Ti va un dolce?
A seconda dell’organo dei sensi che lo riceve, l’aggettivo “dolce” presenta una sua sfaccettatura, riveste un significato particolare. Quando va a braccetto con il nostro tatto, illustra una carezza, lo sfiorare della pelle. Quando passeggia con il nostro udito, qualifica un adagio, un tenero canto, un morbido parlare. Quando accompagna la vista, può definire il nostro incontro con uno sguardo amoroso, un viso candido. Per il nostro olfatto indica un odore delicato e gradito; per il nostro gusto un sapore zuccherato. Invece, quando è preceduto d’un articolo e si trasforma in nome, il suo significato è univoco. Diventa “il dolce”, sommo protagonista dell’arte pasticciere.
Oggi, il dolce non è più l’oggetto per antonomasia della festa; il suo valore simbolico è scemato. Si trova dappertutto e si consuma a tutte le ore. È amatissimo da tanti, messo alla gogna da diversi. Accende, o meglio, alimenta polemiche. È la bestia nera dei nutrizionisti, il nemico numero uno delle diete. È oggetto di culto per i discepoli del saccarosio. La gente seriosa attenta alla propria salute lo esclude, lo bandisce: contiene troppo zucchero, troppo grasso, troppo tutto. La gente golosa lo mette in cima alla classifica alimentare: è l’apoteosi di ogni pranzo. Nel mondo occidentale, esageriamo con i prodotti dolciari ma consumarli di tanto in tanto non è un atto suicida, un gesto irresponsabile. Aggiunge un raggio di sole sulla nostra tavola, rallegra i nostri palati e riscalda i nostri cuori. L’importante risiede nella misura, nel trovare il giusto mezzo. Se non siamo afflitti da disturbi alimentari particolari, da patologie specifiche, è triste eliminare i dolci. Per favore, non emuliamo Epicuro che a forza di attaccarsi in modo esclusivo alle cose naturali e necessarie, si era ridotto a mangiare pane e a bere acqua. Così, quando un allievo gli portava un pezzo di formaggio, gli sembrava di bisbocciare. Va detto che soffriva di terribili calcoli renali ma insomma, c’è un limite alla costrizione!
Crema della mamma
Né mia nonna bretone, né la mamma erano pasticciere emerite; alternavano le loro proposte di dessert all’interno di una ristretta cerchia di dolci semplici. Oltre il riso al latte e il latte alla portoghese, la nonna serviva il “far breton” un flan con prugne secche, frutti che non mi piacevano e che scansavo quando ero bambina, e le sacrosante “crêpes” saltate in padella, cugine lontane delle crespelle. La triade della mamma era composta da una torta all’ananas caramellato, da un cosiddetto “gâteau de curé” ossia “dolce del curato”, il cui nome rimane tuttora un enigma, e da una specie di crema inglese tramandata da più generazioni, con le sue isolette d’albumi montati a neve appena cotti. Da questa esperienza casereccia, ho preso il passo e via via ho arricchito il bagaglio dei miei “dessert”. Il mio amore per la cucina si è rivelato nella preparazione dei dolci. Ho iniziato a cucinare rovesciando l’ordine cronologico delle portate; sono partita dalle ricette dolci per risalire a quelle salate. I dolci sono alla base della mia formazione culinaria, non li posso disconoscere.
Provo soddisfazione sia nel consumarli che nel prepararli. C’è un’enorme differenza fra il tempo utile alla realizzazione d’un dolce e il tempo impiegato a mangiarlo. A casa, una volta usciti dal forno, i manicaretti hanno le ore contate. Da una parte può essere un po’ frustrante vedere un lungo lavoro inghiottito in un baleno, ma d’altra parte, i tempi lunghi necessari in pasticceria mi salvano: se fosse così facile e immediato sfornare un dolce, saremmo già tutti diabetici in famiglia e invece di camminare, si ruzzolerebbe. Comunque provo sempre un gran piacere a vedere i miei pasticcini sparire in fretta nella bocca dei commensali. Quando sono giù di corda, preparare un dolce mi dà la carica, mi rilassa e mi svaga. Non sento ansia nel mettere in giro frusta, stampi, pirofile, casseruole e nello scompigliare la cucina. Bisogna rassegnarsi, come non si fa una frittata senza rompere uova, nemmeno si cucina senza sporcare e disordinare. Mi gratifica osservare i dolcetti prendere forma, imbiondire e gonfiare nel forno. É confortante sentire il loro profumo impossessarsi della casa e sgattaiolare perfino nelle scale. S’intende che, per me, il dolce coi fiocchi è quello nato in cucina, non quello comprato, il più delle volte troppo zuccherato e comunque impersonale. La torta che acquisto in pasticceria, molto di rado, non rappresenta niente per me; è un alimento morto. Quella che esce dal mio forno è odore di casa, è segno che mi sono attivata davanti ai fornelli, nasce dal respiro del focolare domestico. I miei dolci portano il mio marchio di fabbrica, sono le mie creature. Quando li offro o li servo in tavola, è un po' di me che regalo.
Joëlle