È ora di sirena! Parte 2
II/ MARE DELLA GRECIA
Omero: Odissea (ΟΔΥΣΣΕΙΑ)
Il poema epico Odissea, che risale agli ultimi decenni del VIII secolo a.C., racconta il nostos di Odysseús ossia, il viaggio di ritorno d’Ulisse. Un viaggio lungo dieci anni, carico di sfide, che riporta l’eroe greco da Troia sulla costa nord-occidentale dell’attuale Turchia a Itaca, l’isola più piccola dell’arcipelago delle Ionie, situata in prossimità della costa sud-ovest della Grecia continentale e vicinissima all’isola di Cefalonia.
Nel Libro XII dell’Odissea troviamo Ulisse alle prese con le Sirene.
Dopo essersi attardato un anno nell’isola di Eèa (Άιαίη) presso la dea-maga Circe, sorella di Eeto (padre di Medea), Ulisse riprende la navigazione in compagnia del suo equipaggio. Parte all’alba, ottimamente ragguagliato dalla sua amante divina: la sera prima Circe gli ha prodigato ammonimenti utili a superare i molti pericoli in agguato sulla rotta. Innanzitutto dovrà schivare la subdola trappola acustica tesa ai naviganti del Mediterraneo dalle Sirene ovvero, non dovrà cedere al micidiale richiamo delle Seirênes (Σειρήνες)
“Dapprima giungerai dove sono le Sirene, che ammaliano
tutti gli uomini, chiunque sia che da loro arrivi.
Chiunque, non sapendo, a loro si accosti e oda la voce
delle Sirene, mai più ritorna a casa, né giulivi
la moglie e i teneri figli gli si mettono accanto.
Le Sirene lo ammaliano con il loro canto armonioso
stando in un prato. Intorno c’è un gran mucchio di ossa
di uomini in putrefazione: sulle ossa si disfa la pelle.”
(Odissea, XII, vv. 39-46 – Traduzione a cura di Vincenzo Di Benedetto)
Seguendo i consigli della maga, quando giunge vicino all’isola delle Sirene, forse da collocare nel Golfo di Salerno, comunque sulla traiettoria tra il Promontorio del Circeo e lo Stretto di Messina (Scilla e Cariddi), l’eroe si premura di turare le orecchie dei suoi compagni con della cera ammorbidita, così da sottrarli all’incantesimo. Egli invece, per soddisfare la sua brama di conoscenza, si fa saldamente legare all’albero maestro. Vuole ascoltare le Sirene senza correre il rischio di essere irretito dalla loro voce e di finire tra le loro grinfie.
“Su, vieni qui, molto famoso Ulisse, grande vanto degli Achei:
arresta la nave perché tu possa udire la nostra voce.
Ancora nessuno è passato di qui con una nera nave
senza aver ascoltato dalle nostre bocche la voce melodiosa:
e quando poi va via, diletto ha fruito e conosce più cose.
Noi sappiamo tutto ciò che nell’ampia piana di Troia
gli Argivi e i Troiani soffrirono per volontà degli dèi:
noi sappiamo tutto ciò che avviene sulla terra nutrice di genti.”
