Il volo del pensiero
I/ ALI DI CHAHINE: il pluralismo
“il pensiero ha le ali e nessuno può arrestare il suo volo.” La frase si legge in sovrimpressione sull’ultima immagine di un lungometraggio del 1997: “al-Maṣīr” ovvero Il destino. Con la didascalia conclusiva, il regista egiziano Youssef Chahine manifesta un’intima convinzione e invita a riflettere. Il film si sviluppa intorno alla figura del gran giudice, medico e filosofo ibn Rushd (“figlio della rettitudine” - lo stesso nome di suo nonno) nato nel 1126 a Cordova, morto nel 1198 a Marrakech e conosciuto in Europa sotto il nome di Averroè. Un nome che attraverso nove secoli, alternando momenti di oscuramento e momenti di rischiaramento, è giunto fino a noi. Si ritrova perfino legato all’autore dei Versi Satanici: la sostituzione del suo cognome di nascita in Rushdie testimonia la profonda ammirazione che Salman nutre per Averroè.
L’attore Nour El-Sherif nei panni di Averroè
L’azione di al-Maṣīr si svolge nel 1195 a Cordova, capitale della al-Andalus sotto il califfato almohade, dinastia berbere proveniente dal Marocco. Siamo in Andalusia dove il clima di tolleranza e la proficua coesistenza fra cristiani, ebrei e musulmani, iniziata nel VIII secolo, sono al capolinea. La “Reconquista” dei Re cattolici incalza, sottraendo sempre nuovi territori al califfato. Fra i musulmani crescono le tensioni. Gli integralisti esperti nell’arte d’indottrinare e di manipolare il popolo hanno preso di mira Averroè per motivi religiosi e politici. Hanno spinto il califfo al-Mansur a umiliarlo, a esiliarlo e a fare bruciare in piazza pubblica le sue opere.
Perché questo accanimento? Averroè sostiene che ognuno è capace di sviluppare un pensiero perché Dio, unico detentore dell’Intelletto, ha concesso all’uomo la facoltà di ragionare. Non bisogna temere di confrontarsi con le idee altrui; è un’apertura che illumina la ricerca della verità. Invece, per i membri delle sette integraliste, rabbiosi oppositori di Averroè, leggere i testi sacri con l’ausilio della logica aristotelica è eresia; è blasfemia appoggiarsi alla filosofia (nome arabizzato in falsafa) ossia al pensiero pagano greco e volere conciliare fede e ragione. Secondo loro, il Corano non va commentato in modo razionale; le sue regole vanno applicate in modo letterale e univoco.
Leggero nella forma, intervallato da scene musicate e danzate, il film non è una fedele ricostruzione della vita di Averroè. Profondo nel contenuto, usa la figura emblematica del pensatore musulmano aperto allo scambio culturale per spargere alla volata messaggi etici, politici e religiosi intramontabili e di notevole attualità. Youssef Chahine si schiera a favore del libero dibattito e contro ogni forma di fanatismo. Il suo film si apre in Linguadoca con il rogo di un letterato francese accusato di aver tradotto opere di Averroè. Più avanti, in Andalusia, un integralista islamico lancia un’agghiacciante affermazione: “Ogni volta che taglio una gola, so di avvicinarmi al paradiso.” Nel 1994 il regista, in seguito all’uscita sugli schermi de L’emigrante, film ispirato al racconto veterotestamentario di Giuseppe, si era urtato a violente reazioni da parte di fondamentalisti egiziani. Il destino potrebbe essere una sua risposta. L’ultima scena del film inquadra Averroè sorridente mentre butta nel rogo l’unico scritto suo scampato al fuoco come per dichiarare a mo’ di sfida: “Voi, che bruciate i libri, non riuscirete comunque a impedire la circolazione delle idee! Le idee non bruciano; hanno le ali e non si lasciano divorare dalle fiamme.”
II/ ALI DI AVERROÈ: l’intelletto non è mio
Come nasce e in che direzione vola il pensiero di Ibn Rushd?
Averroè a Cordoba
Averroè calca le orme del nonno e del padre diventando “cadì” cioè giudice. Suo nonno in quanto giurista di scuola malikita e gran cadì di Cordoba ovvero primo magistrato della città, fu un personaggio di rilievo che lasciò un’impronta profonda con la redazione di un esteso corpus di giurisprudenza islamica. Suo padre, anch’egli cadì, seguì da vicino la sua istruzione e l’indirizzò verso studi diversificati: il Corano, gli Hadith (raccolta scritta di dichiarazioni e azioni di Maometto), il figh (giurisprudenza islamica), la grammatica, la poesia, la musica, la matematica, la fisica, l’astronomia, la medicina.
