A casa di Pùškin

Verde acqua interrotto da colonnine bianche, elegante, il palazzo si staglia contro il cielo terso. A due passi, la Neva scivola, silenziosa. Siamo in coda e aspettiamo di poter entrare. Delle follate di vento freddo mi fanno rimpiangere di non essermi coperta di più; è agosto, d’accordo, ma siamo in Russia! Infine entriamo. I visitatori intasano le sale e i corridoi. Ricalcando la statua della libertà, la guida innalza una gerbera di tessuto rosso. È così facile perdersi in questa marea umana. Le spiegazioni succedono a spiegazioni. In un’immensa confusione, un quadro ne segue un altro e il pigia pigia continuo m’impedisce di apprezzarne i dettagli. Nella sala di Rembrandt mi manca l’aria; vorrei aprire le finestre, ho voglia di scappare. Sono inghiottita in una massa appiccicosa, tiepida e soffocante; guardo ma non vedo e quando riesco a vedere, non ho modo di osservare. Quello che conta, è non perdere di vista la gerbera rossa! Potrò dire: “Sono stata al Museo dell’Hermitage” e poi? Inutile fingere la sorpresa, nei viaggi organizzati bisogna seguire il gruppo; non c’è spazio per la dissidenza e il tempo è cronometrato. Meno male, domani, l’ultima mattinata del viaggio è libera. Ci staccheremo dagli altri che hanno già optato per un giro in battello sulla Neva e i suoi canali.

Passeggiamo sulla Prospettiva Nievski, les Champs-Elysées di San Pietroburgo. Il sole ci accompagna anche oggi per l’ultima visita del nostro soggiorno.  Stasera saremo di ritorno in Italia. Le vetrine catturano i nostri sguardi, una in particolare, al numero 56 della Prospettiva. Sta alla base di un imponente arco di vetro stile Art Nouveau che buca la facciata di un edificio quadrato e massiccio. Popolata da strani esseri in legno variopinto, indaffarati nel preparare e trasportare dolci e dolcetti, sembra un fregio fiabesco, un balletto colorato uscito dalle pagine di Perrault o di Grimm. Spingiamo una porta di legno scuro. Al suo interno, il negozio espone un mondo magico di Delikatessen, illuminato da una miriade di lampadine. Per fare un regalo, scegliamo una pregiata bottiglia di vodka ma siccome non è ancora mezzogiorno, rifiutano di vendercela. Assurdo, pensare di frenare l’alcoolismo con simili misure!

Proseguendo sul viale, giungiamo a un palazzo zeppo di un nutrimento più nobile: “La Casa Singer”. Fa angolo al numero 28 della Prospettiva; sporge come una prua arrotondata. Si è incappucciata con un berretto di vetro per sembrare più alta. La chiamano anche “La Casa dei libri”: è una libreria. Mi attrae come una calamita. Al secondo piano, reparto bambini, troverò quello che cerco? È stato tradotto in 160 lingue; esiste sicuramente in russo… Sì! fantastico! L’ho individuato con la sua copertina bianca e il disegno di Saint-Exupéry: МАЛЕНЬКИЙ ПРИНЦ insomma, IL PICCOLO PRINCIPE. Lo prendo. Anche se non leggo il cirillico, mi piace comporre una Stele di Rosetta di carta, tutta mia!  Vorrei curiosare fra gli scaffali, rilassarmi seduta nello storico caffè panoramico davanti a una tazza di tè ma dobbiamo proseguire. Esco a malincuore.

Girando a destra, abbandoniamo la Prospettiva Nievski per costeggiare il canale Griboyedov dove la Chiesa di Salvatore sul Sangue Versato specchia le sue luminose e vistose cupole a cipolla. Surreale come il Castello di Neuschwanstein, si erge a poca distanza della grande libreria. La sua architettura medievale trae in inganno perché l’inizio della sua costruzione non è così remoto: risale al 1883 per volontà di Alessandro III. Lo zar volle onorare la memoria di suo padre Alessandro II, ucciso dalla bomba di un attentatore in questo stesso luogo. Passiamo oltre. Non è la meta della nostra passeggiata.


Giriamo a sinistra, in direzione del canale Mojka. Al numero civico 12 della strada lambita dal fiume Mojka, ci fermiamo davanti a una dimora giallo-pastello, l’ultima residenza di Pùškin. Superiamo il largo portone di legno chiaro attraverso una gattaiola. Un atrio ci convoglia verso un vasto cortile interno rallegrato dal verde brillante di cespugli, pratino e alberelli. Al centro, cappello in mano, in piedi su un cilindro di pietra bianca, la statua bronzea del poeta ci accoglie.