(Odissea, XII, vv 184-191 – Traduzione a cura di Vincenzo Di Benedetto)
Quando si è insaziabili di conoscenza, come lo è Ulisse, risulta impossibile respingere l’invito ad allargare il proprio sapere. Difatti, l’eroe si dimena per raggiungere le Sirene. Prova invano a svincolarsi dalle funi e con cenni espliciti chiede aiuto ai compagni che, invece di ubbidire alla sua irragionevole richiesta, stringono ancora più forte le corde che lo trattengono, in modo da impedirgli ogni possibilità di fuga. Ma la sua frenesia è veramente da imputare all’incontenibile curiosità che lo caratterizza? E se a scatenare la sua smania fosse piuttosto un ardente desiderio carnale? Il verso “Su, vieni qui, molto famoso Ulisse, grande vanto degli Achei” riecheggia in forma abbozzata il verso del Libro VIII dell’Odissea in cui Ares invita Afrodite a unirsi con lui: “Qui, cara, vieni nel letto e distesi insieme godiamo”. Questa interpretazione erotica trova un solido punto a favore nel precedente canto. In effetti, nel Libro XI dell’Odissea Ulisse si reca nell’Ade, il mondo dei defunti, e riceve, da parte delle anime di Tiresia l’indovino e di sua madre Anticlea, risposte esaustive alle domande che si pone. Tiresia gli predice che tornerà a casa e gli spiattella l’errore da evitare per poterci tornare insieme ai compagni. Gli anticipa la situazione incresciosa che troverà a Itaca. Gli svela perfino che morirà a un’età avanzata di una morte mite in mezzo al suo popolo, in un clima di pace. Ebbene, dacché ha soddisfatto la sua curiosità sui fatti umani, non ha nessun interesse a seguire le Sirene. Sarebbe ascoltare cose che già sa e mettere a repentaglio la sua vita senza motivo.
Da dove proviene la malia? Dalle inflessioni, dal timbro della voce. Siamo in un registro che s’iscrive prima della parola, prima del logos, nella sfera animalesca. Siamo di fronte a un’attrazione immediata legata all’istinto, che quindi non passa dall’intelletto, ma che non nasce neanche dalla vista o dall’olfatto. La malia, che opera a distanza, agisce sull’udito dei marinai. È la voce della seduzione che contrariamente a ciò che di solito accade nel regno animale, non viene emessa dalla parte maschile ma da quella femminile. Tra gli uccelli, non è forse il maschio che canta per sedurre? I resti umani cosparsi sull’isola rendono conto della pericolosità delle Sirene ma del loro aspetto fisico non sappiamo niente. Omero le valuta quantitativamente senza precisarne il nome; le presenta come un binomio anonimo.
“E intanto la nave ben fatta giunse veloce
all’isola delle due Sirene: vento favorevole la spingeva”
(Odissea, XII, vv 166-167 – Traduzione a cura di Vincenzo Di Benedetto)
Quando nel penultimo canto, il Libro XXIII dell’Odissea, Ulisse narra a Penelope le prove che ha dovuto affrontare nel corso del suo viaggio, concentra l’episodio delle Sirene in una manciata di parole: Ulisse narrò… “e come delle Sirene canore udì la voce” (Odissea, XXIII, v 326). L’eroe parla di voce ma di corpo, neppure l’ombra. Le Sirene, le avrà viste o solo sentite?
Per saperne di più su queste mitiche creature marine e scoprire come le raffiguravano gli antichi greci, andiamo a consultare un’altra opera letteraria dell’Antichità nella quale l’autore si dimostra al riguardo meno avaro di dettagli del poeta dell’Odissea.
Apollonio Rodio: Argonautiche (ΑΡΓΟΝΑΥΤΙΚΑ)
Come Odissea, il poema Argonautiche ha per protagonista un eroe greco che insieme ai suoi compagni affronta un viaggio avventuroso a bordo di una nave. Tuttavia, in questo caso, non è un nostos (νόστος) giacché l’obiettivo dichiarato del viaggio non è il ritorno a casa. L’intento è diverso. La navigazione inizia in senso contrario rispetto a quella intrapresa da Ulisse: dal luogo natio in direzione di territori stranieri. Dal conosciuto verso l’ignoto: è una poreia (πορεία).
Questo poema in quattro libri viene composto nel III secolo a.C. dall’erudito alessandrino Apollonio Rodio. Il poeta ellenista riprende un mito preesistente all’Odissea, quello degli Argonauti. La sua originalità non risiede quindi nella storia esposta ma bensì nell’uso di una scrittura innovativa che indaga la psicologia dei personaggi, che restituisce loro un arcobaleno di sentimenti. Si discosta dall’epica omerica in quanto umanizza gli eroi scegliendo di dipingere insieme alle loro azioni gloriose, le loro turbolenze affettive.