Grazie alle competenze acquisite, Averroè diventò gran cadì di Siviglia nel 1169 poi di Cordoba nel 1180 e anche medico personale del califfo nel 1182. Lo consultavano in ambito sanitario e giuridico. Compose opere sul diritto musulmano, scrisse un libro riassuntivo delle conoscenze e delle pratiche mediche dell’epoca, tradotto in latino con il titolo “Colliget” (Generalità), fece un commento delle lettere sull’igiene del medico greco Galeno e spiegò il Poema della medicina d’Avicenna nel quale il medico persiano condensa il suo voluminoso Canone in 1326 versi.
Nel 1169, durante il soggiorno a Siviglia del secondo califfo della dinastia almohade Abū Yaqūb Yūsuf (padre di al-Mansur) succede un fatto cruciale nella vita di Ibn Rushd. Il suo amico ibn Tufayl, medico di Abū Yaqūb Yūsuf, ha ricevuto dal sultano letterato e aperto alla falsafa, il compito di “togliere l’oscurità dal testo di Aristotele”. Ibn Tufayl indietreggia: è anziano e non si sente l’energia sufficiente per condurre una simile impresa. Vorrebbe lasciare ad altri l’arduo studio e presenta ibn Rushd al califfo in veste di degno sostituto. Averroè si accolla il gravoso incarico e da allora non si affrancherà mai dalla lettura di Aristotele. Più tardi, confesserà di aver mancato solamente due volte al suo impegno giornaliero: quando si è sposato e quando è morto suo padre. Si mette all’opera con l’intento di addentrarsi il meglio possibile nei testi per afferrarne l’autentico significato, consapevole che il pensiero originario ha subito alterazioni . In effetti, passati di mani in mani, i manoscritti si sono incrostati lungo un millennio e mezzo. Sono stati tradotti dal greco al siriaco, dal siriaco all’arabo cosicché giungono in Andalusia in lingua araba, trasformati da numerosi aggiustamenti e accompagnati da varie interpretazioni. Nel III secolo un grande commento all’opera di Aristotele fu redatto in greco da Alessandro di Afrodisia (parte sud occidentale dell’attuale Turchia); nel IV secolo a Costantinopoli l’oratore Temìstio si dedicò alla parafrasi di alcune opere aristoteliche; a Bagdad nel IX secolo al-Kindi (Alchindus) tradusse i filosofi greci nella “Casa della Saggezza”; nel X secolo al-Farabi (Alfarabius) parafrasò opere di Aristotele; nel XI secolo il medico persiano ibn Sīnā (Avicenna) mischiò aristotelismo e neoplatonismo elaborando una dottrina sulla natura dell’anima. Averroè costituisce l’anello occidentale di una catena di trasmissione cresciuta a Oriente. Raccoglie l’eredità dei filosofi arabi (così chiamati perché scrivono in arabo) che lo hanno preceduto ma è influenzato in un primo tempo dal suo contemporaneo ibn Bajja (Avempace), nato a Saragozza, che affascinato dal De anima di Aristotele, ritraccia in un’opera il cammino dell’intelletto umano all’Intelletto agente (principio ultimo della conoscenza).
Del corpus aristotelico, Averroè esegue tre commenti: piccolo, medio e grande. Il Piccolo Commento o “Epitome” riassume il significato generale del corpus mentre il Commento Medio ne sintetizza le parti più importanti; il Grande Commento, invece, riprende l’insieme dei testi e li spiega in dettaglio frase dopo frase: è un’opera magistrale salutata da Dante nel Canto IV dell’Inferno al verso 144 “Averoìs, che’l gran comento feo”. il Grande Commento arabo, presto tradotto in latino, in concomitanza con la traduzione direttamente in latino dell’opera greca curata dal vescovo cattolico fiammingo Guglielmo di Moerbeke, introdurrà il pensiero di Aristotele nel mondo cristiano del Trecento. Tutti gli intellettuali dell’epoca attingeranno e si appoggeranno al Grande Commento che propone un’esegesi impareggiabile e meticolosa degli scritti densi e ostici di Aristotele. In poche parole, Averroè insegna a leggere il vasto corpus di Aristotele. Nel preambolo al commento della Fisica, non nasconde la sua ammirazione per il filosofo di Stagira che considera di natura superiore, quasi divina: “È il modello che la natura ci ha fornito per svelare la massima perfezione che l’uomo può raggiungere in questo mondo”. Tuttavia sarebbe sbagliato assimilare la sua ammirazione a una venerazione cieca e incondizionata perché il pensiero degli Antichi (Platone, Aristotele, Galeno…) non vale come insieme di regole immutabili, come dogma: è autorevole in quanto è stato messo alla prova per lungo tempo e ha resistito al crivello dei secoli. Non si tratta mai di accettarlo a occhi chiusi; rimane pur sempre un sapere perfettibile: quando appaiono punti che non collimano con i fatti della realtà, è necessario rimuoverli per conservare solo ciò che risulta fondato.
