L’ape di La Fontaine
Di fronte a molti insetti provo un sentimento di repulsione e paura, sentimento misto a curiosità e ammirazione. Osservare gli insetti mi trasmette inquietudine e un senso di estraneità, una sensazione paragonabile a quella che invade il Signor Palomar, protagonista eponimo del romanzo di Italo Calvino, quando si reca al Jardin des Plantes di Parigi e fa visita agli animali del rettilario. Come il rettile, l’insetto sembra fare parte di un mondo staccato dal nostro, con delle regole che ci sfuggono. È così disciplinato e specializzato da assomigliare quasi a una macchina programmata in modo perfetto. Alla nascita l’insetto è già pronto per tutti i compiti che gli toccherà eseguire: nasce imparato, almeno sembra. Mi viene in mente la riflessione di Rita Levi Montalcini nel Prologo di Elogio dell’imperfezione: “Gli insetti ci hanno preceduto di centinaia di milioni di anni e probabilmente ci sopravviveranno. Quelli che popolano oggi la superficie del pianeta non sono sostanzialmente diversi dai loro più remoti predecessori vissuti 600 milioni di anni fa. Sin da quando si è realizzato il primo esemplare, il loro cervello a punta di spillo si è dimostrato così adeguato ad assolvere i problemi dell’ambiente e le insidie dei predatori, che non si è prestato al gioco capriccioso delle mutazioni, e deve alla perfezione del modello primordiale la sua staticità evolutiva.” Ora, rappresentarmi questi piccoli animali a scala umana mi fa rabbrividire. Immaginare le loro mandibole, le loro antenne, i loro occhi, il loro torace, il loro addome, le loro zampe a grandezza nostra è, per me, terrificante.
Mi intrigano maggiormente e mi affascinano di più gli insetti che vivono in comunità, per così dire “gli insetti sociali”. Offrendo un facile paragone con il nostro affaccendarci in una grande città, mi paiono forse più vicini, più comprensibili. Al contempo, la loro vita in società testimonia l’alto grado di organizzazione che sono capaci di raggiungere. Attenzione però alla differenza abissale fra una loro città e la nostra: l’alveare o il formicaio sono popolati di soli fratelli e sorelle visto che la riproduzione è compito esclusivo della regina. A questo punto, non posso sottrarmi alla voglia di tirare una zampata: è opportuno precisare “pochi fratelli e tantissime sorelle” e così confondere i maschilisti per i quali una società non è concepibile senza il predominio degli uomini e la subalternità delle donne. Fra le api, i fuchi si limitano al ruolo di banca di sperma; sono le operaie, femmine sterili, ad assicurare il buon funzionamento di tutta la colonia. Fino al Settecento, sulla scia delle osservazioni di Aristotele nella sua Historia Animalium, non c’era dubbio che la chiave di volta dell’alveare fosse un re maschio, l’eghemon. A scoprire il sistema matriarcale delle api fu il biologo olandese Jan Swammerdan. Nella sua Historia Generalis Insectorum, pubblicata nel 1669, rivelò che il re delle api ha le ovaie. Duro colpo per i maschietti strafottenti! Visto che tutti sono figli della stessa madre, per raffigurarci la loro comunità è più calzante immaginare un castello che ospita i membri della stessa famiglia piuttosto che una città abitata da svariate famiglie. Nel mondo degli insetti non emerge l’individualità; la loro società ha la forma di un grande organismo in cui le funzioni sono assegnate a secondo dei bisogni e ogni elemento compie il suo lavoro senza sgarrare. Conta solo il benessere del gruppo e la sua armoniosa crescita. Il singolo, parte indissociabile dell’intera colonia, non si tira indietro ed esegue con celerità il proprio compito.
