Sulle orme di Giuseppe Nibbi
Stretta nella morsa di tempi insoliti e scombussolanti, ho la testa in ebollizione; una testa che cerca di vagliare alla meno peggio la mole d’informazioni contrastanti diffuse dai mass media. In una situazione frustrante e surreale dove i contatti umani diretti sono ridotti ai minimi termini, ascoltare le lezioni di STOPENUM (acronimo di Storia del Pensiero Umano) sul sito SCUOLANTIBAGNO m’infonde un senso di equilibrio e mi trasmette serenità. Sentire la voce del prof mi riporta al tempo felice dell’insegnamento in presenza e della normalità. Durante le lunghe giornate passate a casa, sono incline alla riflessione e non di rado, scomodo uno dei libri allineati sugli scaffali per rileggere un passaggio che echeggia il mio pensiero del momento. Però mi stupisco quando, invece di trovare il brano che sto cercando, m’imbatto in una pagina che rimanda a un elemento trattato nelle lezioni che sto ascoltando. Coincidenza? A me, sembra magia pura perché le coincidenze si susseguono. Vi racconto le ultime tre:
Prima coincidenza
Mentre sfoglio Il giardino dei Finzi-Contini in cerca della descrizione di una sinagoga, intercetto l’espressione “Preferisco di no”. Mi blocco incredula; non può essere! Il libro di Bassani comprato anni fa ma non ancora letto, contiene il motto tipico del personaggio Bartleby lo scrivano di Melville sul quale il prof si è soffermato in una lezione che ho ascoltato da poco. In questo racconto, l’impiegato Bartleby ha la caratteristica di rispondere “Preferirei di no” ogni volta che l’avvocato gli chiede un compito diverso da quello di scribacchino per cui è stato assunto. Di sicuro, mi sto prendendo un granchio: assai improbabile che questo “Preferisco di no” sia un riferimento al romanzo Bartleby lo scrivano. Dopotutto, non si tratta di una citazione d’autore; non è una formula speciale firmata Melville. È una semplice risposta, un diniego espresso in modo elegante. Intrigata, esamino il passaggio che ho sotto gli occhi. Mi arrendo all’evidenza: si tratta di uno scambio di punti di vista fra il narratore e Micòl a proposito della formula singolare di Bartleby “I prefer not to”.
Seconda coincidenza
Un’altra volta, la coincidenza si presenta quando ho tra le mani un libro di Cesare Marchi. Ho afferrato Impariamo l’italiano con la voglia di ripassare alcune regole grammaticali. A giudicare dal prezzo in lire stampato sulla quarta di copertina, l’oggetto è da lunga data ospite dei miei scaffali. Lo apro. Nel prologo scopro alcuni versi del primo canto della Gerusalemme liberata di T. Tasso:
Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.
Marchi cita Torquato Tasso per illustrare il suo intento di usare “uno stile semplice, piano, narrativo per addolcire l’arcigna materia” ossia la grammatica. Dove risiede la mia sorpresa? In questo momento sto seguendo una lezione incentrata sull’opera di Tito Lucrezio Caro De rerum natura. Nel Libro primo, Lucrezio loda la poesia che definisce “il dolce filtro della conoscenza”. Ad essa attribuisce il potere di alleggerire e di chiarire concetti oscuri e difficili. Scrive:
Come i medici, quando vogliono dare l’acre assenzio ai bambini,
toccano prima l’orlo della tazza col dolce
fluido biondo del miele per illudere le loro labbra
perché intanto trangugino il farmaco amaro.
Terza coincidenza
Nell’ultimo esempio che riporto, s’intrecciano addirittura due coincidenze.
Vedendo mio marito assorto nella lettura de La masseria delle allodole di Antonia Arslan, un romanzo sul genocidio armeno, ecco balzatomi alla mente l’aneddoto sul santo Traduttore degli armeni, raccontato da Paulo Coelho. Con l’idea di ritrovare il brano, prendo in mano Sono come il fiume che scorre, una raccolta di vari momenti di vita e di brevi riflessioni dello scrittore brasiliano. Sono sicura che ciò che m’interessa sta all’interno del libro. Ma dove? Questo non me lo ricordo più. I titoli dell’indice non mi sono d’aiuto perché in nessun di essi compare l’aggettivo “armeno”. Allora comincio a girare le pagine a caso, ma senza risultato. Sto per richiudere il libro quando un nome capta la mia attenzione: San Giuseppe. Guarda caso! Qualche giorno fa, mi è pervenuto il messaggio augurale Il Natale si salva da sé in cui il prof invita alla lettura dei due primi capitoli del Vangelo secondo Matteo e del Vangelo secondo Luca, unici passi della Bibbia che menzionano Giuseppe, lo sposo di Maria.
