Raffaello ritrae il Castiglione
Origine della pittura David Allan
Ritratto individuale, oggetto in equilibrio fra esigenza del modello ed esigenza dell’artista. Da una parte, un effigiato desideroso di consegnare alla posterità un’immagine di sé gradevole; dall’altra, un artista, impegnato nel trasmettere la propria visione. Così, per raggiungere il suo obiettivo, il pittore non lascia niente al caso: indica al modello la posa da adottare, si preoccupa della luce, privilegia un dettaglio, sceglie di inserire tale o tal elemento nel suo quadro.
Plinio il Vecchio fa risalire l’origine stessa della pittura all’invenzione del ritratto. Nel Libro XXXV della Naturalis historia, si legge che la figlia di un vasaio di Corinto disegnò il profilo del suo amante su un muro, ripassando semplicemente il contorno dell’ombra proiettata da una lucerna accesa. Sul disegno, il padre modellò in terracotta i rilievi del viso. La ragazza voleva conservare un ricordo tangibile dell’amato in procinto di allontanarsi per un lungo viaggio.
Narciso Caravaggio
Nel 1435, Leon Battista Alberti, in De pictura, fa coincidere il mito d’origine della pittura con il racconto di Narciso. Il precursore dell’arte pittorica è il bellissimo cacciatore che s’innamora del proprio volto riflesso in uno specchio d’acqua. Secondo Alberti, la pittura permette di “abbracciare con arte quella ivi superficie del fonte” trasformando una fugace apparizione in un’opera duratura. Tutto sommato, per Plinio il Vecchio e per Alberti, la prima pittura è frutto di una storia d’amore e si manifesta con un ritratto.
Nel Quattrocento sboccia il genere del ritratto. Signori e ricchi borghesi del Rinascimento non si accontentano più di una loro minuta raffigurazione in mezzo a una folla di personaggi. Finora, la tavola o l’affresco a tema religioso permettevano loro di apparire con tratti riconoscibili, sotto le vesti di un mago, di un santo … Ormai non basta più. Pretendono una rappresentazione autonoma, svincolata dal contesto sacro. Vogliono spiccare sulla scena e non affogare fra la moltitudine. Il ritratto, esaltazione dell’individuo, riflette la filosofia dell’epoca.
Duchi di Urbino
Piero della Francesca
Spostiamoci a Urbino, nella seconda metà del Quattrocento, uno dei centri culturali più raffinati del Rinascimento. Piero della Francesca ha l’incarico di dipingere il duca Federico di Montefeltro e sua moglie Battista Sforza. Diventerà il doppio ritratto più celebre del Quattrocento. Rappresenta i Signori di Urbino in modo aulico. Appaiono a mezzo busto, di profilo, davanti a un paesaggio disteso in lontananza. Sul retro delle tavole sono svelati i loro rispettivi trionfi allegorici. È un nitido riferimento alla medaglia romana: sul recto, la testa dell’imperatore nel piano sagittale e sul verso, un “commento” allegorico ossia un ritratto morale. Piero della Francesca, attento a registrare i particolari del viso, presenta i profili affrontati del duca e di sua moglie sul dritto mentre nella parte retrostante del dittico, raffigura i coniugi seduti su due carri antichi in compagnia delle Virtù: Virtù teologali per Battista, Virtù cardinali per Federico. Certo, la scelta di rappresentare il duca di profilo non è puro omaggio all’arte antica, è anche un espediente. La posizione assunta dal modello permette al pittore di eliminare la parte del viso vittima di una profonda menomazione fisica: il Montefeltro ha perso l’occhio destro durante un torneo. Piero esegue l’opera a tempera, sostanza opaca e coprente che non concede ritocchi e non permette di tradurre la profondità atmosferica. Non usa la tecnica innovativa, giunta da poco in Italia e proveniente dall’ Europa settentrionale, che porta l’arte del ritratto ad altissimi livelli: il colore a olio.
Retro dei ritratti Duchi di Urbino
La consistenza morbida della pittura a olio consente dettagli di grande finezza; la sua trasparenza restituisce gli effetti della luce e rende la sensualità della materia. I visi prendono vita, si animano. Guidato da artisti geniali, il pennello carico del nuovo medium crea affascinanti ritratti. Come rimanere indifferenti ai volti dipinti da Antonello da Messina, da Leonardo, da Raffaello? Gli effigiati sembrano voler comunicare con noi o lanciare un messaggio oltre la tela; ci invitano a pensare, a interrogarci. Perché certi personaggi catturano il nostro sguardo e altri no? Il nostro interesse è indotto dalla bravura del pittore ma non solo; siamo ovviamente condizionati dai nostri gusti, dalla nostra storia individuale e in larga misura dalle informazioni che abbiamo integrato prima di “incontrare” il dipinto al museo.