Affresco Cappella degli Spagnoli Firenze Andrea di Bonaiuto
Per Averroè, le opere di logica di Aristotele, raggruppate sotto il titolo Organon, sono uno strumento che permette di condurre un’argomentazione valida e dunque di giungere a una vera conoscenza. La sharia, regole scritte nel Corano e negli Hadith innalzate a principio di legislazione, sancisce l’obbligo d’impegnarsi a conoscere e quindi si accorda con la falsafa che è anch’essa ricerca della verità. Come opera prima, Averroè scrive una difesa della filosofia aristotelica in risposta all’attacco sferrato contro i filosofi, nel XI secolo, dal teologo persiano asharito al-Ghazālī (Algazel) nel suo libro Tahāfut al-falāsifa (Incoerenza dei filosofi). Il termine “tāhafut” indica il fatto di crollare sotto il peso delle proprie incoerenze. A proposito, notiamo l’atteggiamento paradossale di al-Ghazali che usa la logica aristotelica per redigere la sua denuncia del pensiero aristotelico. Dunque, quasi un secolo dopo, il filosofo cordovese controbatte con Tahāfut al-tahāfut (Incoerenza dell’incoerenza) in cui sostiene che la filosofia non è in contrasto con l’Islam; che l’ibridazione fra profano e sacro è fruttuosa. In seguito, nel suo Trattato decisivo (Fasl al-maqāl ) espone il rapporto che intrattengono Rivelazione (Parola sacra) e Filosofia (Parola degli Antichi): “O la Legge non dice nulla al riguardo oppure dice qualcosa. Se non dice nulla, non ci può essere nessuna contraddizione. Se dice qualcosa, allora l’espressione esterna o concorda con ciò che è detto della speculazione dimostrativa o la contraddice. Se la contraddice, allora diviene necessaria una interpretazione. Questa ha per scopo di ricavare il significato profondo di ciò che la parola della Legge esprime in modo figurato”. Se la via della dimostrazione razionale porta a una giusta interpretazione della sharia, ne deriva che tutti i giudici devono conoscere la logica aristotelica per capire la sharia. Cogliamo l’occasione per fare luce su due termini del vocabolario giuridico musulmano travisati oggi sia dagli estremisti che dai mass media: la sharia e la fatwa. La “Sharia” non è affatto un codice stabilito una volta per tutte; è una via d’ispirazione divina. La “Fatwa” non è una sentenza arbitraria; è un parere consultivo richiesto dal giudice a un mufti, un esperto in campo giuridico, per sbrogliare un caso intricato. Questa parola dal significato nobile è stata impiegata a torto per descrivere l’ordine lanciato da Khomeini di ammazzare Salman Rushdie (1989). La fatwa non ha nessun potere decisionale.