Come non meravigliarsi del progredire inarrestabile di formiche incolonnate, della forza erculea che ognuna sviluppa per trascinare, spingere o portare fino al formicaio un insetto morto che supera di gran lungo il suo peso? Impossibile non rimanere colpiti dal fatto che allevano pidocchi delle piante per estrarne uno sciroppo zuccherato come l’agricoltore ricava latte dalle sue mucche. Meglio ancora, oltre a mungere pidocchi, alcune coltivano funghi in un orto sotterraneo…
Certo, la formica è affascinante ma dai primi anni di scuola elementare pongo su di lei un giudizio negativo: colpa di Jean de La Fontaine! La sua favola La Cicala e la Formica mi ha lasciato lo sgradevole ritratto di un animale crudele e avaro, insensibile allo sgomento della sprovveduta cicala. So che il poeta, benché amasse la natura, non si dedicava ad indagini biologiche e non si curava di descrivere con realismo il mondo degli insetti. Un entomologo gli avrebbe contestato molti particolari, puntualizzando subito che la cicala non mangia né granello, né mosca ma succhia linfa con la sua proboscide. Muore prima dell’inverno. Poi, niente canto! La femmina è muta. Il maschio è un tamburino: tese alla base dell’addome, due membrane dette timballi, vengono azionate dalle contrazioni veloci di muscoli sternali e entrano in vibrazione producendo il caratteristico frinire. Quanto alla formica, si rintana più in profondità durante la stagione invernale e non si affaccia di sicuro all’entrata del formicaio che spesso è sigillato in modo da impedire l’arrivo d’aria fredda. A tutto ciò La Fontaine avrebbe risposto senza indugio che i dettagli zoologici non sono affatto cruciali nei suoi componimenti perché attraverso le bestie, vuole parlare degli umani. Come scrisse il poeta lirico Orazio nel I secolo a.C. : “Quid rides? Mutato nomine de te fabula narratur!” ossia “Perché ridi? Sotto un altro nome, è di te che si parla in questa favola!”. La Fontaine accende i proiettori sulle brutture della società in cui vive e sui comportamenti egoisti e meschini dell’individuo; in questo modo, fa riflettere il suo lettore. Non si limita a una denuncia, pure velata, delle pratiche assolutistiche del Re Sole (il leone), dell’ipocrisia e della piaggeria della sua corte. Si interroga sui fondamenti del potere in generale, mette in scena la bassezza di molti atteggiamenti umani e dipinge con ironia la nostra miserabile condizione esistenziale. Nella prima raccolta di Favole pubblicata nel 1668 e dedicata al Delfino, annuncia chiaramente il suo intento: “Je me sers d’animaux pour instruire les hommes” ossia “Mi servo di animali per istruire gli uomini”. Comunque, mi ripeto, è in parte per colpa della sua poesia La Cigale et la Fourmi che nutro antipatia nei confronti della formica. Dalla mia infanzia giunge un altro ricordo legato a quest’insetto: nel tentativo di preservare la sua cucina dall’invasione di formiche, cosa che di tanto in tanto succedeva, la nonna conservava sistematicamente le derrate nel vetro. Ho preso da lei l’abitudine di riporre farine, zucchero, riso, pasta, frutta secca e legumi nei barattoli di vetro.
La mia simpatia va all’ape mellifera. Perché? Il suo ronzio spunta insieme alla primavera, risuona come una nota calda e familiare lungo l’estate. M’inteneriscono le sue frenetiche giravolte intorno ai fiori, la sua tenacia lavorativa. Mi diverte vederla sparire dentro una corolla alla ricerca di nettare e riapparire dopo un bagno di polline. Insetto pelosetto, colore di foglie autunnali, che evoca bontà e generosità. È meno slanciata ma alquanto più mansueta di sua cugina dalla vita sottile che sfoggia con eleganza un abito giallo luminoso zebrato di nero. No, non ha l’aggressività della vespa. Se si arrabbia e attacca, lo fa a scapito della propria vita che fra le tante, non supera due mesi; eccezione fatta per la regina che può raggiungere la venerabile età di cinque anni. Quando l’ape punge, il suo ardiglione munito di uncini rimane intrappolato e nello sforzo per liberarsi, fatalmente si sbudella. Per me, l’ape non è solo sinonimo di fiori e di periodo estivo; è profumo di cera, sapore di miele e soprattutto varietà alimentare. Il nostro mondo inquinato e impietoso pesa come un macigno sulle ali di questo straordinario animale che assicura da solo la fecondazione di 80% delle piante a fiori. È il più efficace degli insetti pronubi, cioè impollinatori. Senza ape, addio frutta, verdura, semi oleaginosi, legumi, spezie, caffè, cacao, cotone! Ne siamo coscienti? Vogliamo seriamente prendere in considerazione il suo ruolo fondamentale e adottare provvedimenti energici per garantirne la salvaguardia prima che sia troppo tardi? Qualche anno fa, un reportage mi ha lasciata sgomenta. Era girato in Cina nella provincia di Sichuan. Dopo l’uso indiscriminato di pesticidi che avevano spazzato via le api, i contadini di Hanyuan erano costretti a impollinare i fiori a mano con soffici piume…ottenendo scarsi risultati.
