È ora di sirena! Parte 5

V/ MARE DELL’IMMORTALITÀ

 

Lighea dà un volto al Mediterraneo. In Lighea confluiscono i cinque nomi del mare greco: Hals, Thalàssa, Pòntos, Kòlpos e Pélagos.

Lighea: i cinque aspetti del mare

1.      Hals (Άλς)

Hals è il sale che rende il mare imbevibile ma tutt’altro che infecondo. Hals è la distesa marina caratterizzata dalla presenza di cloruro di sodio che si contrappone all’acqua dolce dei fiumi, dei laghi e delle sorgenti. Dal mare, brodo naturale nel quale si sviluppa una prosperosa vita vegetale e animale, l’uomo estrae sale, pesce, alghe, corallo…

Hals è materia inerte fatta d’acqua e di sale, contenitrice di materia viva; è oggetto di studio dello scienziato che ne analizza gli elementi fisici e biologici. Hals è fonte di nutrimento e di ricchezza: Lighea ne ricava sia cibo che oggetti di pura bellezza. In proposito Rosario La Ciura racconta: “Spesso la vedevo emergere dal mare, il torso delicato luccicante al sole, mentre straziava coi denti un pesce argentato che fremeva ancora…Di quando in quando veniva a riva con le mani piene di ostriche, di cozze” e aggiunge che una volta ricevette da lei un dono prezioso: “Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.

In Hals crescono i ricci di mare che, secondo Rosario, devono essere consumati in purezza, semplicemente spaccati a metà senza spruzzata di limone; il riccio il cui interno invita all’erotismo: “quelle cartilagini sanguine, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe.”

Hals sono le saline di Trapani e Paceco, quelle di Mozia sull’isola di San Pantaleo, la salina di Marsala…

Hals sono le squame fosforescenti di Lighea, i suoi denti acuminati, il suo profumo pungente e selvatico, la sua pinna bifida.

 

2.      Thalàssa (Θαλάσσα)

Talassa è un luogo di sfide. È lo spazio solcato dalle imbarcazioni dove il marinaio greco si misura con la coppia acqua-vento e sta alle prese con le difficoltà della navigazione, dove uno sbaglio di valutazione o un errore di manovra può aver conseguenze disastrose e costare la vita a un intero equipaggio. Gli individui presenti sulla nave sono una piccola comunità costretta ad affrontare i pericoli e gli imprevisti da sola, isolata come è, su un legno che si muove in un deserto liquido.

Talassa è il mondo degli abissi. Quando in esso avviene il passaggio dalla vita alla morte, è sinonimo di luogo di non ritorno. Diventa allora sepolcro per gli annegati i cui corpi scendono come otre e si afflosciano sul fondo sabbioso. In mare, la sciagura o il suicidio trascina l’uomo in un mondo silenzioso e fosco e lo fa scomparire sotto un pesante sudario salato. Risalendo dalle profondità, Lighea arriva in superficie per offrire il suo sorriso e la sua presenza al suicida o al naufrago, per addolcire il suo funesto transito, “per mutare in piacere il suo ultimo rantolo.”

Thalassa inghiottisce La Ciura una notte di primavera del 1939: il senatore, imbarcatosi a Genova e diretto in Portogallo per assistere in quanto membro del comitato d’onore a un congresso di studi greci, cade “dalla coperta del Rex che navigava verso Napoli”; il suo corpo non sarà mai ritrovato. L’estro narrativo di Lampedusa ricopre sotto fittizie vesti un fatto misterioso realmente accaduto nell’anno precedente la Seconda Guerra Mondiale: la scomparsa del giovane catanese Ettore Majorana. Alla fine di marzo 1938 si persero per sempre le tracce del geniale fisico trentunenne che, partito da Palermo a bordo di uno piroscafo, sarebbe dovuto sbarcare a Napoli.

 

3.      Pòntos (Ρόντος)

Ponto è il tratto di mare che unisce, il sentiero marino che collega un luogo a un altro. Da questo antico nome greco deriva forse il nostro “ponte”. Fa riferimento a un tracciato collaudato e quindi presuppone una navigazione meno avventurosa. “Ellesponto” (letteralmente “mare di Elle”), come veniva chiamato lo stretto dei Dardanelli, è un corridoio di acqua salata lungo circa 50 km che collega il mar di Marmara all’Egeo. Il “Ponto Eusino” (letteralmente “mare ospitale”) oggi Mar Nero, dopo l’insediamento di centri ionici sulle sue coste, fu sede di un attivo traffico commerciale con Atene.

Ponto, lo è Lighea nel momento in cui raggiunge Rosario sulla sua imbarcazione; diventa collegamento fra la riva e la barca: “Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra, dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire.” È Ponto anche Rosario quando, con Lighea in collo, attraversa la striscia di mare che lo separa dalla spiaggia.

 

4.      Kòlpos (Κόλπος)

Kolpo è il golfo; il mare che avanza entro la terraferma, creando intorno a sé un anello aperto e irregolare. Ma il termine è polisemico: designa anche l’utero e il seno. Ha una connotazione tutto al femminile; evoca insieme la protezione del grembo materno e la sensualità. In italiano, entra in gioco un meccanismo analogo per la parola “insenatura” la cui formazione deriva da “seno”.

Lighea è al contempo l’acqua maliosa e cangiante del “golfetto interno” di Augusta e la carne desiderabile di un giovane corpo di donna: “Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto…”

 

5.      Pèlagos (Ρέλαγος)

Nel Pelago si specchia il cielo. Pelago è la distesa marina che si fa palcoscenico; è la piattaforma naturale dove si esibiscono le divinità. È dalla superficie marina che Lighea è apparsa per la prima volta a Rosario. La Sirena di Lampedusa, balzata fuori dal mare, è un essere sul quale il tempo non ha presa. Si sottrae alla vecchiaia e non sarà sottoposta all’imputridimento della carne poiché rimane un’adolescente “millenaria” che non va incontro alla morte. All’opposto, la bellezza dell’uomo è caduca e solo apparente; la sua sessualità è un povero inganno che per un tempo gli offusca la natura tragicamente effimera della sua esistenza. Le esclamazioni ammirative del giovane Corbera nei confronti delle sue amanti “erano pezzi di figliuole magnifiche, ed eleganti anche” vengono troncate senza mezzi termini dal vecchio La Ciura “Fra cinquanta, sessanta anni, forse molto prima, creperanno; quindi sono fin da ora ammalate. E squallide anche: bella eleganza, quella loro, fatta di cianfrusaglie, di ‘pullover’ rubati e di moinette apprese al cinema.” Per il Senatore, il sollazzo amoroso fra esseri umani non è altro che lo “sbaciucchiarsi di future carcasse fra lenzuola pregne dal “lezzo di cadavere”. In questo, il cinismo di La Ciura fa eco a quello di don Fabrizio quando osserva in silenzio la coppia innamorata Tancredi-Angelica che vortica a suono di musica sul pavimento di palazzo Ponteleone: erano due “attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione.” Ciononostante, il Principe non è implacabile come il Senatore poiché s’intenerisce al pensiero che il genere umano si merita più compassione che disprezzo dato che non sfugge alla triste sorte dell’intero regno animale: “gli uomini sono come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello…Non era lecito odiare altro che l’eternità.” In fondo, l’uomo non è niente di più che uno dei tanti animali che popolano il pianeta, tutti senza eccezione travolti da un funesto destino, tutti allo stesso modo fragili. L’uomo non usufruisce di nessun trattamento speciale; per poco che ci rifletta, si rende conto di essere effimero e di vivere in uno stato di sempiterna precarietà. È una povera bestia. Diversamente dal Senatore che rigetta la decadente tribù degli uomini, il Principe non prova avversione per i suoi simili; osserva con spirito critico e saggia indulgenza i loro comportamenti.