Anche se percorrono strade diverse, fede e ragione sono entrambi dirette alla stessa Verità: “La verità (religiosa) non può mettersi in conflitto con la verità (filosofica), ma al contrario è in accordo con essa e le rende testimonianza” scrive Averroè nel Trattato decisivo. Appare chiaro che egli non sia l’assertore della “doppia verità” come sarà definito dai suoi detrattori durante il XIII secolo cioè non è un ipocrita, un falso dalla lingua biforcuta che basa tutto sul discorso razionale (Verità della ragione) e fa finta di credere nella Rivelazione (Verità della religione). È un uomo di logica e di fede convinto che la verità sia una sola, raggiungibile in due modi distinti. Dove la Rivelazione si esprime in maniera poetica e metaforica, la Ragione usa il linguaggio speculativo. Per illustrare il suo pensiero, basti raffigurarsi una montagna: possiamo arrivare in cima (trovare la verità) imboccando sentieri differenti. La via filosofica è la via regale, destinata a una cerchia ristretta composta di intellettuali che si immergono in studi complicati mentre la via religiosa può essere percorsa da tutti in quanto non esige una formazione particolare. Fra gli uomini c’è disparità: anche se tutti hanno in comune la possibilità di ragionare, non hanno le stesse facoltà intellettive. I saggi, in quanto élite capace di cogliere significati nascosti attraverso sillogismi razionali, hanno il dovere, anzi l’obbligo, di accrescere il proprio sapere per capire l’universo e di conseguenza conoscere Dio, il suo artefice. L’obbligatorietà di conoscere è un precetto coranico e Averroè scrive: “Dato che la Legge (Corano) prescrive lo studio degli esseri (del Cielo e della Terra) con l’intelligenza e di riflettere su di essi ed essendo la riflessione nient’altro che ricavare l’ignoto dal noto, e in ciò consiste il ragionamento, ne consegue che ci viene imposto dalla Legge di effettuare lo studio degli esseri mediante il ragionamento”. Gli uomini comuni, di capacità mentale più ridotta, captano nel linguaggio immaginoso del Corano la verità che orienta la loro esistenza e ciò li soddisfa perché il Corano è una parola perfetta e fornisce loro le risposte di cui hanno bisogno per vivere. È imperativo che non entrino in contatto con la parola dei filosofici. Nel Trattato decisivo Averroè spiega perché le tesi dei sapienti non devono giungere ai più. Risulterebbero dannosi per quelli che non sono in grado di seguire ragionamenti difficili: perderebbero i loro consueti punti di riferimento senza potersi agganciare alle nuove interpretazioni. Invece, per i filosofi che sanno interagire in ambito razionale, le controverse sono una benedizione perché le differenze interpretative fra sapienti innescano dibattiti e aprono la via al pluralismo. Fra i saggi e il popolo s’inserisce purtroppo un gruppo di uomini pericolosi che nuocciono all’islam: i teologi. Per disonestà e ignoranza, fanno uso di sillogismi retorici che non ripongono su premesse solide. Ragionano in modo sbagliato su basi deboli e divulgano le loro pseudo-interpretazioni seminando confusione tra i credenti. In realtà, distruggono il perfetto equilibrio del Corano e manipolano il popolo con discorsi incantatori, modellando la parola divina per interessi personali. Averroè si adopera a convincere il califfo della nocività dei teologi e gli suggerisce misure adeguate: marcarli stretto per contenerli e far sì che non possano diffondere i frutti della loro dialettica sbilenca.
Trionfo di San Tommaso d'Aquino Benozzo Gozzoli Averroè schiacciato ai piedi del santo
Già tradotto in latino nel 1225, nemmeno 30 anni dopo la sua morte, il Grande Commento offre una guida capitale alla comprensione di Aristotele. Tuttavia, Averroè non è solo un traghettatore che cerca di ripulire il pensiero aristotelico da scorie accumulate nel corso di quattordici secoli di trasmissione. Elabora un proprio pensiero spaccando i monoliti della tradizione per innovare, per creare dei concetti. Partendo da punti poco espliciti o lasciati in sospeso da Aristotele, sviluppa un’interpretazione che scuote le menti e innerva la Scolastica, ossia la filosofia cristiana del Medioevo. Nel 1250 Tommaso d’Aquino attacca Averroè per alcune tesi che giudica deliranti. Nel 1277 il vescovo di Parigi, Etienne Tempier, censura i suoi scritti. Perché l’apprezzato Commentatore diventa per molti il “Depravatore”? La risposta è da cercare principalmente nella sua esegesi al De anima: la sua interpretazione viene giudicata folle e scandalosa. Fa sorgere dibattiti violenti nelle università trecentesche e sarà avversa per secoli. Averroè presenta una teoria dell’intelletto che nega il concetto d’intelligenza individuale e l’immortalità dell’anima. Così facendo, tira un cocente schiaffo di natura antropologica: la potenza intellettuale non è parte dell’individuo e l’anima muore insieme al corpo.
Al fine di capire come giunge a questa conclusione, ricordiamo i concetti aristotelici di ilemorfismo, di tabula rasa e di intelletto separato.
Per il filosofo greco, ogni singolo individuo, ogni singola cosa è una sostanza che risulta dall’unione inscindibile (sinolo) di materia (yle-ύλη) e di forma (morfé-μορφή): si parla di ilemorfismo. La materia è sempre organizzata secondo una certa forma. Per tutti gli esseri viventi (pianta, animale, uomo), l’anima è forma e il corpo è materia. Però solo l’anima dell’uomo svolge una funzione razionale e dunque la funzione intellettiva è propria dell’uomo.