Intrigati, saliamo negli appartamenti di Pùškin. I nostri piedi sono infagottati in sacchetti di plastica blu, gli auricolari aspettano il via per divulgare il loro contenuto. È vietato fotografare. Ci addentriamo in un santuario. Ogni stanza ospita la sua sfinge: seduta in un angolo, una custode impassibile ci osserva. Siamo i soli turisti stranieri. Un gruppo di russi segue assorto le lunghe spiegazioni di una guida del posto. Li invidio; vorrei poter carpire aneddoti in lingua originale ma mi devo accontentare dell’apparecchio che pende al mio collo. Pigio il primo tasto. Con un sottofondo di musica classica, giunge ai miei orecchi una bella voce maschile tinta da un leggerissimo accento russo. Inizia un viaggio all’indietro nel tempo. Il racconto mi trasporta all’inizio di febbraio 1837, se consideriamo il calendario gregoriano o alla fine di gennaio 1837, se teniamo conto del calendario giuliano adottato dai russi dell’epoca. Certo, queste incongruenze di data sono bazzecole. Una cosa è incontrovertibile: il dramma si svolse durante l’inverno del 1837, al tempo dello zar Nicola I.

Tutta la casa rievoca la terribile fine del poeta. Il tempo si è congelato. La tavola già apparecchiata nella sala aspetta di riunire intorno a sé i membri della famiglia: la cena non avverrà mai. La moglie Natalja conversa con un’amica nel suo salottino. I quattro bimbi si divertono sul tappetto della loro camera con i giocattoli di legno, sotto l’occhio benevolo della tata. Purtroppo quel pomeriggio del 27 gennaio 1837 non è un pomeriggio qualunque, è un pomeriggio mortifero. Quando il campanello d’ingresso suona alle sei, marca l’inizio di una straziante agonia. Pùškin è riportato al suo domicilio in carrozza; perde sangue a fiotti. Il duello con Georges d’Anthès s’avvia verso un esito funesto. A innescare il dramma, il 4 novembre 1836, è stato l’arrivo di una lettera anonima che consacra il poeta “Gran Maestro dell’Ordine dei Cornuti”. La vera pallottola responsabile della morte di Puškin è la lettera diffamante e provocatoria, esposta qui, in una teca di vetro.

Lo studio-biblioteca conserva l’ultimo giaciglio del poeta, molti oggetti personali e tutti i suoi libri. Pùškin è morto dissanguato, sul suo divano di pelle, nella stanza che lo rappresenta di più. Ha passato lì, i due giorni che gli rimanevano da vivere in compagnia di amici stretti, assistito da medici impotenti, torturato da immani sofferenze. Sulla scrivania, il calamaio col moretto rimpiange la geniale vena poetica troncata a trentasette anni; appoggiato alla biblioteca, il bastone col pomo d’ametista rimembra le serene passeggiate per le vie di Pietroburgo. Se ci sono delle parole assassine che annientano, ci sono anche quelle salvifiche che permettono la riviviscenza. Perché non averle usato per rispondere all’infamia? Aver preferito la deflagrazione delle pistole alla potenza del logos, alla forza devastatrice che un contrattacco verbale è in grado di scatenare. Rischiare la vita e sfidare la morte; rischiare di morire e snobbare la vita. Per coraggio o per gioco?  Volere a tutti i costi un duello ormai illegale per meritarsi l’esilio e allontanarsi da uno zar perfido e asfissiante?

D’altronde il genio di Pùškin scaturisce dal suo temperamento focoso, dal suo carattere indomabile, dalla sua ironia, riflette la sua sete di giustizia e di libertà. Se fosse stato diverso, non avrebbe scritto “Il cavaliere di bronzo”, non avrebbe composto i seimilacinquecento versi di “Eugenio Onegin”, capolavoro della letteratura russa, non avrebbe influenzato l’opera di tutti gli scrittori russi che gli sono succeduti e di molti scrittori europei. A quasi duecento anni della sua morte, Pùškin continua a brillare. La sua poesia è una tessera adamantina insostituibile nel mosaico dell’identità russa. Nei suoi racconti in prosa, ha scelto di non fermarsi ai confini della sua terra, alla descrizione esclusiva dell’epoca in cui vive. La sua narrazione si allarga anche a paesi stranieri e ad altri tempi. Ha uno stile brioso e una maniera peculiare di condurre la storia. Non segue passo a passo l’ordine cronologico; occulta sempre degli eventi o dei dettagli. Così facendo, attrae il lettore perché accende la sua immaginazione e stuzzica la sua curiosità. Senza volerlo, Pùškin è capostipite di un nuovo genere letterario: il romanzo. Senza saperlo, ha già rappresentato la propria morte nella triste fine del poeta Lenskij di “Eugenio Onegin”. Il romanzo è fusione fra immaginazione e realtà; scrivere è inserire un trattino fra mente e corpo.

23 agosto 2018                                                                                                                                         

Joëlle



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