Giunti nel Cinquecento, scopriamo un umanista sotto il pennello di Raffaello: Baldassare Castiglione. Il ritratto è di modeste dimensioni (82 x 67 cm). È stato realizzato a Roma durante l’inverno del 1514-1515, qualche anno prima della morte prematura del pittore.
Magnetico! L’uomo mi fissa e non posso sottrarmi all’azzurro intenso del suo sguardo. Freddo e inquietante? No, tutto l’opposto: rassicurante e benevolo! Esprime intelligenza e pacatezza, ispira fiducia. Nessuna tracotanza, forse un leggerissimo velo di malinconia su degli occhi che sorridono. Il personaggio non è raffigurato a mezzo busto come nel dipinto di Piero della Francesca. La scelta di presentare l’effigiato a busto intero consente al pittore di ampliare la descrizione dell’abbigliamento e di introdurre le mani, elemento di notevole espressività. Le differenze con il ritratto del Duca di Montefeltro non si fermano qui, sono molteplici. Il profilo aulico ha ceduto il posto a una posizione di tre quarti: il personaggio non esclude più l’osservatore dal suo mondo ma lo coinvolge, compiendo un movimento di apertura. Il rigore geometrico delle forme si è convertito in organizzazione armoniosa di linee curve. Il paesaggio lontano e rarefatto si è metamorfosato in uno sfondo monocromo, vicino. L’uomo è seduto: a destra, l’ampia manica a sbuffo appoggia su un bracciolo. Una folta barba e uno strano cappello incorniciano il suo viso. Dall’alto a sinistra si diffonde una luce dolce che rischiara lo sfondo e accentua il senso d’intimità. Vorrei potere conversare con lui; ha sicuramente tante cose da raccontarmi ma … gli manca solo la parola! Il suo modo di vestire non lascia dubbio: non si tratta di un contadino o di un artigiano. L’effigiato è da collocare più in alto nella scala sociale: un ricco borghese o un aristocratico. Difatti, Raffaello ci presenta un conte, il letterato Baldassare Castiglione. Un’indagine sul percorso formativo del pittore e sulla vita dell’elegante committente permette di approfondire la lettura del quadro.
Prima di essere chiamato a Roma nel 1508 per decorare le stanze dell’appartamento privato di Papa Giulio II, Raffaello trascorre quattro anni a Firenze, dove realizza, oltre a dolcissime e premurose madonne, qualche ritratto individuale. Si è recato nella città gigliata, mosso dal desiderio di entrare in contatto diretto con alcune novità che si stanno affermando lì. Si vuole confrontare con i massimi artisti del momento. Con vivace acuità percepisce le innovazioni stilistiche dei suoi grandi contemporanei, le assimila, le rielabora e crea un linguaggio personale. Trova una maniera originale di dipingere. Nel 1507, in casa di Agnolo Doni, ricchissimo mercante fiorentino iscritto all’Arte della lana e raffinato collezionista d’arte, vede il Tondo Doni. Ne rimane folgorato. Lo colpiscono le ardite torsioni e l’energia delle figure. Questa Sacra Famiglia di Michelangelo è un unicum, un’opera sconvolgente, un’innovazione sia nella forma, sia nel contenuto. Raffaello ne prende spunto quando realizza nel 1507 la Deposizione Borghese commissionatagli dalla nobildonna Atalanta Baglioni in memoria del figlio Grifonetto assassinato. Un anno prima, quando i coniugi Doni gli hanno commissionato i loro ritratti, emula Leonardo. Nell’arte di ritrarre, Michelangelo non può essere d’aiuto; per lui contano la possente anatomia maschile e il volto ideale del modello classico; non si sofferma sulle sottili variazioni che rendono ogni viso irrepetibile. Invece Leonardo opera una rivoluzione. Non vuole solamente trasmettere i “moti dell’anima” alla maniera stretta degli antichi cioè riassumendo il carattere di un personaggio attraverso un unico aggettivo come “impavido” o “severo” o “caritatevole” … Vuole fissare in pittura la sfuggevole espressione del viso e il gesto che rivelano gli stati d’animo dell’effigiato.