Quando nasciamo, la nostra anima è ignara: si presenta come una “tabula rasa” ossia una lavagna vergine. In partenza la tavoletta cerata è priva di segni: la scrittura è tutta in potenza e si attuerà in funzione degli stimoli giunti dal mondo esterno. Aristotele rifiuta la teoria innatista del suo maestro Platone per il quale l’anima, proveniente dal mondo iperuranio delle idee (dei concetti), perde la memoria quando s’incarna e di conseguenza conosce solo per reminiscenza. Secondo lui, la conoscenza poggia sull’esperienza sensoriale. Apprendiamo attraverso i nostri organi di senso quali siano le caratteristiche comuni e immutabili delle cose che ci circondano (le forme – i concetti).
Lo Stagirita esprime la sua concezione di intelletto separato al capitolo V del Libro III De anima:
“Alla materia ed alla causa efficiente nell’universa natura, rispondono, nell’anima, l’intelletto che ha la potenzialità di essere tutti gli oggetti e l’intelletto che tutti li produce. L’uno è pura potenza; l’altro è essenzialmente atto, e impassibile, e senza mescolanza: separato dal corpo, esso solo è immortale ed eterno.” Aristotele tenta così di spiegare come avviene il nostro pensiero: scaturisce dalla sinergia tra due intelletti, l’intelletto agente (poietico o fabbricatore) e l’intelletto materiale (potenziale ossia capace di ricevere le forme). L’intelletto agente che produce le forme (concetti) sta al di fuori di noi. L’intelletto materiale in quanto parte dell’anima legata al nostro corpo, è dentro di noi. È un sostrato che riceve le forme e può diventare tutte le cose: è un intelletto in potenza.
Però, al capitolo IV del Libro II Della generazione degli animali, la definizione aristotelica dell’intelletto vacilla:
“Resta dunque che solo l’intelligenza giunge dall’esterno e solo essa è divina, perché l’attività corporea non ha nulla in comune con la sua attività.”
Averroè in una miniatura del XIV secolo
L’ambiguità di Aristotele autorizza l’esegete a collocare l’intelletto materiale al di fuori del corpo. Ecco la pista scelta da Averroè: un intelletto unico, staccato dai corpi, immortale. Come sarebbe a dire? L’intelligenza personale svanisce a favore del monopsichismo cioè di un’intelligenza universale. Che diavoleria! Che insensatezza! Come osa spossessarci della nostra ragione, della facoltà che ci distingue dagli animali e che fonda la nostra superiorità! Riduce l’uomo a un essere incapace di pensare, quindi irresponsabile, a un burattino manipolato da potenze demoniache. Separando l’uomo dalla sua intelligenza, rende irricevibile l’affermazione di Tommaso d’Aquino “Hic homo intellegit” cioè “Quest’uomo pensa”. In realtà, sono tutte illazioni avanzate dai suoi avversatori.
Teniamo presente la funzione di giudice esercitata dal filosofo cordovese: non ha dubbio sul fatto che pensiamo, che siamo responsabili delle nostre azioni. Quando ipotizza un’intelligenza unica e anonima sopra di noi, non intende una potenza dominatrice sovrastante che impedisce lo sviluppo d’un pensiero individuale o che impone un pensiero uguale per tutti; intende ben altro.
Donde vengono e come si formano i nostri pensieri? Nemmeno oggi lo sappiamo con esattezza.
Averroè elabora una disturbante teoria sul pensiero che mi affascina…e mi fa pensare.
Condivide l’affermazione di Aristotele: “È impossibile pensare senza fantasmi (τò φάντασμα)”. Intende per “fantasmi” o “immagini” le tracce che lasciano nel nostro corpo le cose di cui abbiamo fatto l’esperienza fisica attraverso i sensi. Nel corso della nostra vita accumuliamo immagini mentali che persistono dopo le nostre esperienze sensibili. La fantasia o immaginazione è la facoltà che ci permette di incamerare le nostre sensazioni, di sceglierle, di scomporle e di ricomporle a modo nostro. Questa potenza immaginativa costruisce un ponte tra le nostre sensazioni e l’intelletto unico che è potenza superiore trascendente. Non possediamo un’intelligenza personale ma grazie alla nostra immaginazione entriamo in relazione con l’intelletto estrinseco comune a tutti gli uomini e siamo in grado di pensare. L’attività immaginativa è fondamentale per arrivare al concetto cioè per poter astrarre, conoscere l’essenza delle cose. L’immaginazione è intermedia tra sensazione e pensiero; è lo spazio d’incrocio tra il singolare, ossia i nostri fantasmi, e l’universale cioè la verità che vale per tutti. Le immagini sono il sostrato su cui l’intelletto esercita la sua azione. I nostri pensieri sono diversi perché ognuno di noi offre un sostrato personale; ognuno cammina verso l’intelletto in rapporto a ciò che è il suo corpo, l’esperienza che ha vissuto e allo sforzo volontario che compie per selezionare e disporre le sue immagini. In fondo, pensare significa unirsi per mezzo di un’attività immaginativa individuale alla razionalità, facoltà specifica dell’umanità e perciò comune a tutti gli esseri umani (intelletto unico sarebbe allora da capire come potenza razionale a disposizione dell’intera comunità umana). Pensare vuol dire servirsi del proprio bagaglio d’immagini per agganciare la verità dei concetti. Bisogna pensare per attuare la potenzialità che abbiamo di diventare intelligenti, bisogna pensare per compiere lo sviluppo della nostra umanità.