 

Lampedusa: riflessioni sulla morte

Il destino dell’uomo non differisce da quello di tutti i viventi: è segnato dalla morte. Tuttavia, salta fuori una dissomiglianza: contrariamente agli altri viventi, l’uomo è consapevole di dover morire. Nell’analizzare l’opposizione giorno-notte, la periodicità delle fasi lunari, l’alternarsi regolare delle stagioni, ha intuito che il suo ambiente è sottoposto a dei ritmi e che segue dei cicli. Si è accorto che le incessanti trasformazioni della natura dipendono da un accavallarsi ininterrotto di nascite e di decadimenti, che nel mondo gli organismi nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Ha inteso che la regola è ineluttabile e, cioè, che vale anche per lui: non può procedere all’infinito perché un giorno o l’altro gli tocca andare a sbattere contro un ostacolo invalicabile. Ha capito di non avere scampo; sa di essere mortale.

1.      La catena alimentare: crudeltà apparente

Ogni essere vivente si nutre e diventa egli stesso nutrimento. In quanto incontrastati predatori (per molto tempo, siamo stati anche prede) ci crediamo l’ultimo anello della catena alimentare mentre, invece, a chiudere le danze sono piccolissimi organismi che decompongono resti animali o vegetali.

Quando un carnivoro ammazza un erbivoro per cibarsene, quando un pesce uccide un altro pesce per nutrirsi, segue il suo istinto di conservazione; agli animali rimangono estranei i concetti di bene e di male; le bestie non sono né benigni, né maligni. Solo l’uomo è in grado di giudicare le sue azioni, di sentirsene responsabile e di sviluppare un senso di colpa: così, per evitare di uccidere animali, è capace di escludere la carne dalla sua dieta e di farsi vegetariano.

Ne La sirena, impossibile scordarsi la scena di Lighea con i pesci: Lampedusa ci descrive il predatore nell’atto di divorare la sua preda. “Essa non mangiava che roba viva: spesso la vedevo emergere dal mare, il torso delicato luccicante al sole, mentre straziava coi denti un pesce argentato che fremeva ancora; il sangue le rigava il mento e dopo qualche morso il merluzzo o l’orata maciullata venivano ributtati dietro le sue spalle e, maculandola di rosso, affondavano nell’acqua mentre essa infantilmente gridava nettandosi i denti con la lingua.” La sirena obbedisce a una legge naturale; è una bestia che si nutre di altre bestie, è un “grosso pesce” che addenta un pesce più piccolo. È l’inarrestabile compimento del ciclo alimentare. Il fatto non ci dovrebbe suscitare ribrezzo e invece proviamo un senso di repulsione perché graviamo la scena dal principio morale del non uccidere. È come se il sangue fresco sul viso di Lighea fosse il marchio di un furore omicida e che di colpo la sirena assumesse il ruolo di una sadica assassina.

A mente fredda, mangiare non è un crimine ma una necessità fisiologica. Eppure, a caldo, l’animale straziato e i suoi ultimi fremiti ci lasciano il tragico sapore di un’ingiusta condanna. Con una precisazione enigmatica, Lampedusa si affretta a mitigare il comportamento bestiale di Lighea con un atteggiamento divino. In effetti, subito dopo averci dipinto l’episodio cruento dei pesci sbrandellati, inserisce nel suo racconto una scena di grande dolcezza: Rosario offre del vino a Lighea che lo beve come fosse un cagnolino “Una volta le diedi del vino; dal bicchiere le fu impossibile bere, dovetti versargliene nella palma minuscola ed appena appena verdina, ed essa lo bevette facendo schioccare la lingua come fa un cane mentre negli occhi le si dipingeva la sorpresa per quel sapore ignoto. Disse che era buono, ma, dopo, lo rifiutò sempre.” La prima impressione è forviante: tratteggia la figura di un cane che accetta fiducioso ogni dono del padrone. Tuttavia, l’affermazione paradossale dell’ultima frase non consente di inserire Lighea nel regno animale; giacché il vino le è piaciuto, è piuttosto strano e illogico che in seguito si rifiuti sempre di berlo. Il suo anomalo comportamento ci suggerisce di collocarla nella sfera delle divinità. Ma perché? La risposta si nasconde nella mitologia greca. Gli dèi non bevono vino e quindi non si ubriacano. L’ubriachezza è uno stato trasgressivo riservato ai mortali. Benché Dioniso avesse insegnato agli uomini a coltivare la vite e a vinificare, non si portò mai il calice alle labbra come, alla fine del Quattrocento, lo ha raffigurato nel marmo il giovane Michelangelo.

Non ci scandalizza che Rosario vada a pescare, cioè, che vada ad ammazzare dei pesci. “Presi in affitto una barchetta leggera che il pescatore mi portò nel pomeriggio insieme a una nassa e a qualche amo.” Saremmo di sicuro rimasti scioccati se Lampedusa ce lo avesse descritto mentre mangiava la sua preda cruda appena pescata. Eh già… la cottura del cibo fa la differenza tra l’uomo e la bestia. Il nostro “crudele” ha il suo punto d’inizio nel “crudus” latino. “Essa non mangiava che roba viva” dice Rosario parlando di Lighea. La bestia non cuoce la carne, la divora allo stato puro, gocciolante di sangue. La cottura riduce i tempi di masticazione. Oltre a facilitare la digestione e a sterilizzare i nostri alimenti, il fuoco ci ha propulsi in un mondo tutto nostro, quello della cucina. Cuocere il sangue è fermarlo concretamente ma anche metaforicamente: fa passare al secondo piano l’uccisione dell’animale. Cucinare la carne viva “scrudisce” il nostro senso di colpa, trasforma la “crudezza-crudeltà” in “estetica bontà”. Ne Il Gattopardo, l’esposizione scenografica delle carni al buffet dei Ponteleone trasmette in filigrana questo pensiero: “coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate recline su tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere triturate, le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie.” Le stupefacenti invenzioni culinarie soddisfano il nostro occhio e il nostro palato ma nascondono sotto elaborate presentazioni e svariati intingoli, una buona dose di sadismo: sbollentiamo gli animali ancora vivi (aragosta), li alleviamo per sacrificarli ancora giovani (vitello), li ingozziamo con l’imbuto (fegato grasso), li beffiamo privandoli delle loro carcasse (beccacce disossate) e facendo delle loro interiori sminuzzate, accessori ornamentali (viscere triturate).