Maddalena Sforza Raffaello
Raffaello ha già visto La Gioconda. Salta agli occhi! Quando dipinge Maddalena, la rotondetta moglie di Agnolo, la posa della giovane donna ricalca quella di Monna Lisa. Tuttavia, il suo viso non cela nessun mistero, non ci intriga, il suo sguardo assente ci lascia indifferenti. Sembra un manichino in carne e ossa, esposto in primo piano allo scopo di mettere in mostra lussuosi vestiti e preziosi gioielli. Perché non trapela niente del suo carattere e delle sue emozioni? Eppure, nel quadro raffigurante il consorte, poco anteriore al suo, Raffaello è stato in grado di cogliere “i moti dell’anima”. Il ricco fiorentino ha lo sguardo penetrante del mercante allenato a valutare, a pesare il pro e il contro in un baleno, a giudicare con acume i discorsi del suo interlocutore. Sembra lievemente corrucciato: forse non ha l’abitudine di perdere tempo e le sedute di posa sono fastidiose. Si vede, Raffaello ha assimilato il linguaggio leonardesco. Certo, lo traduce in un idioma più semplice, meno intellettuale del Maestro di Vinci che considera la pittura come una “cosa mentale”, ma comunque adotta la formula di Leonardo.
Come mai, nel caso di Maddalena, procede in modo diverso? Forse lo fa perché non sarebbe conveniente trattarla al pari di un uomo. All’epoca, per una donna è disdicente fissare con insistenza l’interlocutore, svelare le proprie emozioni.
Agnolo Doni Raffaello
In casa Doni, una medesima vicenda allaccia la commissione del ritratto di Maddalena a quella del Tondo. Il 31 gennaio 1504 Agnolo Doni sposa la quindicenne Maddalena Strozzi. In un primo tempo, la Sacra Famiglia è valutata come un dono di nozze. Soffermarsi sui dettagli nella lettura di un’opera d’arte può svelare errori interpretativi e spingere a modificare primitivi giudizi. Nel Tondo, la composizione è incentrata sul Bambino Gesù che Maria e Giuseppe si passano e si ripassano alla maniera di “giocolieri” come li definisce il grande critico Roberto Longhi. Poi, senza indugiare, il tema sviluppato nella tavola è il battesimo. Allora pare logico posticipare di tre anni la realizzazione dell’opera: considerare la Sacra Famiglia come una committenza per festeggiare la nascita, l’8 settembre 1507, della primogenita Maria e non le nozze di gennaio 1504. Un altro particolare rafforza la nuova interpretazione: a tergo del ritratto di Maddalena dipinto nel 1506, appare una scena monocroma, attribuita al Maestro di Serumido. Raffigura il mito greco di Deucalione e Pirra. Unici superstiti del Diluvio Universale, i virtuosi coniugi rifondano il genere umano lanciando dietro di loro delle pietre che si trasformano appena toccano terra. Dalle pietre lanciate da Pirra nascono le femmine, da quelle lanciate da Deucalione, i maschi. La tavola di Raffaello corredata dall’aggiunta del mito greco assume allora un valore propiziatore; quella di Michelangelo segna la fine di un’attesa durata tre anni e mezzo.
Retro Maddalena Strozzi Deucalione e Pirra
Ordinare un quadro per rendere omaggio alla fertilità della consorte e festeggiare la nascita dei figli, era pratica usuale all’epoca. Così fece messer Francesco del Giocondo per ringraziare la moglie Lisa Gherardini di avergli dato due sani eredi maschi. Il ritratto sarebbe stato di suo gradimento se Leonardo glielo avesse consegnato? C’è da scommettere che l’avrebbe rifiutato. Aria ammiccante, sopraciglia depilate appannaggio delle donne malvissute, sguardo diretto che incrocia quello dell’osservatore, non potevano entusiasmarlo. Poi, che dire dello sfondo inquietante, misterioso intreccio di rocce, terra e acqua?
Quando, a Roma, Raffaello affronta il ritratto del conte Baldassare Castiglione, ha ben presente quello della Gioconda. Il busto di tre quarti e il viso frontale, rivolto verso di noi suggeriscono un movimento. È il ritratto moderno “di naturale” preconizzato da Leonardo, ossia la rappresentazione pittorica di un personaggio che non è più in posa ma si muove nello spazio e comunica a chi lo osserva tratti del suo carattere e stati d’animo.