Gli antichi non potevano immaginare che un giorno la sconsiderata attività umana avrebbe messo a rischio d’estinzione una simile meraviglia della natura. Dai tempi preistorici, le piccole api hanno stregato gli uomini e assunto molteplici significati. Vestite di rosso, volano da 9000 anni su una parete delle Cuevas de la Araña (Grotte del Ragno) in Spagna. Ricamate con fili d’oro sul mantello di velluto porpora di Napoleone, assistono all’incoronazione dell’imperatore nella cattedrale di Notre-Dame. Onorano della loro vistosa presenza la casula del primo vescovo di Ravenna nel mosaico absidale della basilica di Sant’Apollinare in Classe. Quando Maffeo Barberini sale al soglio pontificio nel 1623 con il nome di Urbano VIII, si affretta a barattare nello stemma di famiglia, la triade poco glorificante dei suoi tafani con tre api.
Divine sono le api che nascono nel Basso Egitto dalle lacrime del dio solare Ra. Divine sono quelle che nutrono il piccolo Zeus sull’isola di Creta. Divini gli angeli-api di Dante che, all’inizio del Canto XXXI del Paradiso, volano da Dio alla candida rosa dei Beati per distribuire pace e carità alla santa comunità e poi, riprendono il volo dal fiore verso la luce di Dio-alveare. Antropomorfe appaiono le api quando la loro complessa organizzazione sociale e la loro incessante attività sono prese a modello. Gli uomini sanno che uno stretto rapporto di cooperazione e condivisione rivolto al bene della comunità, e messo in pratica dalla società delle api, è la strada da seguire per crescere in armonia anche se il più delle volte, sembrano volerlo ignorare. Didattiche, le api, quando il loro bottinare si fa metafora dello studiare. Il miele che elaborano a partire dal nettare dei fiori, simboleggia l’arricchimento in intelligenza che è conseguenza diretta di un percorso di studio. La cera che secernono è la candela dell’apprendimento che illumina la mente e buca la tenda nera e opaca dell’ignoranza. Nel primo secolo dopo Cristo, Seneca illustra al suo caro amico e discepolo Lucilio, tramite l’esempio delle api, come si trae frutto dalla lettura. Esprime questa similitudine nella Lettera XXIII delle sue Epistulae morales ad Lucilium: “Dobbiamo, come si dice, imitare le api, le quali andando in giro si fermano sui fiori che servono per fare il miele, indi dispongono ed elaborano nei favi quanto hanno raccolto… Anche noi dobbiamo imitare le api, e disporre separatamente quanto abbiamo raccolto nelle nostre varie letture – così infatti si conserva meglio - ; in seguito bisogna, adoperando tutte le forze del nostro ingegno, dare uno stesso sapore a quei succhi vari, perché, anche se apparisse la fonte da cui dipendiamo, appaia il nostro personale contributo.”
Secoli più tardi, nel Cinquecento, Montaigne fa eco al pensiero di Seneca, usando anch’egli l’immagine dell’ape. Scrive nel capitolo XXVI intitolato “Dell’educazione dei fanciulli” del Libro Primo dei suoi Saggi: “Le api bottinano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele che è tutto loro; non è più timo né maggiorana; così i passi presi dagli altri, egli (l’allievo) li trasformerà e li fonderà per farne un’opera tutta sua, ossia suo giudizio”. Il ragazzo non si deve lasciare abbagliare dall’insulsa soddisfazione di immagazzinare il sapere. Inutile imparare a memoria, senza capire quello che si legge. Ciò che conta è sviluppare la facoltà di pensare, coltivare la propria riflessione partendo da letture scelte e variegate. L’importante è fabbricare il proprio miele, senza preoccuparsi troppo di ricordare il nome dei fiori bottinati.