Ne Il Gattopardo, tra passi memorabili, c’è un dialogo muto che per una manciata di secondi unisce il predatore alla sua preda agonizzante. Questa volta l’azione non si svolge nel mare come nel racconto de La sirena ma sulla terraferma: Fabrizio di Salina e l’amico organista don Ciccio Tumeo stanno cacciando in coppia nella boscaglia odorosa della campagna siciliana. Un coniglio selvatico raggiunto da due fucilate è deposto dal cane Arguto ai piedi del padrone: “Orribili squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato da grandi occhi neri che, invasi rapidamente a un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero, ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di un inutile fuga…” L’ultimo sforzo del coniglio per sfuggire al suo predatore combacia col disperato tentativo del soldato ferito di scappare alla morte: “l’animale moriva torturato da una ansiosa speranza di salvezza, immaginando di potere ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini. Almeno il coniglio intrappolato nell’ingranaggio della catena alimentare, servirà di cibo al cacciatore, ma un soldato, a che scopo muore?

2.      La guerra: vera crudeltà

Non ancora diciannovenne, nel novembre 1915 Lampedusa fu chiamato alle armi: alla chiamata rispose come “volontario di un anno” a Messina. Nominato caporale a primavera 1916, fu trasferito in autunno ad Augusta con la Batteria di “Terre Vecchie” comandata dal tenente Enrico Cardile, poeta simbolista e intellettuale siciliano di spicco. Lì, dove passò alcuni mesi, conobbe il grecista Giulio Emanuele Rizzo, amico di Cardile. A maggio 1917 si spostò a Torino per frequentare il corso Allievi Ufficiali. A settembre fu inviato al Fronte sull’Altopiano di Asiago in qualità di tenente di artiglieria. Catturato l’11 novembre dagli austriaci, fu deportato nel campo di prigionia di Szombathely in Ungheria; dopo un tentativo di fuga abortito, riuscì finalmente ad evadere nel novembre 1918 e a raggiungere Trieste a piedi. Congedatosi dall’Esercito nel febbraio 1920, moltiplicò i viaggi in Italia e in Europa, spesso accompagnato dalla madre. Era un fervido frequentatore di teatri e di sale da concerto; aveva fame di musei, di chiese, di castelli. Era desideroso di immergersi nei luoghi più significativi della letteratura europea. A Londra nel 1925 a casa dello zio ambasciatore Pietro Tomasi della Torretta che lo ospitava nella capitale inglese, fece conoscenza della figliastra di costui, Alessandra Wolff-Stomersee (Licy), donna colta, studiosa di psicanalisi (sarà la prima donna psicanalista in Italia), di carattere forte e indipendente; Giuseppe la sposò nell’agosto 1932 in una chiesa ortodossa di Riga. A Genova collaborò dal 1926 al 1927 alla rivista letteraria bimestrale Le opere e i giorni pubblicando un saggio su Paul Morand nel quale non fa mistero della propria depressione gravata da incubi e insonnia, un altro su William Butler Yeats e un’approfondita recensione al libro del critico e storico tedesco Friedrich Gundolf, Caesar: Geschichte seines Ruhms (Cesare. Storia della sua fama).

Richiamato alle armi nel 1940 quando l’Italia entrò nel secondo conflitto mondiale, prestò soltanto tre mesi di servizio come capitano nella zona di Poggioreale perché fu presto dimesso in quanto capo dell’azienda agricola ereditata dal padre nel 1934. L’intensificazione dei bombardamenti su Palermo lo spinse nel dicembre 1942 a cercare rifugio insieme alla madre presso gli amati cugini Piccolo a Capo d’Orlando in provincia di Messina. Nell’estate del 1943 Licy li venne a raggiungere e si trasferirono in un palazzetto del borgo nebroideo di Ficarra, non troppo distante da Villa Piccolo.

Freddo allinearsi di date in un percorso di vita? Gli accadimenti elencati sopra non sono semplici fatti da convertire in numeri sulla linea del tempo. Il periodo inquadrato contiene elementi preziosi alla comprensione de Il Gattopardo e de La sirena. Quelli anni hanno nutrito la riflessione di Lampedusa sulle conseguenze della guerra e sull’inconfessabile crudeltà dell’uomo verso i suoi simili. In una lettera del 16 febbraio 1943 racconta alla moglie un pomeriggio a Palermo dopo un bombardamento, un pomeriggio ben riuscito per il signor Satana: “Una grande piazza vuota, sotto il più bel sole dell’inverno. Al centro fermo un carro funebre; i quattro cavalli neri accovacciati in un lago di sangue, morti. Il cocchiere con il suo tricorno piumato, riverso sul sedile, con il ventre squarciato, morto. Sul dorso di uno dei cavalli una gamba di bambino, venuta non si sa dove. E non è forse puro Poe vedere un grosso maggiore tedesco correre nella strada con una coperta intrisa di sangue e dentro una bambina di otto anni, orribilmente mutilata che urlava come se l’avessero scorticata (cosa che purtroppo era accaduta). Il sangue colava sui pantaloni dell’ufficiale, grosse lacrime gli sgorgavano dagli occhi, abbracciava la piccola ripetendo continuamente “Non piangere, bambina, non piangere”. I tedeschi sono stati ammirevoli per attività e pietà. Ma quando si vede quello che è successo si ha voglia di sputare sul proprio passaporto di uomo”. D’altronde, un animo sensibile come il suo non poteva passare nella morsa di due guerre mondiali senza conservarne la dolorosa impronta.

Della Grande Guerra e della sua prigionia in Ungheria, Lampedusa lasciò scarsissime testimonianze. Licy confidò ch’egli aveva serbato il progetto di scrivere in proposito ma che non l’aveva portato avanti. In Ricordi d’infanzia, mentre il Principe sta narrando l’episodio che lo ha per sempre schifato dalla caccia, un commento formulato in seconda battuta ci fa intendere il suo stato d’animo durante i combattimenti della Prima Guerra Mondiale. “Fu da uno di questi fucili … che sparai, nel giardino, i primi e gli ultimi colpi della mia carriera cinegetica: uno dei barbuti campieri mi costrinse a sparare contro alcuni innocenti pettirossi; due, sventuratamente, caddero con del sangue sulle tiepide piumette grigie, e poiché palpitavano ancora, il campiere stritolò loro la testa fra le sue dita. Malgrado le mie letture di “Victoires et conquêtes” e “l’épée de l’intrépide général comte Delort rougie du sang des ennemis de l’Empire” questa scena mi fece orrore; il sangue mi piaceva, si vede, soltanto metaforizzato in inchiostro di stampa. Andai diritto da mio Padre, al cui desiderio si doveva questa strage degli Innocenti, e dissi che mai più avrei sparato a nessuno.