Adesso la faccenda si complica; il filo si annoda; la coincidenza si ramifica. Di solito cucino accompagnata da uno sfondo musicale. Il ragazzo di mia figlia ha istallato un’applicazione iTunes che mi permette di ascoltare dallo stereo del soggiorno, musiche e canzoni senza l’utilizzo di Cd. Mi sto attivando in cucina mentre lo stereo diffonde un misto di canzoni e musiche di mio gradimento, in ordine sparso. Nel soggiorno, sdraiato sul divano, mio marito aspetta che abbia finito di preparare il pranzo. Legge. Stimolato dalla mia ricerca infruttuosa, si è impadronito del libro di Coelho. Ad un tratto, sento il suo “Non è possibile!” stupefatto. Ha scovato l’aneddoto sul santo armeno all’istante preciso in cui s’innalza dallo stereo la voce di Charles Aznavour, nato Shanour Aznavourian, cantante francese d’origine armena e figlio della diaspora.
Ne Sono come il fiume che scorre, il brano finalmente ritrovato s’intitola: L’altro lato della Torre di Babele. La sua lettura restituisce i particolari che la mia memoria labile aveva cancellato.
In Armenia, per San Mesrob, il paese si ferma e festeggia. Come mai? Nel V secolo, Mesrob (Մեսրոպ) inventò l’alfabeto armeno e dedicò la sua vita alla traduzione della Bibbia e di altri testi greci. Il 9 ottobre 2004 a Oshakan, insieme ad altri scrittori, Coelho era presente alla messa in onore del santo e ha deposto un fiore sulla sua sepoltura. Commosso, riflette sull’importanza dei traduttori e il grande valore del loro operato, purtroppo miseramente retribuito. Condivido a pieno la sua definizione: il traduttore è una persona che edifica “dei ponti per comunicare, consentendo il dialogo e la diffusione del pensiero” e “di cui raramente ci preoccupiamo di conoscere il nome quando apriamo un libro straniero”.
Nel libro di Coelho, il nome “San Giuseppe” che ho individuato per caso, sta nel brano L’uomo che seguiva i sogni. La dicitura è enigmatica ma già dalle prime frasi appare chiaro che la riflessione s’impernia sul padre putativo di Gesù.
Questo testo messo a confronto con i due capitoli iniziali dei Vangeli secondo Matteo e secondo Luca che ho appena letto, m’invita a guardare Giuseppe sotto un’angolatura diversa, a riconsiderarlo. Per me, finora era uno sfigato di scarso interesse, un personaggio benevolo privo di rilievo, la figurina di creta sistemata nel presepe accanto a Maria e al Bambino. Che uomo è Giuseppe e cosa rappresenta? È il padre adottivo di Gesù che, all’inizio, accompagna Maria in tutti i suoi spostamenti e presto scompare dal racconto senza aver mai aperto bocca. Ecco, grossomodo, la sua sagoma. Nella cultura ebraica, le parole sono cose e i nomi rivestono un significato ben preciso.
Gesù, Yeshu’à cioè “Dio è salvezza”, verrà inteso nel cristianesimo nascente come “Che salva”.
Maria, Miryam in ebraico, ha il senso di “Amata”. Deriva dal verbo Mrj ossia “amare” nella lingua degli antichi egizi. La trafila etimologica si avvale del fatto che la prima a portare questo nome è la sorella di Mosè e di Aronne, nata appunto nell’Egitto dei Faraoni.
Giuseppe venduto dai fratelli De Ferrari (1630-1650)
E Giuseppe? Nell’Antico Testamento, Yoseph è il figlio prediletto di Giacobbe. Mossi dalla gelosia, i suoi fratelli lo vendono a degli Ismaeliti che lo portano in Egitto. Giuseppe sa interpretare i sogni; un dono apprezzato dal Faraone che lo nomina sovrintendente del suo regno. La sua gestione oculata delle risorse salva il paese da una carestia che imperversa dall’Egitto fino alla Terra di Canaan e dura sette anni. Giuseppe non cerca mai di vendicarsi ma al contrario, perdona i fratelli e li accoglie a braccia aperta. La sua storia è narrata nel libro della Genesi.