Argonautiche riporta le avventure del valoroso equipaggio della nave Argo che sotto il comando di Giasone fa rotta verso il Mar Nero alla conquista del Vello d’oro, una pelliccia dalle virtù talismaniche. La vicenda interessa la generazione precedente a quella della spedizione contro Troia. A titolo d’esempio, fra i naviganti ci sono Peleo, padre di Achille e Laerte, padre di Ulisse. Questo racconto era molto diffuso nell’intera Grecia. Omero lo conosceva bene. Nel Libro X dell’Odissea menziona la fonte Artacia, località che appartiene al mito degli Argonauti. Orbene, non ci deve stupire se, nell’Odissea, non accenna all’aspetto esteriore delle ninfe del mare visto che le Sirene erano note a tutti; non importava entrare nei particolari. Nel mito degli Argonauti erano presenti e non si nascondeva la loro origine. Ecco come ce le descrive Apollonio nel Libro IV delle Argonautiche:
“La brezza favorevole spingeva la nave, e ben presto avvistarono
la splendida Antemoessa, isola in cui le canore sirene,
figlie dell’Acheloo, annientavano chiunque
vi approdasse, ammaliandolo coi loro dolci canti.
La bella Tersicore, una delle Muse, le aveva generate
dopo essersi unita all’Acheloo; un tempo erano ancelle
della potente figlia di Deo, quando ancora era vergine,
e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte
simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli.
Sempre appostate su una rupe munita di buoni approdi,
avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno,
consumandoli nello struggimento. Anche per gli eroi
effusero senza ritegno le loro voci, soavi come gigli,
ed essi già stavano per gettare gli ormeggi sulla spiaggia:
ma il Tracio Orfeo, figlio di Eagro, tendendo la cetra
Bistonia con le sue mani, fece suonare le note allegre
di una canzone dal ritmo veloce, affinché il suono
sovrapposto della sua musica rimbombasse nelle loro
orecchie. La cetra vinse la voce delle fanciulle: Zefiro
e insieme le onde sospinsero
la nave, e il loro canto si fece un suono indistinto.”
(Argonautiche, IV, vv 890-912 – Traduzione a cura di Alberto Borgogno)
Ecco qua rivelata la forma della sirena greca: un incrocio tra donna e uccello. Di sicuro, rimarrà stranito e incredulo chi si aspettava la donna-pesce! Apollonio Rodio specifica che le Sirene discendono da Acheloo, dio Fiume figlio del titano Oceano, e da Tersicore, Musa protettrice della danza e del canto corale. Lascia intendere che in seguito qualcosa abbia provocato un cambiamento repentino, cioè la trasformazione delle fanciulle in donne-uccelli, ma tace sulle cause della metamorfosi. Ci manca un tassello: perché le figlie di Acheloo e Tersicore, in origine ancelle di Persefone (figlia di Deo), sono diventate poi donne-uccelli? Ovidio ci aiuta a colmare il vuoto. Nel Libro V delle Metamorfosi (inizio I sec. d.C.) il poeta latino offre una delucidazione. Quando Persefone scomparve allorché stava cogliendo dei fiori, trascinata da Ade nel mondo dell’Oltretomba, le sue compagne la cercarono ovunque sulla terraferma. Disperate di non trovarla, chiesero agli dèi un corpo d’uccello in modo da poter sorvolare il mare e intensificare la loro perlustrazione.