Referendosi all’intelletto, Aristotele diceva “non ha organo”. Localizzava la sede organica della sensibilità nel cuore e attribuiva al cervello il compito di raffreddare il corpo. Lo Stagirita non era medico; Galeno invece sì: nel III secolo, osservando le circonvoluzioni cerebrali, supponeva che la razionalità umana si annidasse nel cervello. Averroè, attento lettore di Galeno, rivaluta l’importanza del cervello e adatta le conclusioni di Galeno alla sua dottrina sull’intelletto. Stabilisce che il cervello ospita, in zone distinte in comunicazione fra loro, le tre facoltà infra-razionali dell’immaginazione: la parte anteriore serve ad incamerare le sensazioni, la parte posteriore a memorizzarle e la parte centrale è sede dell’attività immaginativa stessa.
Dante Alighieri a Firenze
Comunque non pensiamo da soli, ripiegati su noi stessi. Averroè non concepisce un pensiero isolato dal pensiero degli altri. Evidenzia un nesso fondamentale tra la potenza comune indifferenziata della specie umana e i fantasmi variegati degli uomini. L’attualizzazione della potenza intellettiva dell’umanità richiede l’interconnessione delle attività immaginative individuali. Nella loro incompiutezza, con i loro limiti, i fantasmi dei singoli devono incrociarsi e comunicare fra loro perché avvenga l’attivazione della potenza comune di pensiero. Tutti gli uomini devono associare e confrontare i loro fantasmi in modo che l’intelligenza comune non rimanga inattiva perché ad attualizzare il sapere non è mai un uomo staccato dagli altri. L’attuazione del sapere è opera corale: la mia persona acquista la sua dimensione intellettuale in mezzo agli altri e insieme a loro. Nella Historia animalium (Storia degli animali) al capitolo 20 del Libro I, Aristotele inserisce l’uomo fra gli animali che vivono in società. La caratteristica dell’animale sociale è di impegnarsi in un’impresa comune e unica per tutti. La singolare teoria di Averroè suggerisce che l’impegno sociale maggiore per l’uomo sia l’attualizzazione collettiva della potenza dell’intelletto unico.
All’inizio del XIV secolo, redatto in latino, il De Monarchia di Dante fa eco alla dimensione politica che Averroè attribuisce al pensiero umano. Secondo Dante, l’intelletto materiale caratteristico della nostra specie può attualizzarsi solo per merito della moltitudine (multitudo) intrinsecamente politica.
III/ ALI DELLA METAFORA: “il pensiero ha le ali”
“Il pensiero ha le ali e nessuno può arrestare il suo volo”. Non posso sottrarmi alla potenza evocativa della metafora. La doppia affermazione di Chahine mi invoglia a riflettere.
“il pensiero ha le ali”: condivido l’immagine del pensiero in quanto uccello che s’innalza, libero di scegliere la meta del suo viaggio, di cambiare direzione quando lo decide, di vagare per il mondo se ne ha voglia. Una prospettiva ariosa dove il cervello non prende la forma di un’immensa voliera ma di un vasto nido in cui nascono, crescono e da dove le idee spiccano il volo. È vero, la forza creativa della mia mente trascende il mio ancoraggio fisico. Sono un essere di carne ed ossa inchiodato al suolo ma il mio pensiero mi svincola da questo involucro corporale per farmi accedere a una dimensione spirituale che supera la mia angusta esistenza materiale.