Baldassarre Castiglione Raffaello
Baldassare Castiglione nasce a Casatico, in provincia di Mantova, il 6 dicembre 1478. Dopo essere stato al servizio di Francesco Gonzaga, giunge a Urbino nel 1504 alla corte di Guidubaldo, figlio di Federico di Montefeltro e Battista Sforza. Alla morte del duca nel 1508, rimane al servizio del suo successore, Francesco Maria della Rovere. Nel 1513, quest’ultimo lo manda in qualità di ambasciatore presso il papa; rimane a Roma fino al 1516. In quel periodo, inizia a scrivere Il Libro del Cortegiano, un trattato che raccoglie istruzioni per educare un uomo di corte e una “donna di palazzo”, in modo eccelso. L’opera, ambientata al Palazzo Ducale di Urbino, si presenta sotto forma di dialoghi. È divisa in quattro parti o “libri” corrispondenti a quattro serate consecutive alla corte urbinate durante marzo 1507. Gli ospiti s’intrattengono in presenza della duchessa Elisabetta Gonzaga, moglie di Guidubaldo, che sostituisce il marito infermo. L’assenza del duca permette al Castiglione di escludere la politica vera e propria dalle conversazioni. Intervengono Federico Fregoso, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Gasparo Pallavicino, Giuliano de’ Medici, Pietro Bembo e altri ancora. L’intento della brigata urbinate è di “formar con parole un perfetto cortegiano”. Baldassare considera Il Cortegiano “un ritratto di pittura della corte di Urbino”. Anche se definisce il suo soggiorno a Urbino “fior della vita mia” cioè il periodo più felice della sua esistenza, sarebbe eccessivo considerare la sua elaborazione letteraria, un fedele ritratto. La sua “pittura” è comunque idealizzata. Tramite la scrittura, si rifugia nel mondo raffinato dove ha vissuto momenti sereni e sfugge i tempi in cui vive, tempi scossi da una profonda crisi religiosa e politica. La mitica compagine urbinate passa in rassegna il percorso formativo dell’uomo di corte. Ne risulta un gentiluomo addestrato più all’esercizio delle arti che a quello delle armi. Il Castiglione sogna di applicare il suo modello educativo alle corti europee, persuaso che, in Europa, la via diplomatica sia l’unica strada percorribile per giungere alla pace.
A Roma stringe amicizia con Raffaello. Gli commissiona il ritratto nell’inverno 1514-1515. Il pittore sceglie una tela di lino, nuovo supporto che comincia a diffondersi in Italia alla fine del Quattrocento. La tela presenta il vantaggio di essere meno costosa del legno, più facile da dipingere ma invecchia male. Il restauro del 1975 assottiglia gli strati di vernici che ricoprivano la pittura e le davano un aspetto monocromato giallo-bruno. In occasione dell’intervento, viene alla luce un particolare significativo: nascosta dalla cornice, una striscia di pittura nera, larga un centimetro, delimita l’opera. La striscia è stata eseguita da Raffaello e oscura parte delle mani collocate vicine al bordo inferiore del quadro. Dunque, le mani troncate non sono la conseguenza di un ritaglio della tela d’origine ma sono frutto di una decisione dell’artista. Esprimono la sua volontà di concentrare l’attenzione sull’altro polo luminoso del ritratto: il viso. Nello stesso tempo, accentuano la compostezza del modello. Conserte, con il pollice sinistro imprigionato da quello destro, illustrano un autocontrollo del personaggio. Sembrano accertare che il conte sia un uomo pacato, abituato a dominare le proprie emozioni e a non gesticolare.
In corso d’opera, Raffaello non esita a ridisegnare certi contorni. Così elimina lo schienale della poltrona e snellisce le spalle per dare più rilievo alla figura. Rimpicciolisce il berretto per lasciare emergere la parte meno illuminata del volto. Il copricapo di velluto nero, incorniciando il viso, ne mette in risalto l’ovale luminoso. Inoltre, la sua linea spezzata, stridente sullo sfondo chiaro, è un potente elemento dinamico. Il berretto a falde larghe è ornato da una piuma nera e da una spilla. I berretti impreziositi da medaglie o camei erano in voga all’epoca. I due re rivali, Francesco I e Carlo V, li apprezzavano entrambi. Sotto il copricapo, Baldassare porta uno “scuffiotto” ossia una reticella ricamata aderente al cranio. In Il Cortegiano sconsiglia agli uomini calvi di uscire senza cappello. In una lettera del 1509, indirizzata a sua madre Aloisia Gonzaga, confida di aspettare con impazienza due scuffiotti: senza di essi, non può esibirsi in società perché la malattia gli ha fatto perdere i pochi capelli che aveva.
Autoritratto con un amico Raffaello
La folta barba bruna che inquadra la parte bassa del viso e le guance, non è semplice ornamento. All’inizio del Rinascimento, l’uomo raffinato si rade. Più tardi, nei primi decenni del Cinquecento, porta la barba per identificarsi ai saggi dell’Antichità; i filosofi della Scuola di Atene non sono per niente glabri! Anche Raffaello è barbuto nell’Autoritratto con un amico, dipinto nel 1519. In questo doppio ritratto, la mano del pittore è posata sulla spalla dell’effigiato, alludendo a un rapporto d’amicizia. Pure Baldassare Castiglione, ritratto a grandezza naturale, racconta una storia d’amicizia. Questa volta, Raffaello è assente dal quadro ma trasmette il sentimento che lo unisce all’effigiato con un taglio ravvicinato e intimista, una luce dolce e calda e soprattutto tramite lo sguardo del conte. Degli occhi chiari ottenuti dall’azzurrite, unico colore pure del quadro, e resi ancora più vividi da un punto bianco sull’iride destra e da due trattini bianchi su quella sinistra. Degli occhi seri e intelligenti con uno sprazzo di ironia e una punta di malinconia. Degli occhi dipinti all’altezza di quelli del pittore perché i due uomini sono seduti vicini, sul medesimo piano, l’uno di fronte all’altro. Si conoscono e si stimano. Conversano; si tratta di un momento piacevole fra amici. Raffaello non è pressato da una scadenza; può lavorare rilassato. La sua pennellata è svelta, morbida e delicata come una carezza.