Dieci anni dopo dovevo uccidere con una pistolettata un Bosniaco e chissà quanti altri cristiani a cannonate. Ma non ne ebbe il decimo dell’impressione che mi fecero quei due miseri pettirossi.”

Tra il turbamento emotivo indotto dalla soppressione violenta di due uccellini e quello provocato dall’uccisione di un nemico austro-ungarico, l’autore segna una differenza colossale. L’ago della bilancia si sposta vistosamente in direzione del piatto dei pettirossi come se il peso del soldato bosniaco fosse insignificante. Accentuata sensibilità per gli animali e indifferenza per gli uomini? Ripugnanza per la caccia ma accettazione della guerra? Sarebbero deduzioni affrettate. Da ragazzo, Lampedusa aveva ricusato senza appello l’arte venatoria ma più tardi, non si era potuto sottrarre al combattimento. In lui, nessuno slancio bellicoso, nessuno spirito patriotico! Le sue considerazioni sulla guerra sono tutt’altre che positive: è per lui un’attività deleteria che atrofizza le emozioni e scaraventa l’uomo in uno spazio disumano dove, sul campo di battaglia, il nemico non è niente più di un birillo da buttare giù. Confessando la sua quasi impassibilità di fronte alla morte del soldato bosniaco, Lampedusa sottotraccia denuncia: la guerra annienta la coscienza e trasforma l’uomo in un robot programmato a falciare la vita di altri uomini. La guerra non è un’operazione astratta, fatta a tavolino, calibrata e ben ordinata, come la presentano i discorsi tecnici; è uno scontro armato reale senza esclusione di colpi che si svolge sul terreno facendo grondare sangue e lacrime. È un orrendo macello di carne umana; non esistono guerre pulite. L’autore lo dice a chiare lettere nella prima parte de Il Gattopardo mediante la voce del protagonista che cerca di rassicurare la figlia Concetta in pensiero per il cugino Tancredi andato a combattere con i garibaldini: le complicate spiegazioni tecniche del Principe di Salina “erano riuscite a trasformare la guerra in un pulito diagramma di linee di forza da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è.” Ancora prima di questo passaggio, nelle pagine iniziali del romanzo, Lampedusa esemplifica la tragicità e l’assurdità della guerra attraverso la toccante descrizione del giovane militare borbonico venuto a morire sotto un albero di limone nel giardino edenico di villa Salina: “Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto dai formiconi, e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera.

La scena straziante è emblematica: in essa confluiscono sia i soldati che i civili uccisi dal Mostro Guerra la cui forza devastatrice stritola ogni cosa. Il cadavere del giovane del quinto Battaglione Cacciatore ferito dai rivoltosi palermitani nell’aprile 1860 potrebbe essere quello che Lampedusa ha visto nel 1943 durante il suo breve soggiorno a Ficarra sui monti Nebrodi. Un soldato tedesco morto in seguito a uno scontro con gli anglo-americani giaceva sotto un olivo all’entrata del paese e così sarebbe rimasto a lungo se un dipendente filantropo dei cugini Piccolo, don Ciccio Tumeo, non si fosse premurato di offrirgli degna sepoltura. Oggi a Ficarra, sdraiata sotto l’albero simbolo di pace (sfacciata ironia), una statua bronzea ricorda le sembianze e la posizione del soldato tedesco. Il dettaglio “coperto dai formiconi” rinvia alla continua attività di trasformazione della natura, al suo incessante rimescolare la materia. Le formiche sono insetti decompositori; la loro presenza sul cadavere ricolloca l’essere umano sul piano di tutti gli altri animali in quanto semplice anello nella lunga catena alimentare.

Sia detto per inciso, sembra che le formiche abbiano esercitato un potere di fascinazione su Lampedusa giacché le cita a più riprese. Nel terzo capitolo de Il Gattopardo le preoccupazioni del principe di Salina sono paragonate a formiche all’arrembaggio di una lucertola morta. Più avanti nel capitolo, l’occhio entomologico di don Fabrizio stabilisce un parallelo tra il comportamento delle formiche intorno ai chicchi d’uva stantia risputati da don Ciccio e quello di militari lanciati alla conquista di nuovi territori: “le loro fitte schiere accorrevano, esaltate dal desiderio di annettersi quel po’ di marciume intriso di saliva di organista.” Lampedusa immagina gli uomini visti dall’alto come fosse salito sulla mongolfiera di Jean Paul in Giornale di bordo dell’aeronauta Giannozzo. Ma il paragone si spinge oltre; Lo scrittore entra nei particolari. Nella sua descrizione soggiace un riferimento al regime fascista: “poi insieme alle altre riprendevano la marcia verso il prospero avvenire; i dorsi lucidi di quegl’imperialisti sembravano vibrare di entusiasmo e, senza dubbio, al di sopra delle loro file, trasvolavano le note di un inno.” Seppure in modo furtivo e criptico, Lampedusa trova il verso di rammentare le bestiole ne La sirena: il cane boxer del vecchio senatore La Ciura porta il mitologico nome di Eaco, figlio di Zeus e della ninfa Egina. Ma le formiche? Per rappresaglia Era, la gelosa sposa del capo degli dèi olimpi, aveva resa inospitale e disabitata l’isola in cui viveva Eaco. L’infelice giovane, dopo aver chiesto aiuto al suo divino padre, aveva ottenuto da lui che le formiche del posto fossero cambiate in uomini. Diventato re dei Mirmidoni (dalla parola greca murmex ossia, formica), governò con giustizia e saggezza. Dopo la morte, fu scelto insieme a Minosse e Radamanto come giudice dell’Ade. L’accenno al mito di Eaco ne La sirena controbilancia l’aspetto negativo che gli insetti assumono ne Il Gattopardo: questa volta le formiche non sono più assimilate al Cattivo Governo; fanno parte del Buon Governo.