E se La Fontaine avesse potuto realmente cambiare gli uomini in animali, in che insetto avrebbe trasformato sé stesso? In una formica … una cicala … un’ape … o cos’altro?
La Fontaine, una formica? Scherziamo! Durante la sua vita non ha accumulato niente, se non i debiti. Non è nato povero; suo padre era un ricco borghese della Champagne che aveva comprato la carica pubblica di ispettore delle Acque e delle Foreste. Eppure, in qualche decenne La Fontaine ha dilapidato il cospicuo patrimonio che aveva ereditato. Forse un accenno alla causa della sua rovina finanziare si può cogliere nel suo romanzo galante in versi e prosa Amours de Psyché et de Cupidon (Gli amori di Psiche e Cupido) dove il personaggio Polyphile ossia quello che “amava tutte le cose”, alter ego del poeta, dichiara: "J’aime le jeu, l’amour, les livres et la musique” cioè “amo il gioco, l’amore, i libri e la musica”. E già! La Fontaine era un giocatore incallito. Nel redigere il suo epitaffio non nasconde di aver le mani bucate:
Jean de la Fontaine (1621-1695)
Jean s’en alla comme il était venu, Mangea le fonds avec le revenu, Tint les trésors chose peu nécessaire. Quant à son temps, bien le sut dispenser: Deux parts en fit, dont il soulait passer L’une à dormir et l’autre à ne rien faire.
Così tradotto : “Qui giace Jean, che se ne andò in punta di piedi com’era venuto: Ritenne non necessario se non inutili le ricchezze, tanto che mangiò tutto, rendite e capitali. Volle far buon uso del tempo: lo divise in due parti, e passò l’una a dormire e l’altra nel dolce far niente.”
Dolce far niente … Allora, La Fontaine, una cicala? L’epitaffio lo lascerebbe intendere. Sì! “Cicala” lo è stato dal 1658 al 1661 nella cerchia raffinata di Nicolas Fouquet, al castello di Vaux-le-Vicomte sito a cinquanta chilometri da Parigi. Il sovrintendente delle Finanze era diventato il suo protettore, un mecenate alla maniera dei principi del Rinascimento. Fouquet si circondava d’artisti, di letterati; il suo mecenatismo privato, pervaso di amicizia sincera e corrisposta, contrastava con il mecenatismo statale e ostentato del Re Sole che costringeva all’ipocrisia e al servilismo. In quelli anni La Fontaine affina la sua scrittura e sviluppa il suo talento di narratore. Compone poesie di corte, ballate, rondò, madrigali, canzoni, una poesia galante Adonis (Adone) e una poesia descrittiva Le Songe de Vaux (il Sogno di Vaux). Dolce far niente… no proprio. Il poeta scherza sul legame che lo unisce a Fouquet: un rapporto commerciale dove i ruoli sono invertiti. Diventa egli stesso il creditore perché dona i suoi versi; la pensione finanziare che riceve sembra irrilevante raffrontata alla pensione di poesia che versa al suo protettore. L’anno 1661 segna la fine della stagione felice che regnava da Fouquet; l’inverno si abbatte senza preavviso su Vaux-le-Vicomte. La lunga estate di La Fontaine, durata quattro anni, è spazzata via. Quiete prima della tempesta: nel suo castello, il 17 agosto 1661, il sovrintendente offre una festa da capogiro al giovane re Luigi XIV. Fulmine a ciel sereno: il 5 settembre, viene arrestato a Nantes su ordine del monarca fortemente condizionato dall’accanito rivale di Fouquet, Jean Baptiste Colbert. Appena gli giunge la notizia, La Fontaine scrive al suo fedele amico d’infanzia Maucroix: “Il est arrêté et le roi est violent contre lui, au point qu’il dit avoir entre les mains des pièces qui le feront pendre…”(È stato arrestato e il re è violento nei suoi confronti, fino al punto che dichiara di aver tra le mani dei documenti per farlo impiccare…).
