza di pensiero. Interloquiscono con serenità: ognuno espone argomenti in favore della sua tesi, senza nessuna animosità. “Dia-Logos”! Condivisione di punti di vista, comunicazione verbale tra due o più individui. Menti che si confrontano ma non si offendono perché il rispetto non viene a mancare mai. “Dialogo”! Parola annunciatrice di pace perché senza prevaricazione alcuna: ascolto l’altro e l’altro mi ascolta. Apertura su compromessi senza sopraffazione di nessuno. Forse è ciò che vuole significare la mano alzata del personaggio vestito di blu vicino al protagonista più giovane. Un gesto che è la sintesi di un indice rivolto al cielo e di un palmo aperto.
Purtroppo, la visita è finita. Stanno chiudendo le porte della Stanza della Segnatura. In un secondo, sono ributtata nel Chronos; passo dal Cosmo della Scuola di Atene al Caos della vita ordinaria. Comunque, il messaggio che ho decifrato si è impresso nella mia mente e ne faccio tesoro.
La Scuola di Atene è aperta a tutti: non è uno scrigno inaccessibile, riservato a un’élite. In questo spazio, ci possiamo e ci dobbiamo tutti inserire. Consapevoli che il percorso è lento e faticoso, affrontiamo l’impresa con impegno e tenacia perché conduce alla felicità e alla serenità. Libro e penna sono oggetti a portata delle nostre mani. La mente non va lasciata a maggese a tempo indeterminato perché l’intelletto è ciò di più bello che ci caratterizza e lo dobbiamo coltivare. Non permettiamo che una televisione ingannevole e dei divertimenti insulsi lo sterilizzino. Fortificati dallo studio, scappiamo da quelli che ci vorrebbero tarpare le ali e innalziamoci senza tregua nel cielo della conoscenza. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” o no?
Joëlle
La Scuola di Atene (1508-1511) Raffaello (1483-1509)