Al momento di rimuovere dal giardino la misera spoglia del soldato, il sovrintendente non nasconde il suo disprezzo. La salma gli pare il corpo di una bestia in putrefazione: “Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte.” Senza ombra di commiserazione spinge con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre. La sua preoccupante perizia nel sistemare le budella nell’addome aperto è rivelatrice di una totale assenza di coinvolgimento emotivo. Non dimostra nessun segno di compassione per il morto; ha la freddezza di un tecnico intorno a una macchina guasta: vuole risistemare al meglio il pupazzo sventrato. Fabrizio di Salina, invece, è scosso dalla macabra scoperta e l’immagine del giovane sconosciuto lo accompagnerà fino all’ora del suo trapasso. Nella parte finale del primo capitolo, allorché sta osservando “i carnaggi”, cioè il canone in natura portato dai suoi affittuari, gli torna in mente il corpo massacrato: i sei agnellini sgozzati e sventrati che ha davanti agli occhi fanno eco alle carni martoriate del soldato derelitto. Anche i loro ventri erano stati squartati, e gli intestini iridati pendevano fuori. “Il Signore abbia l’anima sua”, pensò ricordando lo sbudellato di un mese prima. “Lo sbudellato” veste i panni di un animale sacrificale. Ha perso la vita in una caccia grossa, una spietata caccia all’uomo dove ogni partecipante è contemporaneamente cacciatore e preda. La sua sofferenza e la sua morte trovano una giustificazione? Sono state utili? Il quesito fa vacillare don Fabrizio: “Perché morire per qualcheduno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, essere certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.” Lampedusa si pone una domanda cruciale e ahimè ancora oggi, a solo ottant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, di cuocente attualità: la guerra è davvero necessaria e inevitabile? Certo, ogni parte belligerante promuove le sue sacrosante ragioni ma in fine dei conti tutte queste giustificazioni contraddittorie fanno apparire l’insensatezza della guerra e svelano i suoi reali motori: l’incontenibile avidità e la dirompente aggressività umane.

Durante il lugubre regno del primo conflitto mondiale che, come ogni guerra, scatena il gioco spaventoso della morte brutta, Lampedusa scopre ad Augusta uno spazio di luce in cui è ancora possibile immaginare un regno di pace, di amore, di morte bella e dove più tardi ambienterà l’idillio tra un uomo e una sirena, tra Rosario e Lighea: “Nell’inferno della guerra e poi nella memoria i mesi passati ad Augusta brilleranno così potentemente da oscurare i bagliori della guerra.” In quest’angolo di costa siracusana onorato dalle divinità aveva stretto amicizia con Enrico Cardile e l’eminente archeologo Giulio Emanuele Rizzo. Malizia della Storia, alla fine della guerra, ricevette dallo stesso Cardile un omaggio postumo. Avendo perso le sue tracce e perciò credendolo morto, nel 1918 l’amico gli dedicò la sua poesia “Alba triste” pubblicata sulla rivista Aprutium: “Al ricordo caro del mio caporale Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa, sperduto presso Asiago”. I versi erano indirizzati a tutte le vittime della guerra: si vedrà “il sangue gorgogliare, /e dentro, nel groviglio insanguinato, /costretti nel medesimo dolore/ un cuore di vinto e un cuore di vincitore!” Difatti, il sangue versato durante un conflitto non ha patria e come dichiara senza orpelli Claude Aveline, la sofferenza ignora le frontiere: “Un uomo bianco, un uomo nero, un uomo giallo: tutte le lacrime sono salate.”

3.      La morte del Principe: penultima parte de Il Gattopardo

È il capitolo più breve (per rispettare il termine usato nel manoscritto autografo del 1957, si dovrebbe dire “parte” e non “capitolo”) del romanzo, forse il più intimo: in poche pagine Lampedusa ci dipinge la sua visione della morte e ci consegna riflessioni sull’immortalità. Nei capitoli precedenti ha già disseminato pensieri in proposito ma qui, nel settimo capitolo, si concentra sull’argomento.

In teoria focalizza l’attenzione sulle ultime ore del Principe di Salina; in pratica ci parla di sé stesso, di come sogna il passaggio dalla vita alla morte. Il tono non è mai piagnucoloso e questo rende la scena ancora più commovente. L’ironia del moribondo abbinata a un senso acuto del dettaglio spezza la drammaticità dell’agonia e fa del protagonista un uomo incredibilmente accattivante. Don Fabrizio si dimostra tutt’insieme lucido, piccante e indulgente. Noi lettori, spettatori privilegiati seduti dietro al sipario della sua scatola cranica, siamo in grado di carpire tutti i fremiti della sua vivace intelligenza mentre i familiari che lo circondano, ne sono all’oscuro: a loro appare soltanto un avo macilento dal respiro affannoso, che sviene di frequente e che è troppo debole per camminare da solo. Neppure l’intuitivo Tancredi, la persona a cui è più affezionato e che ricambia il suo affetto, riesce a intravedere ciò che gli frulla per la testa. Lo zione caro ha capito benissimo di essere spacciato e le frasi rassicuranti dei parenti, i loro sorrisi melliflui non lo ingannano, anzi rinforzano la sua convinzione di essere giunto allo stremo. Se la mancanza di fiato non gli permette di chiacchierare col nipote, non gli impedisce di sviluppare un lungo monologo interiore. Passa in rivista i momenti più felici della sua vita, le cosiddette pagliuzze d’oro, e quelli che, anche se meno intensi, gli hanno procurato grande soddisfazione, le pepite miste a terra. Ma la luce dorata di questi momenti preziosi non basta a illuminare il grigiore dell’immenso mucchio di cenere della sua esistenza. Gli sembra di lasciarsi alle spalle una vita vuota o, meglio, una vita riempita al novantasei per cento da dispiaceri e insoddisfazioni: “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due…tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni. Il suo aspro bilancio ci stimola ad interrogarci sul valore e la consistenza del nostro proprio vissuto.

Non è disperato di dover uscire di scena e nemmeno rattristato; usando l’espressione conclusiva del Libro di Giobbe, si direbbe che sia “sazio di giorni”. Da decenni avverte la fuga lenta e regolare della sua energia vitale, l’affievolimento progressivo del suo io. Sa che il minutissimo sgretolamento della personalità accomuna tutti gli uomini ma è fiero di essere tra i pochi a percepirlo. Comunque, il discreto stillicidio che finora sentiva, adesso si è tramutato in una rumorosa e irruente fuoruscita: la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Difficile non sorridere quando nel frastuono della sua agonia, don Fabrizio fa la diagnosi tra sé e sé del dottore chiamato d’urgenza al suo capezzale. Insomma, la tragedia si tinge di comicità quando il morente soppesa la riserva energetica del medico che lo sta esaminando e la giudica equiparabile alla sua: “Anche lui era un povero otre che lo sdrucìo della mulattiera aveva liso, e che spandeva senza saperlo le ultime gocce di olio.” Messo a confronto, il liquido del suo serbatoio vitale gli pare tuttavia di natura più leggera; esso non cade a terra, non unge ma si trasforma subito in particelle di vapor acqueo che s’innalzano nell’aria per ricomporre in altro luogo una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Forse per l’autore una maniera di comunicarci la sua speranza in un divenire dopo la morte. Nell’introduzione alla raccolta I racconti, il suo figlio adottivo Gioachino Lanza Tomasi ci fornisce un altro indizio: “Giuseppe Tomasi si dichiarava a volte ateo, ma non era convinto che tutto finisse quaggiù.”