Sarcastico, Voltaire sentenzierà più tardi: “Il 17 Agosto, alle sei di sera Fouquet era il Re di Francia; alle due del mattino non era più nulla.”
Fouquet (1615-1680) lo Scoiattolo
Dopo tre anni di un processo intriso di pressioni varie, di false testimonianze e di documenti falsificati, il sovrintendente sarà condannato alla reclusione a vita per peculato. Due sogni infranti in un baleno: quello di Fouquet di diventare primo ministro di Luigi XIV e quello di La Fontaine di aver trovato un nido sicuro e confortevole presso un benefattore generoso, amante dell’arte. Il Duca di Saint-Simon, le cui Memorie (iniziate nel 1694) narrano della vita di corte del suo tempo, traccia un’analisi lucida del crollo di Fouquet: “ Dopo esser stato per otto anni sovrintendente delle Finanze, pagò con diciannove anni di prigione i milioni che il cardinale Mazzarino aveva preso, la gelosia di Tellier e Colbert, un eccesso di galanteria e un eccesso di splendore.” Subito dopo l’arresto del suo amico e protettore, La Fontaine compone l’Élégie aux nymphes de Vaux (Elegia delle ninfe di Vaux) per invocare la clemenza del re. Due anni dopo, con l’Ode au Roi pour M. Fouquet (Ode al Re) sollecita di nuovo l’indulgenza del sovrano riguardo a Fouquet. I suoi due tentativi, pure coraggiosi, si rivelano infruttuosi e hanno come unico effetto quello di accentuare la diffidenza e l’ostilità di Luigi XIV nei suoi confronti.
Oltre all’elegia e all’ode in difesa di Fouquet, il poeta scrisse una favola direttamente legata alla penosa vicenda, intitolata Le Renard et l’Écureuil (la Volpe e lo Scoiattolo). Per il suo carattere satirico e il chiaro riferimento a Colbert, il componimento non fu mai inserito nelle raccolte. Nel 1861, una pubblicazione lo portò a galla. A proposito del titolo, una precisazione linguistica è doverosa. In Angiò, antica provincia francese, “Fouquet” era un nome proprio che designava “ lo scoiattolo” (lo stesso è avvenuto per il nome proprio “Renard” che si è sostituito al nome comune della volpe “il goupil”). Non a caso, la famiglia del sovrintendente adottò uno stemma che raffigurava uno scoiattolo rosso rampante su campo argenteo. Il motto “Quo non ascendet? – Fino a dove non salirà?” si riferiva all’arrampicarsi dello scoiattolo in un albero ma alludeva soprattutto alla volontà irrefrenabile di elevarsi nella società per raggiungerne la vetta. Nella favola, la volpe (Colbert) si sente al sicuro nella sua tanna e schernisce lo scoiattolo (Fouquet) che si trova in cima all’albero alle prese con la tempesta. Si diverte di vederlo in pericolo di morte e aspetta con sadismo che sia ridotto in polvere dai fulmini. Mentre si sta prendendo gioco dello sfortunato scoiattolo, non si accorge che un cacciatore e i suoi cani si stanno avvicinando. La tempesta si placca; lo scoiattolo ormai fuori pericolo vede la volpe inseguita dai cani, sul punto di essere raggiunta. Non se ne rallegra perché è consapevole della precarietà della fortuna. Fouquet ha sperimentato di persona che in ogni momento, una situazione felice può precipitare in un baratro; basta un secondo per piombare dal paradiso all’inferno. Sventurato scoiattolo! A volere avvicinarsi troppo al sole, ha bruciato il suo fulvo pennacchio e si è inabissato nell’oscurità gelida della terra. Finirà i suoi giorni rinchiuso nella fortezza di Pinerolo in Piemonte (Pinerolo era tornato sotto dominazione francese trent’anni prima del suo arresto).
