C’è una lampada…
Nel prologo del Vangelo secondo Giovanni sono usate due parole greche diverse per nominare la luce: “Phõs” e “Lampàs”. Questa singolarità del testo è rilevata nel XIII secolo dall’intellettuale francescano Roberto Grossatesta, traduttore attento delle Sacre Scritture dal greco al latino. Secondo lui, “Phõs” vuole indicare il carattere materiale della luce giacché primo oggetto corporeo creato da Dio, mentre “Lampàs” illustra il suo aspetto spirituale: la luce è il Bene in lotta contro le potenze del Male, ossia le Tenebre. Così “Lampàs” assume nel prologo un valore simbolico. I greci applicavano questo vocabolo a ogni cosa che splendeva o faceva luce e in particolare a una fiaccola portata da dei giovani durante una corsa chiamata appunto “Corsa delle lampade”. Il vincitore era quello che giungeva al traguardo prima degli altri con la sua torcia ancora accesa. Oggi abbiamo scelto il termine “lampada” per classificare numerosi apparecchi che producono luce.
L’elettricità è finora la maggiore fonte di energia. Il suo sfruttamento ha reso possibile le telecomunicazioni ma anche il funzionamento di tanti oggetti che sono utilissimi nella nostra vita quotidiana. Grazie a essa, possiamo usufruire del frigorifero, dell’aspiratore, del forno, della lavatrice (la lista sarebbe lunga) e ovviamente di una luce artificiale comodissima e versatile. Fuori è buio; si entra in casa, si preme senza pensarci l’interruttore e come per incanto, il nostro ambiente s’illumina. Un semplice “clic”, il gioco è fatto! Le lampade sono ovunque: sospese dall’alto o sorrette dal basso, appoggiate sul comodino o sulla scrivania.
Nel mio appartamento ho censito più di venti punti luce. Solo in cucina ne sono presenti quattro: uno sopra l’acquaio, uno sopra i fornelli, uno appeso al soffitto, uno fissato al muro. I primi due risultano di grande aiuto nello sciacquare le stoviglie o nel sorvegliare le pentole sul fuoco. Ne va diversamente per la lampada appesa in mezzo alla cucina; per me, rimane un oggetto puramente estetico poiché non lo accendo quasi mai. È di un bell’effetto: scende dall’alto come una grande calla rovesciata e panciuta ma diffonde una luce troppo potente. Mi serve unicamente nei momenti di emergenza quando non posso farne a meno, quando ho bisogno di una forte illuminazione. Di gran lungo mi piace di più la modesta applique attaccata nell’angolo della parete vicino alla tavola. Si nota appena quando è spenta. L’accendo al calare della notte. Illumina in modo gentile e garbato. È bianca, a forma di triangolo ondulato, alta giusto il necessario per nascondere, come un umile paravento, la lampadina che sta dietro. Mi regala una luce dolce e riposante. Quando mangiamo, ci avvolge in un’atmosfera calda e intima. Diffonde un chiarore benevolo e non un bagliore aggressivo come quello di un ospedale o di un ufficio. Sì, è la mia preferita!
Strano come il mio atteggiamento sia diametralmente opposto quando si tratta della luce naturale. Più è intensa e più mi piace. Sarà forse dovuto a una carenza di sole accumulata durante tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Ho abitato in Bretagna e quindi sopportato una regione piovosa e piuttosto fredda. Da ragazza sognavo di andare a vivere in Provenza. Non avrei mai immaginato di oltrepassare le Alpi per stabilirmi in questa stupenda Toscana. I raggi solari mi stimolano, mi trasmettono allegria, accendono il mio buon umore. Di rado abbasso le tende quando il sole penetra in cucina. Non cerco di fermare la sua intrusione perché apprezzo la sua pacifica invasione.