Don Fabrizio sopraffatto da un tumulto sensoriale, da uno spaventevole rombo interiore, perde a poco a poco contatto con la gente che gli sta attorno. Benché percepisca l’affetto di Tancredo che, seduto al suo fianco, gli ha preso la mano e la stringe, non presta attenzione al discorrere concitato e giocoso del suo amato pupillo. Non ascolta le parole del nipote; la sua mente voga altrove in uno spazio lontano. È “un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili”. Il suo disorientamento va crescendo; si sente invaso da un mare infuriato “Non era più un fiume che erompeva da lui, ma un oceano, tempestoso, irto di spume e di cavalloni sfrenati”. Tuttavia, il subbuglio non dura a lungo; si rasserena quando vede avvicinarsi una donna che si fa strada attraverso il gruppo dei familiari. La riconosce per averla incontrata in passato; da tempo la corteggia e ora finalmente gli si presenta, pronta a concedersi. “Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo “sì”, la fuga decisa, lo scompartimento del treno riservato.” La Morte sotto le sembianze di Venere-Afrodite è giunta per portarlo via. La snella e giovane figura femminile indossa un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline. La sua mano è guantata di camoscio. I colori dell’abito e dei guanti richiamano quelli della terra, il copricapo ricorda il lavoro dei campi e il treno, mezzo di locomozione preannunciato, è un veicolo terrestre. La Venere de Il Gattopardo, connessa al suolo e alle stelle, si pone in nitido contrasto con Lighea de La sirena in rapporto simbiotico con le acque salate e gli abissi, in diretta relazione con le navi. Ma la contrapposizione è solo apparente giacché le due divinità si completano per abbracciare da Augusta a Santa Margherita di Belice e dal golfo di Siracusa a quello di Palermo, l’intera Sicilia, la Sicilia terrestre e marina, e per accogliere, intrecciando Eros con Thanatos, l’ultimo respiro di un vecchio principe disilluso e di un vecchio grecista sdegnato. Sulla scena dell’agonia il sipario cala come una ghigliottina “Il fragore del mare si placò del tutto”; la frase segna il distacco di don Fabrizio dalla vita terrena. Non sarà sonno eterno; attraverso il racconto Lampedusa lascia intendere che il protagonista è destinato a un viaggio cosmico infinito, negli spazi stellari. Il capitolo si chiude col riferimento al mare, la distesa liquida in cui, secondo il pensiero eracliteo, si esplicita l’armonia dei contrari. Il mare è luogo di annientamento e di rinascita, di morte e d’immortalità, di misere spoglie e di apparizioni divine. Così asserisce anche il senatore La Ciura quando a proposito dei “rizzi” spinosi esclama: “Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità.”

4.      L’immortalità di Lampedusa

Basta generare figli per assicurare continuità e immortalità a un casato? Sul suo letto di morte don Fabrizio lo dice chiaro e tondo: No! “L’ultimo Salina era lui… era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie.” Tra i sette figli che gli aveva dato Maria Stella, soltanto due avrebbero potuto essere all’altezza di perpetuare la stirpe dei “Gattopardi”: Giovanni e Concetta.  Il secondogenito Giovanni, il preferito, che gli sembrava dotato di un animo simile al suo, l’aveva ferito nel profondo. Aveva scelto di tentare fortuna in un’altra isola, lassù a settentrione; aveva abbandonato il sole di Trinacria per affrontare le nebbie di Albione. Aveva tradito il suo sangue e preso il largo per amore della libertà ma non si era accorto di aver solamente cambiato catene scrollandosi di dosso il peso della tradizione per accollarsi quello degli affari. Ora s’inorgogliva di aver fatto un salto di qualità: era passato dal commercio del carbone a quello dei diamanti. Bel salto davvero! Solo che il diamante sempre carbonio è, sempre mercanzia è… Insomma, dopo aver rinegata la sua identità aristocratica e barattato l’ozio con il negozio, era per così dire morto: “con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile mettere su continuando a vivere”. Pure Concetta, a cui don Fabrizio riconosceva la stoffa di una vera Salina, era stata una delusione: aveva miseramente sprecato le sue potenzialità. Aveva preferito raggomitolarsi sui vecchi ricordi piuttosto che farne nascere altri che avrebbero portato nuova linfa al casato. Invecchiava senza prole come una gallina rimasta a covare uova di gesso. Puntare allora sul più giovane della famiglia, Fabrizietto, “così bello, così vivace, tanto caro…Tanto odioso”? Era vana speranza perché egli “avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui.” Era ovvio, Fabrizietto sarebbe stato tutto dedito all’esteriorità, sarebbe diventato un borghesotto che incentra la sua vita sull’avere e non si cura dell’essere, non afferra il valore intrinseco delle cose. Si sarebbe inserito in una massa omologata che ostracizza il diverso e cerca di arraffare più beni materiali possibili; si sarebbe affannato in una gara al possesso. Da qui a poco avrebbe usato lo stesso linguaggio di don Calogero Sedarà al ballo dei Ponteleone: “Bello, Principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell’oro zecchino! Sedarà si era posto vicino a lui: i suoi occhietti svegli percorrevano l’ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario.” Degli occhietti predatori che non sanno contemplare la bellezza ma che sono bravissimi nel tradurre tutto in numeri e lingotti. Che il significato di un casato nobile risieda nei suoi ricordi vitali, il vecchio La Ciura dimostra di averlo capito quando dice al giovane Corbèra: “Bene, bene. Io ho molta considerazione per le vecchie famiglie. Esse posseggono una memoria, minuscola è vero, ma ad ogni modo maggiore delle altre. Sono quanto di meglio, voialtri, possiate raggiungere in fatto d’immortalità fisica. Pensa a sposarti presto, Corbèra, dato che voialtri non avete trovato nulla di meglio, per sopravvivere, che il disperdere la vostra semente nei posti più strani.” Però, ciò che il Senatore non ha inteso è che il sangue spesso mente e che la tradizione non si trasmette in modo naturale tramite i geni, di generazione in generazione. In effetti, per il Principe, la “semente” non basta e pochi sono all’altezza di far onore al loro nome e di mantenere vividi i colori dello stemma di famiglia.

Se i discendenti di un nobile casato si distaccano dal loro passato buttando nel dimenticatoio quello che caratterizza la loro famiglia, se non conservano le proprie dimore insieme ai riti e alle ceremonie che in esse sono radicati, se non mantengono in vita il ricordo degli antennati che si sono distinti nel corso della Storia, il loro nome perde la sua peculiare sostanza e diventa un nome qualsiasi. Quando si sta per affogare nell’anonimato, quando sembra che non ci sia più niente da fare per impedire al nome di trasformarsi in un guscio vuoto di significato, arriva la penna. Il Gattopardo ha salvato dall’oblio il nome di un antico lignaggio siciliano, il nome del suo autore.