“… e nessuno può arrestare il suo volo”: nessuno, al di fuori di chi l’ha fatto nascere, è in grado di percepire il pensiero e dunque di ostacolarlo o di fermarlo. Difatti, il pensiero è frutto dell’attività silenziosa di una singola mente; s’innalza in segreto. Ha tutta libertà di movimento. Solo quando è esposto oralmente o per iscritto, si rende visibile agli altri. Smette allora di essere cosa privata inafferrabile per diventare di dominio pubblico. In questo modo, vola allo scoperto e corre il rischio di essere attaccato o condannato. D’altronde, una riflessione, se non è divulgata, è destinata a morire e sparisce senza lasciare tracce. Certo, i pensieri possono trasmettersi per via orale ma sono imperituri nelle opere scritte. Con il rogo dei libri di Averroè, gli integralisti musulmani volevano impedire che il suo insegnamento fosse consegnato alla Storia. Se i detrattori del filosofo hanno fallito nell’impresa di annientare il suo pensiero, lo dobbiamo incontestabilmente alla scrittura cioè alle numerose copie della sua opera eseguite dai suoi discepoli, alle traduzioni fatte in ebraico e in latino. Grazie alla scrittura, le idee di Averroè sono sopravvissute e sono diventate fermenti del pensiero moderno occidentale.
Le prime due pagine di un manoscritto contenente il testo di Hayy ibn Yaqzan
Pare che ibn Tufayl abbia scritto molto sull’astronomia, sull’anima, sulla metafisica, sulla teologia ma i suoi manoscritti sono spariti trascinandosi dietro la testimonianza del suo pensiero. Averroè lo ricorda due o tre volte nei suoi testi ma per i maestri della Scolastica, ibn Tufayl è un’indicazione vuota di significato. Abubacer è erroneamente ritenuto il suo nome latinizzato allorché si tratta in realtà di un’altra maniera di designare Avempace. Di tutta la sua produzione rimangono soltanto due poemi (uno guerresco e uno incompleto di medicina) e un piccolo trattato sotto forma di lettera intitolato Hayy ibn Yaqzân (il Vivente, figlio dello Sveglio). Questo piccolo trattato compare nell’Occidente del XVII secolo sotto il titolo Il filosofo autodidatta (Philosophus autodidactus) in una traduzione dall’arabo al latino fatta nel 1671 dal primo docente di arabo all’università di Oxford Edward Pococke che aveva scoperto il manoscritto in Siria durante un suo viaggio. È subito apprezzato e le traduzioni si susseguono: prima in inglese, poi in olandese nel 1701 ad opera del collega di Spinosa, Johan Bouwmeester, poi in tedesco nel 1726 a cura di J. Georg Pritius… È probabilmente in questo racconto arabo che Daniel Defoe trova l’inspirazione per il suo Robinson Crusoe pubblicato nel 1719. Il mio discorso potrà apparire aneddotico ma l’episodio che ho rilevato rinforza la mia convinzione che nessun pensiero sopravvive senza la scrittura. Se Hayy ibn Yaqzân fosse sparito dalla circolazione come gli altri scritti di ibn Tufayl, se non fosse stato riesumato e tradotto in varie lingue, le riflessioni filosofiche del consigliere erudito e medico del califfo almohade, sarebbero sprofondate per sempre nell’oblio.
Socrate considerava la parola orale fondamentale perché la sua arte di fare partorire le idee necessitava uno scambio esclusivamente verbale. Non scriveva niente giacché la sua maieutica richiedeva un dialogo aperto fatto di domande e di risposte. Invece di offrire una verità preconfezionata a chi l’ascoltava, lo portava ad interrogarsi sulle proprie certezze con il vaglio critico della ragione. Per Socrate, la scrittura rappresentava una chiusura in quanto fissava le parole di una singola persona in un libro. Benché Platone seguisse il suo maestro nella condanna della scrittura (lo esprime nel Fedro: Mito di Teuth), compose paradossalmente un’imponente opera filosofica. Certo lo fece sotto forma di 36 Dialoghi per rendere in qualche modo l’oralità e restare fedele allo spirito socratico, ma comunque scrisse! A dispetto della sua diffidenza per la scrittura, era cosciente del potere ineguagliabile che possiedono le lettere dell’alfabeto nel conservare i messaggi. Se non avesse scritto, chi parlerebbe oggi del pensiero di Socrate e di Platone ? L’oralità è fragile e mortale; a conferire l’immortalità al pensiero, è la scrittura.
IV/ ALI DEI MIEI PENSIERI: studiare per capire
Innumerevoli pensieri hanno affollato la mia mente durante il brutto periodo d’inizio pandemia. Molti hanno spiccato il loro volo senza lasciare la minima traccia scritta. Di alcuni ho conservato il ricordo su un foglio di carta. Ne ho selezionato tre relativi allo studio e alla scrittura.