Il suo modo di dipingere illustra perfettamente i precetti sulla pittura, esposti nel libro primo de Il Cortegiano: “Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato facilmente, di modo che paia che la mano senza essere guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzione del pittore …” Come il pittore, l’uomo di corte e la dama di palazzo devono sottostare a una “regula universalissima”: associare ogni azione e parola alla “grazia”. Significa abolire la “affettazione” ossia l’ostentazione e coltivare invece “la sprezzatura”. La “sprezzatura”, termine coniato dal Castiglione, indica una disinvoltura nel fare e dire le cose, capace di mascherare la minima traccia di apprendimento. Agire il più possibile con una naturalezza “che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”. Così, la competenza non sembra una qualità acquisita (come in realtà lo è) con lo studio e la pratica, ma pare una qualità innata della persona. L’attributo fondamentale della grazia è dunque un’apparente semplicità. “La facilità genera grandissima meraviglia; e per lo contrario il sforzare … dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia.” L’artificiosità, con i suoi eccessi, trascina nel ridicolo.
Considerato il ritratto di Maddalena Strozzi, Baldassare avrebbe biasimato la moglie di Agnolo Doni e non l’avrebbe di sicuro inserita nell’elenco della perfetta dama di palazzo! All’opposto, il ritratto del Castiglione è l‘effigie del perfetto uomo di corte. Il conte incarna il gentiluomo discreto dal potente fascino. Trasmette un’impressione di grande naturalezza e semplicità. Al cospetto del quadro, suona ineccepibile l’affermazione di W. Somerset Maugham: “L’uomo elegante è quello di cui non noti mai il vestito.” Niente da obiettare, l’eleganza non è una grezza faccenda materiale. Coinvolge la sfera spirituale perché è legata all’educazione. È un modo garbato di comportarsi e non dipende dal vestito indossato. Nel ritratto, le prime cose che colpiscono sono lo sguardo e la compostezza di Baldassare; solo in seguito prestiamo attenzione al suo modo di vestire.
L’abbigliamento è invernale. Appare curato e costoso. I colori ben si adeguano a una regola enunciata nel Libro secondo: “Parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro”. Dalla Spagna, la moda del nero invade le corti europee. La tinta è costosissima perché molto difficile da ottenere. La Riforma accrescerà la sua diffusione facendone un colore morale, un colore “onesto” associato all’umiltà e alla temperanza contrapposto ai colori “disonesti” come il giallo, il verde o il rosso, troppo vistosi. A Ginevra, sotto Calvino, portare un vestito rosso poteva condurre al rogo. Agnolo Doni avrebbe fatto una brutta fine! La giacca nera, le maniche e il pettorale di pelliccia grigia attestano il lusso. La pregiata pelliccia si ricava dal vaio, un piccolo scoiattolo della Russia. Come lo scuro zibellino o il candido ermellino, il grigio vaio è un ornamento distintivo di alte cariche. Durante il medioevo la pelliccia fa un notevole salto di qualità, passando dalle stalle alle stelle! Se nell’alto medioevo, rilegata a una mera funzione termica, si dissimulava all’interno dei capi d’abbigliamento, fra la fine del Duecento e la fine del Trecento non teme più di apparire in bella vista e assume un valore positivo. Al tempo di Carlomagno, sfoggiare una pelliccia sarebbe stato un comportamento aberrante: era vestirsi da bestia ossia coprirsi d’infamia perché rimandava alla scena biblica del peccato originale. Nella Genesi, quando Dio cacciò i progenitori dal paradiso terrestre, “fece a Adamo e alla sua moglie delle tuniche di pelle e le rivestì.”