Lampedusa non ha dubbio sulla funzione salvatrice della scrittura e sul fatto che ogni resoconto autobiografico sia un doveroso atto di testimonianza. Nella sua introduzione a Ricordi d’infanzia, redatto in contemporanea con Il Gattopardo, si leggono parole significative: “Quando ci si trova sul declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro (Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe essere possibile di preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto per sempre…Non esistono memorie, per quanto scritte da personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine.

Monastero Palma di Montechiaro

A metà giugno 1955 mentre componeva il suo romanzo, Lampedusa ha sentito il bisogno di interrompersi per sdraiare su un blocco per appunti a quadretti piccoli, dei ricordi risalenti all’infanzia: ha mentalmente ricostruito le due dimore che si portava nel cuore da sempre. La scrittura ha consentito al palazzo palermitano distrutto dalle bombe di sussistere, ha assicurato indistruttibile completezza alla villa di Santa Margherita gravemente danneggiata dal terremoto del 1968, ha fatto rinverdire in eterno lo scomparso hortus conclusus della casa materna dei Filangeri di Cutò. A proposito di Charles Dickens che ammirava e definiva “uno dei più insigni creatori di mondi”, Lampedusa era solito affermare: “Se Londra sparisse, resterebbe Dickens che ci dice tutto di quello che era Londra, della sua popolazione.” Insieme all’ottocentesco bisnonno astronomo dilettante Giulio Fabrizio (il Principe di Salina nel romanzo), alla secentesca antenata Isabella diventata monaca di clausura nel monastero benedettino del SS Rosario a Palma di Montechiaro, suor Maria Crocifissa della Concezione (la Beata Corbèra del monastero di Santo Spirito nel romanzo) e al leopardo rampante dello stemma di famiglia trasformato in “gattopardo” dal dialetto siciliano, ne Il Gattopardo ci sono i palazzi di Palermo e di Santa Margherita (di Donnafugata nel romanzo), c’è l’avventuroso carovanare estivo ricco di scomodità e di attrattiva al quale il principuzzu partecipava ogni anno quando affrontava le dodici ore di viaggio tra Palermo e Santa Margherita di Belice (trasferimento a Donnafugata nel romanzo). La scrittura ha immortalato il nome di un antico casato siciliano; ha reso immortale Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

“Non si muore, si diventa morto” diceva qualcuno. In che senso? Non si scompare se i vivi continuano a parlare di noi, a rammentarci. Non ci dissolviamo e non sprofondiamo nel nulla quando rimaniamo nei pensieri altrui.

Villa Piccolo Capo d’Orlando

Lampedusa è morto, scrittore sconosciuto, a Roma il 23 luglio 1957; aveva sessant’anni. A maggio 1957 gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni. Lasciò la sua terra natale il 30 maggio per sottoporsi alla cobaltoterapia in un ospedale sul Lungo Tevere; in Sicilia, non fece più ritorno. Si spense nella capitale senza rivedere l’isola di Salina che gli appariva in lontananza ogni volta che apriva la finestra della sua camera a Capo d’Orlando. Eppure, il desiderio di tornare nell’oasi di luce che aureola villa Vina (villa Piccolo) affacciata sulle Eolie e di riabbracciare gli amati cugini era fortissimo; lo scrive a Casimiro Piccolo a fine giugno. Sarà la sua ultima lettera: “In questo mese vorrei venire a passare dieci giorni alla Chiana. Lo potrò? Ma sarebbe bello arrivare col vagone letto la mattina alle sette, coricarmi nella stanza vuota, dormire sino alle nove e svegliarmi con l’illusione che non sia successo niente, che tutto è come prima.” Il suo desiderio rimase inappagato.

Gli fu pur negata la soddisfazione di vedere pubblicato il suo unico romanzo, un’opera di malinconica poeticità come la definì egli stesso. Un’opera nutrita dalla lettura di sommi autori e dalla linfa di un’esistenza giunta alla soglia della vecchiaia. Sedimentatasi a lungo e scritta tardi, l’opera di Lampedusa sprigiona tutto il profumo e il sapore di un frutto maturo. Forse il consueto percorso di tanti capolavori della letteratura. Marguerite Yourcenar non nascondeva di aver progettato L’opera al nero a 20 anni e di aver abbozzato la scrittura di Memorie di Adriano nel 1924, subito dopo la visita di Villa Adriana a Tivoli insieme al padre. “Le mie due opere principali Memorie di Adriano e L’opera al nero sono state iniziate entrambi intorno al mio ventesimo compleanno.  Ben presto mi sono accorta che non ero in grado di portare avanti questi lavori…Solo molto più tardi ho ripreso la scrittura di questi due libri.

Il Gattopardo sarebbe rimasto in potenza nella mente di Lampedusa se un evento inaspettato non l’avesse fatto passare dalla potenza all’atto. Nell’estate 1954 il corpulento Giuseppe, bombetta in testa e bastone da passeggio in mano, e il timido Lucio dalla frangetta bipartita e dalle orecchie a sventola si presentarono a San Pellegrino Terme. La pariglia sconosciuta e nerovestita destò molta curiosità nel mondo accademico degli intellettuali radunati nella cittadina termale dal 16 al 19 luglio in occasione di un convegno letterario intitolato “Romanzo e poesie di ieri e di oggi - Incontro di due generazioni”. La descrizione che ne fa Guido Lopez, capo dell’Ufficio Stampa della Mondadori, rende l’idea: “coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po' traballanti... quasi un'apparizione carnevalesca di piena estate”. Ma di qual evento letterario si trattava? In parole spicciole, nove scrittori rinomati facevano da padrini a dieci autori promettenti. Sotto l’ala di Emilio Cecchi, c’era Gorgio Bassani; Leonida Rèpaci presentava Italo Calvino; Giovanni Comisso aveva puntato su Goffredo Parise…Sotto la protezione di Eugenio Montale, c’era Lucio Piccolo. E il primo a rimanere stupito era stato proprio Montale al momento del faccia a faccia con l’esordiente scrittore che voleva promuovere: non avrebbe mai immaginato che le 9 Liriche pervenutegli settimane addietro in un plico dalla Sicilia e la cui perfezione stilistico-musicale lo aveva conquistato, fossero quelle di un uomo di solo cinque anni il suo cadetto. Così, il talentuoso poeta che aveva scovato era un giovane attempato di 53 anni, ultimogenito dei baroni Piccolo di Calanovella, un quasi coetaneo. Era prima di tutto un uomo coltissimo i cui versi esprimevano “la contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure irreale perché privo di concretezza.” A San Pellegrino Lucio fu al centro dell’attenzione; in tre giorni passò dal buio alla luce: entrò a pieno titolo nella cerchia dei poeti italiani del Novecento. Nel 1956 la casa editrice Mondadori pubblicherà i suoi Canti Barocchi e altre liriche con prefazione di Eugenio Montale.