Nato dal lockdown (Marzo 2020)
Scrivere in tempo di coronavirus
Lo studio è cura. La scrittura è balsamo. Studiare per concentrarsi su cose che alleggeriscono la mente dal peso della realtà. Scrivere per dominare le angosce. Scrivere per rendere tangibile il nostro pensiero quando s’innalza e libra sopra le cupe nuvole alla ricerca di una luce rinfrancante. La scrittura: uno scudo leggero ma efficace fatto di carta bianca ricoperta di piccoli segni neri; un salvagente della speranza buttato nel flusso di un universo indifferente che ci nega, ci annega e ci soverchia.
In queste ore di “clausura” involontaria, tagliati fuori dai divertimenti di massa, spegnere un momento radio, televisione e mettere da parte lo smartphone per riflettere di più, leggere meglio una pagina dei Saggi di Montaigne o tre Pensieri di Pascal e fare scivolare sul foglio l’inchiostro della nostra mente.
Durante l’ascolto di una “lezione a distanza” registrata dal prof Nibbi* (Maggio 2020)
I non detti di Giuseppe*
“Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare” ci dice Calvino attraverso Palomar, il protagonista eponimo del suo libro. Così non posso impedirmi d’interpretare l’inusitata introduzione della ventunesima lezione di maggio 2020, l’ultima lezione registrata prima della pausa estiva. Nell’inflessione del prof* ho sentito amarezza; fra le parole trapelava qualcosa di taciuto. Pura fantasia mia? Forse. Eppure, non era solo un’arringa contro le istituzioni e i politici che occultano il diritto, che ogni cittadino ha, di usufruire di un’alfabetizzazione permanente. Mi sembrava che ci fosse dell’altro: mi pareva che il prof* ci stesse interpellando, che ci ponesse una domanda indiretta, “mascherata”(il termine è di stagione).
È come se fra le righe, dicesse: “Per l’ennesima volta, sostengo che lo studio è cura ma voi, gente della Scuola, che da anni assistete alle mie lezioni, l’avete inteso o nella vostra testa suona come un ritornello di cui non avete capito la portata? Lo studio è cura. Non basta scuotere il capo dall’alto in basso, in segno di approvazione. Bisogna muovere la vostra penna e attivare la vostra tastiera. Svegliatevi! Come non mai, è giunta l’ora di usare la terapia della scrittura. Per esempio, fare una ricerca sulle Accademie del Seicento, è cura. Stendere nero su bianco le vostre angosce e preoccupazioni per il periodo buio e critico che stiamo attraversando, è cura. I messaggi di ringraziamento mi fanno certo piacere, ma più che altro vorrei ricevere degli scritti vostri, vedere gonfiarsi il raccoglitore della Biblioteca itinerante. Solo così date una risposta positiva ai miei quarant’anni d’insegnamento; mi dimostrate che i miei sforzi hanno creato delle teste ben fatte.
Lo studio è cura. Allora la quarantena sarà un’opportunità e non un castigo; la crisi indotta dal Coronavirus sarà l’occasione di fare crescere ancora di più la vostra mente. Vorrei ricevere un contributo in parole scritte per l’impegno che ha condizionato la mia vita. Se avete inteso lo scopo dell’insegnamento che ricevete, è il momento di darmene la prova…”
Bah! Forse nel discorso preliminare alla sua lezione non si nasconde niente di tutto ciò. Nelle parole che ha pronunciato, non c’è nessun messaggio subliminale; non c’è niente di più che un’aspra critica sul piano politico e istituzionale. La voce diafana che ho percepito in sottofondo non è la sua; proviene dalle divagazioni del mio spirito vagabondo. Ho travisato. D’altronde, ogni interpretazione di discorsi altrui genera errori e approssimazioni. Dovrò concludere come il maestro messicano del capitolo “Serpenti e teschi” di Palomar: “No se sabe qué quiere decir”. Non saprò mai con chiarezza cosa ha voluto dirci il prof*.
A proposito di “Cultura”
Colti non si diventa recandosi allo spettacolo o al museo.
Colti lo diventiamo quando il sudore del nostro studio ci rende capaci, davanti a uno spettacolo o a un’opera d’arte, di farci delle domande e di trovare da soli le risposte.
Essere colti, non è “Ci sono stato-Ho visto-Ho letto”. Essere colti è aver coltivato e non smettere di coltivare la facoltà di “intellegere”, studiando.