Sorprendente paguro

La mia caletta Port- jaune

“Port-jaune”, cala preziosa della mia infanzia! Impossibile dimenticarla. In Bretagna, nella baia di Douarnenez, a pochi passi della casa di mia nonna. Affiancata da una parte al molo del Birou che protegge il porticciolo di Tréboul e chiude il suo percorso con un faro bianco dal cappuccio verde.

Quando ero bambina, dal sentiero costiere che scorreva più in alto, la spiaggia non si faceva notare al villeggiante distratto. Era quasi celata in un nido vegetale di alberi e arbusti. Durante le vacanze estive, la nonna non mi portava in questo luogo speciale senza aver prima consultato il calendario delle maree. Nei periodi di alta marea, la spiaggia spariva. All’esclusione di qualche roccia, tutto era ricoperto di un manto liquido e salato.

Ci andavamo soltanto di mattina perché di pomeriggio, questo fazzoletto di sabbia era troppo affollato. Costeggiavamo, in discesa, il cimitero di Tréboul che non incuteva tristezza: le sue tombe di granito lucido erano sempre corredate di mazzi vivaci di fiori recisi e di macchie colorate che sbucavano da vasi di terracotta. Poi, la discesa proseguiva, ripida, lungo gli stretti gradini di pietra di una scala zigzagante, nascosta nel verde. La nonna mi afferrava per la mano e non mancava mai di raccomandarmi la prudenza: “Attenta! Questi gradini sono traditori; si va giù come niente!”. Era eccitante, sembrava un passaggio segreto.

Infine appariva la mia spiaggetta. Era scarsa di sabbia ma ricca di scogli imparruccati di lunghe alghe brune seghettate. Dopo aver nuotato nell’acqua piuttosto fredda dell’oceano, sotto l’occhio vigile della nonna, correvo ad asciugarmi e mi lanciavo in un’operazione avvincente: ispezionare i “poullig”, parola bretone che indica dei piccoli stagni formatosi negli anfratti quando il mare si ritira. Disseminati sulla superficie rocciosa, i poullig intrappolavano un mondo marino in miniatura.

Con cautela, mi avventuravo a piedi nudi sugli scogli che la presenza delle coniche patelle, dei grappoli di cozze, delle colonie di balani rendeva pungenti. Dovevo anche stare attenta a non scivolare sulle alghe umide. Armata di un rettino, perlustravo il grande poullig, quello più esteso e più profondo della spiaggia. Lì, le prese erano certo più grosse ma il posto era agognato e la concorrenza con altri bambini m’infastidiva. Di solito, mi concentravo sui poullig più piccoli che assicuravano una pesca tranquilla e solitaria. Il rettino diventava allora inutile. Sceglievo la preda; le mie mani l’inseguivano, l’accerchiavano piano piano, poi si univano a mo’ di conca per catturarla. La minuscola vittima finiva nel secchiello. Tornava a casa un tesoro: pesci grossi come spicchi d’aglio, gamberetti come semi di girasole, granchi della taglia di un’unghia. Seguivo divertita le mosse degli abitanti del secchiello, arrabbiandomi sempre quando i granchi buongustai banchettavano a spese dei gamberetti; nel tardo pomeriggio, andavo a ributtare i superstiti nella baia.

Fra tutti gli animaletti catturati, la mia preferenza andava al Pagurus Bernhardus, il “Bernardo L’eremita” per gli intimi.

Traeva in inganno, nascosto com’era, sotto il guscio di una chiocciola di mare. Sugli scogli, solo lo spostamento anomalo di una conchiglia destava sospetto e indicava la sua presenza.

Una volta appoggiato sul palmo della mano, si raggomitolava così bene all’interno del suo abitacolo che scompariva del tutto. Poi, facendosi coraggio, mandava le chele in avanscoperta. Quando, in cima a due peduncoli, sbandierava i suoi occhietti neri e curiosi, era segno che aveva ripreso fiducia. Allora iniziava la sua scorribanda sulla mia pelle.

 

Che crostaceo sorprendente! Con lui, la Natura non è stata prodiga: gli ha regalato la metà di una corazza. Non si sa per quale motivo, l’evoluzione ha lasciato il suo caso in sospeso, indecisa tra granchio e mollusco. Così da capo a torace, il paguro è bardato come un cavaliere medievale mentre il suo addome e la sua coda sono nudi e indifesi come un neonato. D’istinto, per ovviare al suo handicap, elabora uno stratagemma: alloggia nel guscio di un gasteropode. Nessuna violenza! Quando se ne impossessa, la casetta è sfitta, abbandonata sui fondali dal proprietario che è passato a miglior vita. Comunque non si accontenta del primo appartamento che visita. Bernardo è assai esigente. Con le sue chele, valuta attentamente lo spazio, la solidità dei muri, il peso. L’affare non va presa alla leggera; ne va del suo confort e della sua sicurezza. Se la conchiglia è troppo grande, le sue zampe posteriori non riescono ad agganciarla bene e rischia di scivolare dal guscio. Se invece è troppo angusta, impedisce i suoi movimenti interni. Poi, visto che se la porta sempre dietro, il peso non è un parametro trascurabile. Insomma le cose vanno fatte con criterio. In ogni modo, quando ha individuato la casa giusta, non è un problema traslocare: si trasferisce dalla vecchia abitazione alla nuova, in un batter d’occhio. È un tipino deciso.

 

                                                            Joëlle

                                               

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