Per merito di Orfeo, gli Argonauti escono incolumi dal loro incontro con le ambigue Acheloidi. La musica incalzante e vivace del poeta tracio, figlio del Re Eagro (o di Apollo) e della Musa Calliope, sovrasta la voce soave e ipnotica delle Sirene. Davanti all’isola, Orfeo baldanzoso esegue una giga indiavolata col suo violino… Ma che dico? La mia immaginazione sta scodellando un bel po’ di anacronismi… Siamo nella Grecia antica, no nell’Irlanda del Seicento. Lo strumento non è il violino ma la cetra. La χιθάρα, così la chiamavano gli antichi greci, è un cordofono a pizzico. Assomiglia alla lira (λύρα) tuttavia la sua struttura più complessa e le sue maggiori dimensioni accrescono le potenzialità musicali e permettono di produrre un suono caldo, ricchissimo di tonalità. La cassa armonica sorregge due bracci verticali curvi, anch’essi vuoti, che in alto sono uniti per mezzo di un’assicella. Le corde di budello tese tra la piccola traversa di legno e la parte inferiore della cassa vibrano sotto l’azione diretta delle dita o mediante un plettro. Attributo per eccellenza di Apollo, la cetra s’innalzava a emblema dell’armonia del mondo, della temperanza e della razionalità, in nitido contrasto con i chiassosi strumenti a fiato grezzi e umili. A volere sfidare Apollo in una gara musicale, l’avventato satiro Marsia ci rimise la pelle. Il raffinato strumento a corde del dio citaredo sconfisse il suo rustico flauto frigio, il suo aulos (αύλός) dal suono acuto e penetrante, tanto caro a Dioniso e alla dea Cibele. Immediata e crudele fu la punizione inflittagli dal dio della Luce e della Musica: per castigare la sua spavalderia, Apollo lo appese a un albero e si dilettò a scuoiarlo vivo.
La cetra fra le braccia, Orfeo gareggia con le sirene e vince la sfida. La posta in gioco è alta: salvare l’equipaggio della nave Argo. Certo, pur Ulisse esce vittorioso dall’incontro con le Sirene, però senza entrare in competizione con esse: resiste al canto in modo passivo, contrastato nei suoi movimenti da delle funi. Orfeo, invece, vince in modo attivo: usa la sua cetra e il suo virtuosismo per tramortire le Sirene e rendere inoperanti le loro ammalianti voci. Se non fosse stato capace di neutralizzarle, a quale morte sarebbero andati incontro gli Argonauti? Sarebbero morti annegati o avrebbero fatto da cibo alle fanciulle alate? Né l’uno, né l’altro se ci atteniamo a ciò che scrivono Apollonio Rodio e Omero. Mettendo in parallelo i loro versi, possiamo trarre delle informazioni che permettono di elaborare una risposta conclusiva.
Apollonio Rodio: “Avevano privato moltissimi uomini della gioia del ritorno, consumandoli nello struggimento.”
Omero: “(Chi ascolta) mai più ritorna a casa, né giulivi la moglie e i teneri figli gli si mettono accanto. Le Sirene…stando in un prato. Intorno c’è un gran mucchio di ossa di uomini in putrefazione: sulle ossa si disfa la pelle.”
Qui non si parla di annegamenti o di mangiatrici di uomini. E le “ossa di uomini in putrefazione” non sono forse prove tangibili? Giustappunto! Se c’è carne putrefatta vuol dire che non è stata divorata. Quando i naviganti annegano, i loro cadaveri possono al più arenarsi sulla spiaggia; non raggiungeranno mai il prato. I due poeta affermano all’unisono, Apollonio Rodio in maniera meno cruda, che nessun viaggiatore ritorna a casa dopo aver ascoltato il canto delle Sirene: incrociarle significa interrompere una volta per tutte il nostos. Quindi, pare lecito ipotizzare che gli uomini, eccitati dalle belle voci sensuali, ormeggino la nave vicino alla battigia e sbarchino sull’isola. Ma appena arrivati, avvertono l’assenza delle Sirene; si accorgono che le loro profferte erano un miraggio sonore. Si fermano allora sul prato, fiaccati da una bramosia sessuale corrosiva e inarrestabile. Privi di cibo e troppo stanchi per riprendere il largo, finiscono per morire di inedia.