Colbert (1619-1683 ) la Volpe
Nel 1667 correva la voce di un’imminente caduta di Colbert. Le Renard et L’Écureuil traduce la speranza che animava allora i numerosi sostenitori dello “scoiattolo”: la speranza di un ribaltamento della situazione, di una rivincita sull’uomo all’origine della disgrazia di Fouquet.
È appurato che la favola La Volpe e lo Scoiattolo precede tutte le altre. Dunque, non è campato in aria pensare che per La Fontaine, l’idea di scrivere favole abbia avuto inizio proprio con questo componimento.
Dopo l’incarcerazione di Fouquet, svanisce la stagione delle cicale. Per non soccombere all’inverno, il poeta trova rifugio al Palais du Luxembourg dalla duchessa d’Orléans. Alla morte della duchessa, è la ricca e colta Madame de la Sablière ad aprigli le porte… Quindi, La Fontaine, una farfalla? Sì! Però… non soltanto una farfalla. Andiamo a scoprire cosa si nasconde dietro a questa affermazione un po’ misteriosa. La Fontaine vuole far parte dell’Académie française. L’istituzione è nata nel 1635 per volontà di Richelieu, primo ministro di Luigi XIII, con il compito di fissare delle regole grammaticali e ortografiche affinché il francese diventi una lingua precisa ed eloquente. Per La Fontaine, l’Accademia è un luogo “dove si impara non soltanto a sistemare le parole ma dove si imparano le parole stesse, il loro buon uso, tutta la loro bellezza e la loro forza”. Il poeta non ambisce a farne parte per accrescere la sua fama. La sua aspirazione a inserirsi nella prestigiosa istituzione non è guidata da un mero bisogno di consacrazione. La sua gloria è già indubbia: con i Racconti in versi e le Favole ha già conquistato un largo pubblico. Le reali motivazioni sono da cercare altrove.
Ricevimento di un nuovo membro all’Académie française
L’Accademia conta quaranta membri eletti a vita; alla morte di uno di loro, si procede all’elezione di un nuovo membro. Colbert era entrato a fare parte dell’Accademia nel 1667; non è fortuito se La Fontaine presenta la sua candidatura il 6 settembre 1683, giorno della morte di Colbert. Ma, forte dell’appoggio di Luigi XIV che è protettore dell’Accademia, si fa avanti anche Boileau. Malgrado un dissenso per i suoi racconti licenziosi, La Fontaine riscuote la maggioranza dei voti e viene eletto. Prendere posto sulla poltrona 24, andando a sostituire il più implacabile e feroce persecutore di Fouquet, ha il sapore pungente di una vendetta post mortem. Tuttavia, per assaporarlo appieno, La Fontaine aspetterà ancora otto mesi perché il Re Sole furioso di non poter piazzare il suo candidato Boileau, rifiuta di convalidare l’elezione. Darà il suo assenso solo quando Boileau sarà eletto il 15 aprile 1684, per favore di un’altra poltrona che si è “liberata” nel mese di marzo. Il desiderio di vendicare il fu amico e mecenate non è l’unica ragione che spinge La Fontaine a voler diventare un accademico. Già nel periodo dei suoi primi passi letterari, quando frequentava il Circolo della Tavola Rotonda, è entrato in contatto con numerosi accademici. Esisteva allora una simbiosi fra le due comunità. Valentin Conrart, il segretario dell’Académie, aveva capito le potenzialità del gruppo di giovani letterati. Intratteneva stretti rapporti con i membri del Circolo che considerava una pepiniera promettente di scrittori in lingua volgare, un vivaio di accademici in erba, un’assemblea di talenti in bocciolo. Per La Fontaine, sedere fra gli accademici è ovviamente ritrovare amici scrittori di vecchia data ma anche riallacciare con la propria gioventù letteraria. È un atto di memoria, un “Temps retrouvé”. Sedersi all’Accademia è ripristinare i ferventi dibattiti letterari che animavano le riunioni del Circolo della Tavola Rotonda. Una volta eletto, il poeta partecipa con impegno alle sedute e ci prova piacere fino all’ultimo. Due mesi prima di spegnersi, il 10 febbraio 1695, La Fontaine scrive all’amico Maucroix: « Voilà deux mois que je ne sors point si ce n’est pour aller à l’Académie, afin que cela m’amuse ».