Il convegno di San Pellegrino segnò una svolta nella vita di Lampedusa. Dall’infanzia si era creato un sodalizio tra i due cugini Giuseppe e Lucio: si apprezzavano e confrontavano i loro punti di vista, scambiavano di continuo riflessioni sulle loro letture e sugli autori che amavano. Facevano a gara a scoprire scrittori brillanti ma poco noti; erano animati da una rivalità affettuosa. Si consultavano, si consigliavano, si criticavano, si prendevano in giro. Vedere Lucio riconosciuto poeta importante scosse l’amor proprio di Giuseppe e scrollò la sua indolenza. Di ritorno a Palermo iniziò la stesura de Il Gattopardo. Da via Butera, il 31 marzo 1955, manda una lettera all’amico Guido Lajolo che si è trasferito in Brasile: “Da un paio di anni, in questi miei tre cugini si è risvegliata una violenta attività artistica…il terzo (il più giovane ma che ha cinquantatré anni) ha fatto stampare un volumetto di versi; ne ha inviato una copia al terribile Montale e, a giro di posta, ha ricevuto una lettera che lo proclama un genio, ha ricevuto un premio letterario a S. Pellegrino, e le sue poesie saranno pubblicate il mese prossimo da Mondadori con prefazione di Montale: intervista sui giornali, fotografia nell’ “Epoca” (luglio ‘54); un iradiddio (compra il volume quando uscirà: Lucio Piccolo, Canti Barocchi). Benché io voglia molto bene a questi cugini, debbo confessare che mi sono sentito pungere sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro. Cosicché mi sono seduto a tavolino e ho scritto un romanzo.” …

…E che romanzo, Giuseppe! Non hai niente da invidiare a tuo cugino Lucio!

È vero, Lucio Piccolo ha conosciuto il successo letterario prima di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e lo ha assaporato da vivo ma poi, la sua scrittura è stata ben presto ingiustamente dimenticata. Chi ha sentito nominare Gioco a nascondere (Mondadori 1960), Plumelia (Scheiwiller 1967) o L’esequie della luna (Sciascia Editore 1967)?

Lampedusa ha dovuto ingoiare il duplice rifiuto delle case editrici Mondadori (1956) e Einaudi (1957) ma dentro di sé era convinto di aver dato la luce a un’opera di valore; sentiva nel profondo che un giorno la sua opera sarebbe stata pubblicata. Aveva ragione. Quando il manoscritto di Lampedusa gli viene recapitato, Giorgio Bassani, che cura per Giangiacomo Feltrinelli la collana di narrativa “I Contemporanei”, ne capisce subito il pregio: “Ampiezza di visione storica unita a un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso; delizioso senso dell’umorismo; autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incantevole, realizzazione espressiva: tutto ciò a mio avviso, fa di questo romanzo un’opera di eccezione. Una di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si prepara per tutta una vita. Uscito dalla casa editrice Feltrinelli nel novembre 1958, Il Gattopardo è accolto con calore dal pubblico: viene ristampato due volte a dicembre. L’anno dopo riceve il premio Strega. Oggi è uno dei romanzi italiani più letti e più tradotti al mondo.

È il 30 maggio 1957. Prima di abbandonare l’Isola, Lampedusa invia a Enrico Merlo una lettera e una busta di pelle che contiene l’unica copia dattiloscritta de Il Gattopardo. Raccomanda all’amico di leggere con attenzione il romanzo perché ogni parola è stata pesata e molte cose non sono dette chiaramente ma solo accennate. Gli dà inoltre informazioni sul significato di alcuni nomi propri e sul senso globale del racconto. Sul retro della busta si legge: “Fai attenzione: il cane Bendicò è un personaggio importantissimo ed è quasi la chiave del romanzo.” A chiarimento della frase enigmatica, Gioacchino Lanza Tomasi dirà più tardi: “Questo emblema araldico è la chiave della distruzione, nel senso che la rovina arriva fino al cane.”

Lo scambio tra Lampedusa e Merlo riecheggia La sirena: assomiglia al passaggio del testimone tra La Ciura e Corbèra quando il vecchio senatore, la sera prima di intraprendere il suo viaggio, rivela al giornalista il segreto della sua esistenza. È un lascito intellettuale: La Ciura lascia il suo racconto in eredità a Corbèra; Lampedusa lascia il suo libro in eredità a Merlo.

A Roma, sdraiato sul letto d’ospedale, lo scrittore riflette: non è tanto la cortese lettera di rifiuto di Vittorini giunta il 2 luglio che lo amareggia ma piuttosto il fatto di non poter rivedere le acque della sua Isola. Almeno riuscisse ancora una volta, come il principe di Salina, a contemplare il golfo di Palermo prima di morire! Abbozza un sorriso: che smacco! Noi umani, che coltiviamo l’illusione di una nostra superiorità sulle bestie e che ci glorifichiamo di un impareggiabile ingegno, ci riduciamo in fondo, come Bendicò, a un misero mucchietto di polvere livida.

Siamo patetici: benché i nostri cimiteri siano zeppi di gente insostituibile, non smettiamo mai di sgomitare e siamo pur tutti convinti di essere indispensabili. “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene, e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. Ad un tratto si rabbuia: povero Bendicò imbalsamato nel 1882 da un docente dell’Università di Palermo! E tutti questi corpi mummificati penzoloni nelle catacombe sotto la chiesa di Santa Maria della Pace (anche detta dei Cappuccini) come a voler sfidare la Grande Falciatrice! Perlomeno lui, non  avrebbe offerto questo macabro spettacolo; sarebbe andato a riposare all’aria aperta in una tomba  del cimitero adiacente alla chiesa.

Dal 31 gennaio dell’anno scorso (2024) Lampedusa non riposa più nel cimitero dei Cappuccini: le sue  spoglie sono state dissepolte e trasferite nel Pantheon degli illustri di Sicilia nella chiesa di San Domenico. Prezzo della gloria. Forse avrebbe preferito rimanere accanto a Licy nella tomba di famiglia. Però, una cosa è certa: Giuseppe Tomasi di Lampedusa non è mai morto perché dal mare di Sicilia s’innalza e si diffonde il suo canto, la voce di un poeta di talento, il canto vitale e inestinguibile di Orfeo. Dal grigio mucchietto di polvere schizzano fuori tutti i colori della vita.

                                                                                                                                          Joëlle

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È ora di sirena! Parte 4