Paella
Se evocate un piatto, rizzo subito gli orecchi. Se mi parlate di cucina, mi invitate a scrivere. “Paella!” Il mio pensiero vola verso Valencia dove ho trascorso una vacanza estiva diversi anni fa.
Per molti stranieri, la paella rappresenta la cucina spagnola. È la “baguette” dei francesi, la “pizza” degli italiani. Non è affatto casuale. Risulta da un’operazione di propaganda e di pubblicità condotta dal Ministero del Turismo spagnolo tra 1952 e 1977. Dopo la sanguinosa guerra civile, Franco volle trovare un piatto che rappresentasse la nazione, una specie di “Valle de los Caidos” culinaria. Perché scelse la paella? La ricetta si prestava a infinite varianti; il riso era poco costoso e soprattutto, grazie allo zafferano assumeva un bel colore giallo arancio che richiamava la bandiera spagnola. Così, per volontà del Caudillo, la paella fu eretta a monumento nazionale da visitare con la forchetta. È tuttora il simbolo gastronomico dell’intera Spagna.
I valenciani protestano: “La paella non è un piatto tipico spagnolo, è un piatto prettamente valenciano”. Valencia è la culla della paella: la ricetta emerge dalle risaie dell’Albufera, laguna alle porte della città. Per questo motivo, la denominazione “paella valenciana” è un pleonasmo; è come dire “ cacciucco livornese”. Il termine deriva dal catalano “padella” che definisce, come in italiano, l’utensile metallico da cucina, a bordi bassi e di forma rotonda. Per metonimia, il piatto preparato prende il nome dello strumento che serve a cucinarlo ossia si usa il nome del contenente per designare il contenuto. In spagnolo ufficiale, la padella a paella si chiama “paellera”: è una parola coniata dopo che la paella è diventata lo stemma culinario della Spagna. In castigliano, esisteva già il vocabolo “sartén” per designare una padella qualsiasi. L’aggiunta lessicale rivela in modo chiaro che il piatto non ha un’origine nazionale.
La padella si trasporta con facilità ed è adatta a una cottura all’aria aperta. Difatti, la paella è una ricetta nata nei campi intorno a Valencia per rifocillare i lavoratori agricoli. Piatto unico e comunitario per eccellenza: tutti si servivano direttamente nella grande padella con cucchiai di legno. Ancora oggi vige la tradizione. Un intenditore di paella non usa né forchetta, né piatto.
La risicoltura si sviluppò nella ricca huerta di Valencia, sotto il dominio degli arabi; nel X secolo era già estesa e prospera. All’inizio il riso veniva consumato bollito nel latte di mandorla o di capra, più tardi cotto nel brodo di carne o direttamente in forno. Il modo particolare di cucinarlo nella “paella” appare soltanto nel XIX secolo. “Todas las paellas son arroz, pero no todos los arroces son paella” (Tutte le paella sono fatte con il riso, ma tutti i risotti non sono delle paella). Affinché la paella risulti perfetta, bisogna seguire attentamente la cottura del riso. Durante i primi otto minuti, la fiamma è viva; il riso è ricoperto dal brodo. Appena emerge, si passa alla tappa successiva: si abbassa il fuoco proseguendo la cottura per altri sette minuti. I preziosi chicchi assorbono il liquido e si asciugano. Nell’ultimo minuto, si alza di nuovo la fiamma per ottenere il prelibato “socarrat” che è uno strato sottile di chicchi incollati sul fondo della padella. La presenza del socarrat è segno di una paella cotta a puntino. Occorrono ancora cinque minuti di pazienza prima di consumarla perché va lasciata riposare. Il riso si presenta secco con una punta di morbidezza; i chicchi si devono staccare gli uni dagli altri.
Las barracas maiolica di Manises
Un’estate siamo andati a trovare mio fratello che viveva a Valencia. Lì abbiamo assaporato la paella originaria cucinata da un suo amico. Ho costatato con sorpresa l’assenza totale d’ingredienti provenienti dal mare: la paella valenciana è una ricetta “di terra”, è figlia della piana ben irrigata e fertile che avvolge Valencia. Nasce all’ombra delle “barracas”, le caratteristiche fattorie intonacate di bianco, dal tetto di paglia molto spiovente. Viene dalla terra in cui Vincente Blasco Ibáñez ambienta la sua novella “La barraca”. La paella si nutre dei prodotti della huerta: pezzo di coniglio, coscia di pollo, taccola, “garrofó” grosso fagiolo piatto dalla buccia bianca macchiata di rosso, pomodoro, senza dimenticare le “vaquetes” piccole chiocciole dal guscio chiaro. Il riso ovviamente è quello dell’Albufera, tondo e capace di assorbire il liquido senza scoppiare.
Durante la cottura, i preziosi stimmi dello zafferano vestono i chicchi di un luminoso giallo arancione. L’olio d’oliva offre il suo mediterraneo sapore fruttato mentre un po’ di “pimentón”, polvere di pimento non affumicato, aggiunge all’ultimo il suo tocco personale. Un rametto di rosmarino e uno spicchio d’aglio sono i benvenuti se non si soffermano troppo a lungo nella padella. Ho elencato tutti i componenti della paella autentica, la cosiddetta paella valenciana ma il piatto simbolico della penisola iberica presenta innumerevoli varianti. Ho un debole per le paella “di mare” tutto di pesce come la “mariscos” o miste come la “andalusa” che associa in un bel contrasto di colori, pollo e cozze, seppie e chorizo, piselli e peperoni, gambas e taccole.
A proposito, mi permetto un consiglio: quando fate cuocere un polpo, non buttate la sua acqua di cottura ma usatela come brodo per un risotto o una paella “ marinera”. Me l’ha insegnato un’amica spagnola, provate per credere!