Sotto la fitta barba, nello spiraglio della giacca, si gonfia lo sparato pieghettato della camicia. Sembra pulsare. Emerge come un’isola bianca in mezzo alle tonalità scure dell’abbigliamento. Come un riflesso, raddoppia la macchia luminosa del viso. Benché prediliga il nero, Baldassare non si scosta dalla tradizione medievale: gli indumenti in contatto diretto con la pelle devono essere bianchi o per lo meno non tinti perché il colore è comunque impuro. Questa consuetudine è valsa fino ai giorni nostri. Basti pensare giusto appunto al termine “biancheria intima” o alle lenzuola e alle fodere dei guanciali che fino all’epoca dei nostri nonni, non erano colorate. Tuttavia, non analizziamo il vestito indossato soltanto come un’impersonale rappresentazione della moda cinquecentesca. È più di un semplice esemplare della moda rinascimentale. È legato alla scelta del Castiglione e dunque rivelatore dei suoi gusti, della sua maniera di pensare; lascia intravedere la sua interiorità. Se il corpo è considerato l’abito dell’anima, Erasmo da Rotterdam prosegue: “Il vestito è il corpo del corpo e dà un’idea delle disposizioni dell’anima”.
La figura scura si staglia sullo sfondo chiaro. I capi neri e grigi scelti dal Castiglione impongono una gamma cromatica ridotta. Malgrado questa limitazione indotta dal vestito, il pittore dimostra una grande sensibilità nella resa dei colori. Riesce ad arricchire la sua tavolozza con una moltitudine di tonalità: nell’incarnato, nella barba, nella pelliccia. L’uso sapiente delle ombre conferisce rilievo e dà vita al conte. Senza l’ombreggiatura, il viso sarebbe apparso piatto, inverosimile. Le gradazioni di bruno fanno risaltare i peli della barba. Le variazioni di grigio rendono la morbidezza della pelliccia. Per lo sfondo, invece, Raffaello non è vincolato. Avrebbe potuto optare per un paesaggio, una stanza arredata, invece no. Nessun albero, nessuna collina, l’unico oggetto in vista è un “accenno” di bracciolo. Dipinge uno sfondo monocromo, privo di qualsiasi elemento decorativo, togliendo ogni distrazione all’osservatore. Non a caso, sceglie un grigio beige chiaro. Certo, questo colore prolunga l’armonia sobria del costume ma soprattutto aggiunge un tocco caldo e avvolgente che traduce intimità. A destra, l’ombra proiettata del soggetto rivela la vicinanza del muro. L’illuminazione soffusa fa risaltare i lineamenti del Castiglione senza indurirli. Sembra un’emanazione del suo mondo interiore, un’illustrazione della sua maniera di essere, dolce e misurata. Una luce diversa, un’altra tinta della parete, una maggiore distanza dallo sfondo avrebbero distrutto il delicato equilibrio raggiunto e cambiato il messaggio della tela. Il quadro esprime una sincera amicizia, un rapporto di fiducia fra il pittore e il modello. Siamo indotti ad immaginare uno scambio di sguardi fra due persone che si stimano, provano affetto e ammirazione l’una per l’altra.
Il Castiglione considera la pittura, l’arte per eccellenza “più nobile e più capace d’artificio che la marmoraria”. Non disconosce la grandezza della scultura ma gli sembra un’arte “deficitaria”, meno adatta all’imitazione, rispetto alla pittura. “Alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l’ombre; perché altro lume fa la carne ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaro e scuro, più e meno secondo il bisogno; il che non può fare il marmorario”. Già nella prima stesura di Il Cortegiano, fa prova di grande lucidità nell’individuare i migliori pittori del suo tempo, tra la moltitudine di artisti attivi all’inizio del Cinquecento. “Nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vinci, il Mantegna, Raffaello, Michelangelo, Giorgio da Castelfranco (Giorgione). Nientedimeno tutti sono tra sé nel fare dissimili, di modo che ad alcuno di loro non pare che manchi cosa alcuna in quella maniera, per che si conosce ciascuno nel suo stile essere perfettissimo”. Pure attribuendo a tutti gli artisti elencati un’estreme valore nell’arte di dipingere, mette Raffaello in cima alla classifica, al culmine della perfezione. L’esigenza dell’effigiato combacia con quella del pittore anzi, l’una si sovrappone all’altra. Baldassare si riconosce nell’immagine che l’artista gli consegna; Raffaello ha rappresentato l’amico, così come lo vede, come lo percepisce. C’è empatia fra i due uomini, c’è una comunanza di spirito.
Nel giugno del 1516, il conte porta con sé il ritratto quando rientra a Mantova per seguire Francesco Maria della Rovere, spodestato e scomunicato da Leone X. Nell’ ottobre del medesimo anno, sposa la giovanissima nobildonna, Ippolita Torrelli.