Al capitolo 30 versetto 24, viene spiegato il significato del suo nome “Che Dio aggiunga” che deriva dal verbo Yasaf “aggiungere”.
Genesi 30, 24 : E gli mise nome Giuseppe, dicendo: “il Signore mi aggiunga un altro figlio”
Sono le parole di Rachele quando dà alla luce il suo primo figlio e così, scampa al disonore di essere sterile. Giuseppe è l’ultimo nato di undici fratelli che sono tutti o figli di Lea (sorella di Rachele) o di Bilha (serva di Rachele) o di Zilpa (serva di Lea). Molti anni dopo, mettendo al mondo il suo secondo figlio Beniamino, Rachele morirà. Dunque, Giuseppe equivale a “Dio aggiunge” e con il trio riunito - Yeshu’a, Miryam, Yoseph - la mia fantasia azzarda un messaggio: “La salvezza sta nell’amore che accresce”.
San Giuseppe col Bambino
Guido Reni (1575-1642) Olio su tela Opera datata intorno al 1625 – 1630.
Un recente restauro ha permesso di recuperare una minuscola scena in secondo piano sulla destra: La fuga in Egitto.
Giuseppe lungi di essere un personaggio secondario, assume un ruolo fondamentale, dapprima al momento della nascita di Gesù e poi durante la sua infanzia. Dello sgabello, è la terza gamba che partecipa all’equilibrio dell’insieme. Che sarebbe Maria senza il suo appoggio? Una ragazza madre destinata alla lapidazione in una società che non ammette deviazioni perché intrepreta troppo rigidamente la Torah. Accettare Maria come moglie non è un atto banale, è un gesto di accoglienza, un gesto di misericordia e di solidarietà. Ciò che fa sorgere sorrisi beffardi e parole di scherno del tipo “Guarda questo, si sposa una donna fecondata da un altro!”, è in realtà un atto clamoroso di dissenso da parte di Giuseppe nei confronti della gelida applicazione della Legge. La qualifica di uomo giusto “Vir Justus” che il Vangelo di Matteo gli attribuisce non sta ad indicare che rispetta la Legge alla lettera in modo inflessibile ma piuttosto che gli sa dare un tono più morbido volto a comportamenti compassionevoli. La parola maldicenza e la parola cattiveria sono estranee al suo vocabolario. Pratica una giustizia dettata dal suo cuore e non si cura dell’opinione pubblica. Nutre un profondo senso del dovere morale e non si fa condizionare da regole impietose. Segue la sua coscienza e indossa con abnegazione e generosità i panni di genitore adottivo.
Giuseppe non si sottrae alle sue responsabilità di padre e di sposo: protegge sia Gesù che Maria. È fedele ai riti religiosi e adempie ai suoi impegni civili: partecipa alla cerimonia della circoncisione; si reca a Gerusalemme per festeggiare la Pasqua ossia la Pèsach celebrata in ricordo del passaggio di Mosè attraverso il Mare Rosso; si sposta a Betlemme per rispondere al censimento stabilito dall’imperatore Augusto. Tuttavia, nel suo comportamento, certe mosse appaiono in contrasto con la mentalità del suo tempo. Non sono forse sorprendenti le sue reazioni quando torna a Gerusalemme insieme a Maria alla ricerca di Gesù? Avendo finalmente ritrovato l’amato figlio, lascia alla donna la libera espressione del rimprovero: “Figlio, perché ci hai fatto così? Vedi, tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di Te!” Ci si aspetterebbe un intervento da parte del capofamiglia; sarebbe nell’ordine istituito che parlasse lui al posto di lei. Giuseppe, persona sprovveduta e debole? Percepisco qualcos’altro: una coppia stretta da un legame paritario, un’assenza di gerarchia fra i due, nessun predominio del marito sulla moglie. Giuseppe intrattiene un rapporto di uguaglianza con Maria. In seguito, la risposta insolente e ribelle di Gesù dodicenne non scatena una reazione violenta da parte sua: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre?” Invece di ribattere, di infuriarsi, Giuseppe tace. Di nuovo sorge il dubbio quanto alla sua forza di carattere. Ma se quest’apparente mancanza di polso denotasse in realtà una grande saggezza e sensibilità? Evita lo scontro perché vuole lasciare al figlio l’opportunità di vivere delle esperienze nuove. Anche se non capisce la via che imbocca, non ostacola le sue scelte, non usa la sua supremazia di adulto per costringerlo a cambiare indirizzo, a seguire una direzione imposta. Sa che gli scontri e la violenza non conducono a nessuna soluzione durevole ma avvelenano le situazioni difficili. Giuseppe trasmette un messaggio di pace. Il suo ritratto è quello di un uomo che incarna la pietas degli antichi, l’umanesimo rinascimentale, i valori sacrosanti dell’intera umanità: l’uguaglianza, la misericordia, la giustizia, la solidarietà e la pace.