Tradotto : “Sono due mesi che non esco, tranne che per andare all’Accademia perché mi diverte”. Qui, non confondiamo con il “divertissement” di Pascal; nel verbo “s’amuser” ci sono le Muse e una maniera di ingannare la malinconia. Dopo aver elencato i motivi che hanno spinto il poeta a presentare la sua candidatura agli accademici, festeggiamo con lui l’agognato ricevimento del 2 maggio 1684 che rende ufficiale la sua elezione di settembre 1683. Al tradizionale discorso di ringraziamento, La Fontaine fa seguire un discorso indirizzato alla sua protettrice. Associa così Marguerite Hessein de La Sablière all’onore di essere accolto fra gli accademici.
Nel Discorso a Madame de la Sablière ci consegna un autoritratto, che diventerà famoso, in cui descrive il suo modo di vivere e confessa i suoi peccati. Nella definizione di sé stesso, un verso rimane particolarmente emblematico: « Papillon du Parnasse, et semblable aux abeilles » cioè “Farfalla del Parnasso, e simile alle api”. L’insetto impollinatore ibrido riassume l’aspetto enigmatico e contraddittorio del personaggio: è un’ape con ali di farfalla o una farfalla che si comporta da ape. La Fontaine coltiva l’arte della contraddizione. Da lui, tutto è doppio. La sua scrittura limpida e leggera è frutto di una lunga e laboriosa incubazione. Difende il modello degli Antichi ma i suoi versi disuguali e asimmetrici ne fanno un poeta moderno. Mischia con naturalezza il parlare della Corte e quello del popolo. È lo scrittore della voluttà, dell’edonismo, del gioco ma anche quello della ferocia degli uomini e del pessimismo senza illusioni. È vicino alla Corte eppure, in contatto con Port-Royal; è l’autore di racconti salaci, capace di scrivere poesie religiose. Sembra un uomo ingenuo, distratto e superficiale ma nasconde un pensiero profondo, porta sulla società del suo tempo uno sguardo lucido e maneggia con destrezza l’ironia. Lascia su ogni sua opera un’inflessione inimitabile fatta di grazia e di irregolarità calibrata, una specie di marchio depositato.
Alcuni l’hanno definito “un edonista inquieto”. La Fontaine, sorgente inesauribile di poesia. La Fontaine, fontana sempre aperta che zampilla punti di riflessione.
Joëlle
Il ne faut jamais moquer des misérables, Car qui peut s’assurer d’être toujours heureux ? Le sage Ésope dans ses fables Nous en donne un exemple ou deux ; Je ne les cite point , et certaine chronique M’en fournit un plus authentique. Le Renard se moquait un jour de l’Écureuil Qu’il voyait assailli d’une forte tempête : Te voilà, disait-il, près d’entrer au cercueil Et de ta queue en vain tu te couvres la tête. Plus tu t’es approché du faîte, Plus l’orage te trouve en butte à tous ses coups, Tu cherchais les lieux hauts et voisins de la foudre : Voilà ce qui t’en prend ; moi qui cherche des trous Je ris, en attendant que tu sois mis en poudre. Tandis qu’ainsi le Renard se gabait, Il prenait maint pauvre poulet Au gobet ; Lorsque l’ire du Ciel à l’Écureuil pardonne : ll n’éclaire plus , ni ne tonne ; L’orage cesse ; et le beau temps venu Un chasseur ayant aperçu Le train de ce renard autour de sa tanière : Tu paieras, dit-il, mes poulets. Aussi nombre de bassets Vous fait déloger le Compère. L’Écureuil l’aperçoit qui fuit Devant la meute qui le suit. Ce plaisir ne lui dure guère, Car bientôt il le voit aux portes du trépas. Il le voit ; mais il n’en rit pas, Instruit par sa propre misère. Le Renard et l’Écureuil Jean de La Fontaine