Dama con ritratto virile Bernardino Licinio
Nel 1519, mentre ritorna a Roma come ambasciatore di Federico Gonzaga, lascia il quadro nella dimora mantovana dove vivono la moglie, il primogenito Camillo e la figlioletta Anna. Poco tempo dopo, inserisce il dipinto in un componimento poetico: Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem. Immagina che Ippolita gli scriva da Mantova: gli racconta che ha trovato nel “conversare” col ritratto, un modo di colmare il vuoto causato dalla sua assenza. “Quando sono sola, il ritratto dipinto da Raffaello mi ricorda il tuo viso e cancella ogni preoccupazione. Lo vezzeggio, rido con lui e scherzo. Gli parlo come se potesse rispondermi. Mi sembra spesso che voglia muoversi, che voglia dirmi qualcosa, parlarmi con le tue parole. Il nostro piccolo riconosce suo padre e balbettando lo saluta. Così mi consolo e trascorro le mie lunghe giornate”. Il carme latino evoca la forza suggestiva del ritratto di Raffaello che inganna l’occhio al punto di sembrare vivo e diventare un autentico doppio del conte. Viene sottolineata la funzione consolatrice quasi magica del dipinto che riavvicina i coniugi e rende meno pesante la loro separazione.
L’anno 1520 è tragico per Baldassare. Il 7 aprile, a 37 anni, muore di pleurite il suo caro amico Raffaello; gli dedica una elegia diventata celebre, De Morte Raphaelis pictoris. Il 25 agosto, a 20 anni, sua moglie si spegne dopo aver dato alla luce la terzogenita. Compone per lei un commovente epitaffio in cui le dichiara il suo perpetuo amore. La ferita è profonda. Nel 1521, si mette al servizio dello Stato della Chiesa. Nel 1524, Clemente VII lo nomina nunzio apostolico presso l’imperatore Carlo V. Arriva a Madrid l’11 marzo 1525. Nei suoi bagagli, la tela di Raffaello! Perché? Gli ricorda la sua vita passata; è un oggetto prezioso che allude a due esseri amati ormai scomparsi. Il ritratto lo invita anche a meditare sul proprio invecchiamento. È un testimone silenzioso e oggettivo del tempo implacabile che scorre e che trasforma. Un po’ come nota Montaigne nei suoi Saggi: “Ho diversi ritratti di me, come sono cambiato oggi a quest’ora”.
Lasciare l’Italia portandosi dietro un ritratto, anche Leonardo … No, niente a che vedere con Baldassare: sulla celeberrima tavola, il viso non è di Leonardo! Eppure, un rapporto al tempo, c’è. La Gioconda offre il suo sorriso, il primo nella storia della pittura, se escludiamo il ghigno dell’Ignoto marinaio di Antonello da Messina. Il sorriso è un momento di grazia ma è effimero, svanisce in fretta. Il ritratto di Lisa Gherardini funge da punto di partenza; il sorriso allude al cognome del marito. Ma Leonardo supera l’immagine di una singola persona, ci parla dell’umanità in generale. Con il sorriso di Monna Lisa, illustra il carattere fuggevole della bellezza e la brevità della vita umana. Poi, il suo messaggio va ancora oltre; si allarga alla Terra e all’universo. Le labbra della Gioconda disegnano un collegamento fra il paesaggio a destra e il paesaggio a sinistra, colmando un’evidente incoerenza, un dislivello anomalo. A destra, un lago traccia una linea d’orizzonte molto in alto mentre a sinistra, si estende una valle paludosa, molto in basso. Il passaggio da un lato all’altro si fa tramite il sorriso della Gioconda. Il suo sorriso è l’anello di congiunzione: la sua bocca si solleva leggermente verso la destra, assicurando il collegamento fra due parti di uno scenario proto-umano, privo di piante e di animali. La tecnica dello “sfumato”, tipica di Leonardo, integra ulteriormente la figura al paesaggio. Sovrapponendo strati di colore molto diluiti, le cosiddette velature, l’artista ottiene una figura morbida, dai contorni che si fondono con il paesaggio. I colori della donna riprendono quelli dello sfondo. L’essere umano è parte della natura. E allora? Ebbene, si tratta sempre di una meditazione sul tempo ma a scala geologica e cosmica: dal caos si passa alla grazia (il sorriso) e dalla grazia, si ritorna al caos. Dalla confusione all’ordine, in un ciclo infinito, in un continuo movimento. Come interpretare il ponte in questo paesaggio primordiale? Forse, semplicemente come rafforzativo, perché è il consueto simbolo del tempo che passa.
Quando la Gioconda è rubata nel 1911 e scompare per due anni, Il ritratto del Castiglione prende il suo posto, al centro della sala quadrata del Louvre. Puro caso? Si può sorridere anche con gli occhi? Baldassare muore a Toledo, l’8 febbraio 1529. Viene seppellito nella cattedrale della città e Carlo V, davanti a una folla numerosa e alla corte imperiale, lo definisce “uno dei migliori cavaliere del mondo”: “Yo vos digo que es muerto uno de los majores caballeros del mundo”.