Per me, è giunto il tempo di sostituire la statuina di creta del presepe con il dipinto affascinante del pittore bolognese Guido Reni, di cui solo ora capisco la portata. Un anno fa, al Museo Diocesano di Milano, ero rimasta interdetta davanti alla figura del santo con in braccio il Bambino. L’intensità degli sguardi e l’atteggiamento dolce e tenero dell’uomo che aveva preso il posto solitamente riservato a Maria, mi avevano colpita.
Giuseppe Nibbi
Ma i Giuseppe dell’Antico e del Nuovo Testamento non eclissano il Giuseppe dei giorni nostri: il prof della Scuola Antibagno. Giuseppe Nibbi si autodefinisce “manovale dell’apprendistato cognitivo” ma in realtà, è un architetto geniale che, a prezzo di un lavoro incessante, ha edificato una poderosa struttura solida come la roccia. Opera sotto traccia con mezzi elementari, rifiutando la luce forviante e subdola dei proiettori mediatici che trascinano in una corsa alla notorietà e fanno presto dimenticare gli obiettivi di partenza. Da quando si è lanciato nell’avventura, trentasei anni fa, il suo scopo è invariato: formare delle “teste ben fatte” capaci di eludere i discorsi populisti e irremovibili nel sostenere i valori umani che permettono di convivere con dignità. Lotta senza tregua contro l’ignoranza, il virus che mantiene il cervello allo stato embrionale. Sa che l’analfabetismo è una talpa che non solo alloggia nelle “teste vuote” ma si ciba delle “teste troppo piene” di informazioni-spazzatura. La sua determinazione ad alfabetizzare non crolla davanti alla pandemia. Non si arrende. L’emergenza Covid l’ha costretto ad abbandonare la via maestra ma ci guida su un sentiero che serpeggia poco lontano, in attesa di ricondurci sulla strada principale. Fra le sue mani, lo slogan dell’Unesco “Nessuna democrazia senza alfabeto” non è lettera morta. Questa verità non va soltanto enunciata, bisogna attuare provvedimenti al livello mondiale, costruire una rete d’alfabetizzazione anche per gli adulti. Giuseppe agisce tramite un programma efficace. Il suo metodo funziona: arricchisce. Ricco, non lo è chi si circonda di beni materiali; è ricco chi sa di sapere poco e vuole allargare la propria vita con lo studio e la riflessione.
Tafano contro la società di consumo, il prof Nibbi diventa un’ape per la sua Scuola, quello spazio gratuito e aperto a tutti. Un luogo per i giovani e meno giovani, per gli italiani e gli stranieri, per tutti quelli volenterosi d'imparare, curiosi di conoscere le parole-chiave e di capire le idee-cardine del Pensiero Umano. Frequentare l’arnia di Giuseppe, è coltivare la volontà di bottinare nel vasto campo fiorito della Letteratura; è accendere e tener acceso il desiderio di produrre un po’ di miele, ossia di sdraiare qualche frase sul foglio per sintetizzare un pensiero. È apertura al mondo.
Giuseppe significa “Che aggiunge” e il prof è un “accrescitore di intelligenza”. Se non avessi frequentato la sua Scuola, non avrei mai aperto la Bibbia; non sarei stata in grado di scrivere queste pagine e di cogliere le coincidenze letterarie che ho elencato all’inizio del mio scritto.
Gennaio 2021
Joëlle