La gara musicale tra Apollo e Marsia riproduce il duello acustico tra Orfeo e le Sirene in quanto la cetra esce vittoriosa sia dalla competizione con l’aulos che dallo scontro con le voci femminili. Fuor di metafora, in tutti e due i casi, assistiamo al trionfo della razionalità sull’impulso erotico. Ci viene esemplificato il controllo che la mente può esercitare sulle mosse istintive del corpo. Nel paragone, Apollo si sostituisce a Orfeo e la figura del Satiro si sovrappone a quella delle Sirene: la luce della ragione osteggia il buio dell’irrazionalità e dell’istinto. In fondo, questi due episodi mitologici echeggiano una trafila religiosa e culturale in cui l’arcaico culto orgiastico di Dioniso ha ceduto il passo a un nuovo culto meno violento, quello orfico, che è stato poi esautorato dal culto apollineo. Il culto di Orfeo era sorto dalla terra feconda dei campi della Tracia. Quello di Apollo spuntato sulla brulla terra dell’isola di Delo, pur imitando il culto di Orfeo, voleva affermarsi come culto della città-Stato greca cioè, della polis, e mirava a insabbiare le sue rustiche origini. Anche se i cittadini tentavano di ignorare l’orfismo, la voce di Apollo che risuonava tra le mura della città ne era il proseguimento. La cultura apollinea trae la sua linfa primordiale dagli inni orfici, si innesta sul canto di Orfeo. Una particolare scelta genealogica fa capire la volontà dei greci di occultare il ruolo fondante dell’orfismo nella loro società; palesa il loro desiderio di mettere a tacere il richiamo rurale, profondo e determinante della cultura orfica. In effetti, il mito inverte i dati storici: Apollo è presentato come padre di Orfeo quando, di fatto, il culto apollineo nasce da quello orfico e a rigor di logica, Apollo dovrebbe essere figlio di Orfeo.
Le Sirene sono pericolose e crudeli come lo possiamo essere noi quando diamo libero corso alle nostre passioni, quando lasciamo i nostri impulsi animali galoppare a briglia sciolta. Le Sirene, come le Menadi dionisiache, sono parte di noi e rappresentano il nostro lato sensuale, istintuale, indomito. Non sono da confondere con le Arpie: benché il loro aspetto fisico sia equiparabile, il loro comportamento è differente. Le Arpie, “le rapitrici”, non attraggono; sono di natura rapace e attaccano. Somministrano punizioni su ordine degli dèi. Così nelle Argonautiche infliggono un terribile castigo all’indovino cieco Fineo: ogni volta che si appresta a mangiare, esse piombano dal cielo per sottrargli il cibo o, peggio ancora, glielo guastano con i loro pestilenziali escrementi.
Diversamente da Apollonio Rodio, il poeta greco Licofrone di Calcide (anch’egli del III sec. a.C.) non fa mistero del numero e del nome delle Sirene. In Alessandra, unica opera sua pervenutaci, ne menziona tre e le nomina singolarmente: Partenope, Leucosia e Ligeia (o Lighea). Le fa discendere da Acheloo e da Melpomene (la Musa che canta) e le colloca su tre isolette presso Sorrento. Racconta che muoiono dopo essersi lanciate nel Tirreno dall’alto di una rupe. Il corpo galleggiante di Partenope è avvistato nei pressi di Napoli; i flutti trasportano Leucosia vicino a Paestum; le onde accompagnano Ligeia fino a Terina (attuale Sant’Eufemia d’Aspromonte sulla costa calabrese). Ma per quale motivo si sono catapultate nel mare? Inutile cercare chiarimenti da parte del poeta che usa uno stile complicato e sceglie metafore oscure per comporre in 1474 versi i funesti e interminabili vaticini di Alessandra, figlia di Priamo, meglio conosciuta come “la profetessa Cassandra”. Quindi non contiamo su di lui per capire il gesto estremo delle Sirene. Forse il suicidio era il prezzo da pagare in caso di sconfitta e la sconfitta c’è stata: difatti, esse hanno perso la gara con Orfeo e non sono riuscite a immobilizzare la nave Argo. A questo punto si affaccia un’altra domanda: se si sono ammazzate dopo il passaggio degli Argonauti, come mai sono ancora vive quando giunge la nave di Ulisse? Nella selva mitologica, i sentieri serpeggiano, s’incrociano, si cancellano, si riformano, si sdoppiano… Nel labirinto dei miti, le sirene possono eclissarsi per poi riapparire ma non muoiono mai. Le sirene non si estinguono; si trasformano. Continua…