Autoritratto Rembrandt
Il suo ritratto passa di mani in mani e di paese in paese. Ritornato a Mantova, ispira pittori come il Parmigianino, per dei ritratti virili. Agli inizi del Seicento, promosso pittore di corte del duca di Mantova, Rubens ne fa una copia con alcune modifiche: ritrae integralmente le mani e dà al viso un’espressione tormentata in accordo con i canoni barocchi. Poi il ritratto entra nella cospicua collezione di Lucas van Uffelen, ricco mercante fiammingo, che risiede a Venezia dal 1616 al 1630. Segue il suo nuovo proprietario nei Paesi Bassi. Nel 1639, a due anni dalla morte di Van Uffelen, è messo all’asta ad Amsterdam, insieme a tutta la collezione del mercante. L’evento è di spicco. Rembrandt vede il quadro e ne rimane stregato. Su un foglio, fa uno schizzo del conte e appunta i dati relativi alla vendita dell’opera (°). Lo stesso anno, realizzerà un autoritratto all’acquaforte di chiara ispirazione al quadro: Autoritratto al balcone di pietra.
Schizzo di Rembrandt °
Ariosto Incisione
All’asta, il ritratto di Baldassare viene aggiudicato 3500 fiorini a Don Alfonso de Lopez, un agente segreto di Richelieu, molto esperto nel commercio di opere d’arte. Poco tempo dopo, l’acquirente cascato in disgrazia, è costretto a venderlo al successore di Richelieu, Mazarino. Non finisce qui! Alla morte del cardinale, la superba collezione che ha accumulato, viene smembrata. Colbert acquista il dipinto per conto di Luigi XIV. Baldassare Castiglione entra così nella collezione del sovrano, a Versailles. Nel 1793, varca la soglia dell’appena costituito Museo del Louvre, prima della Gioconda. Siamo giunti al termine delle sue peregrinazioni?
Castiglione Incisione
No! Agli albori del ventunesimo secolo, Baldassare Castiglione non avverte il peso dei suoi cinquecento anni e viaggia ancora. A dicembre del 2012 si trasferisce nel nord della Francia, a Lens, vicino alla frontiera belga. Ha sgomberato, voleva allontanarsi per un po’ dalla capitale, cambiare aria. La sua nuova dimora gli piace; è moderna, luminosa e spaziosa. Poi, è semplice e sobria: insomma, la “sprezzatura” fatta casa! Tutta una altra faccenda in confronto al vecchio palazzo del Louvre. Alla fine di quest’anno, gli scade il contratto di affitto; non sa ancora dove andrà ad abitare. Sì, gli manca il sole dell’Italia ma di tanto in tanto, torna a salutare il suo caro paese. L’anno scorso era in visita a Ferrara, in occasione della mostra che celebrava i 500 anni della prima edizione dell’ Orlando furioso. È curioso di vedere se, nel 2028, ci sarà una ricorrenza per i 500 anni della pubblicazione del Libro del Cortegiano. Dopo tutto, ha impegnato i suoi ultimi quindici anni a redigerlo. Mica bazzecole! Si merita anche lui un po’ di riconoscimento. Certo ha risposto all’invito di Ariosto per pura cortesia giacché si sono sempre cordialmente ignorati. Non ha mai fatto parte della sua cerchia di amici e non condivide né la sua visione pessimista della corte, né la sua presa di posizione sulla lingua. Perché seguire la Prose della volgar lingua di Bembo? Perché dovere imitare soltanto il modello toscano antico? Non è giusto eliminare le parole in uso “nelli altri lochi della Italia”. Comunque, a Ferrara, ha ritrovato con piacere Inghirami; era stato invitato anche lui. Hanno chiacchierato volentieri. Sempre in gamba il Fedra, quel simpatico “topone” della biblioteca vaticana!
Sull’eccellenza del ritratto di Baldassare Castiglione, nessun ha mai espresso un dubbio. Raffaello è in auge fino al Settecento ma alla fine del Ottocento, non riscuote più l’unanimità dei consensi. Il suo astro sbiadisce. Il suo idealismo annoia. Per provocazione, i surrealisti lo riporteranno alla luce. Riprenderà il suo posto fra i grandi maestri della pittura. Tuttavia, se c’è un’opera sua mai passata di moda, è il ritratto di Castiglione; una delle pitture più belle del Rinascimento. Delacroix lo disegna; Maurice Denis lo trasforma alla maniera Nabi, Matisse si esercita a dipingere il viso. Cézanne amava il dipinto: “Com’è ben modellata la fronte, evidenziata nella sua plasticità. Come sono ben equilibrate le macchie di colore nell’insieme”.
Joëlle