Torvo…il corvo? Parte 6

UCCELLO VILIPESO

Insieme all’orso e al lupo, il corvo era l’animale più in auge tra le popolazioni normanne, germaniche e celtiche. Il cristianesimo si adoperò a denigrarlo per distruggere l’aura di sacralità che lo avvolgeva. Era impellente farlo cadere dal piedestallo, mandare in frantumi la venerazione di cui era oggetto, cancellare il potere divinatorio che gli era stato riconosciuto, vietare che fosse consumata la sua carne. Per evangelizzare occorreva eradicare i culti e le usanze pagane, fare tabula rasa delle antiche pratiche.

San Agostino (354 d.C. – 430) lo condanna, sfoderando un argomento ridicolo. Percepisce nel suo verso la parola cras (domani, in latino). Cras-cras-cras! Il corvo è per forza un poco di buono. Cras-cras-cras! È la voce del procrastinatore. È l’atteggiamento colpevole del peccatore che sa di doversi confessare ma rinvia sempre la sua confessione all’indomani.

Nel suo libro dedicato al colore nero “Noir – Histoire d’une couleur”, Michel Pastoureau si fa l’eco di uno scambio epistolare significativo, avvenuto nel 751 d. C., fra Bonifacio vescovo di Magonza e il Papa Zaccaria. L’apostolo della Germania, così come veniva soprannominato il vescovo, mandò al pontefice una lunga lista di bestie consumate dai pagani dopo riti sacrificali e gli chiese, visto che il divieto doveva essere graduale (non si poteva interdire tutto d’un colpo), quali animali erano innanzitutto da proibire. Zaccaria senza indugiare gli rispose: in primis, vietare il corvo e la cornacchia perché è blasfemo mangiare uccelli neri.

Una giustificazione fondata esclusivamente sulla ripulsione verso il colore nero sarebbe parsa insufficiente e poco autorevole. Occorrevano fonti scritte. Due versetti presenti nel Levitico al capitolo 11 avrebbero potuto fornire una valida motivazione per proscrivere il corvo:

Lv 11; 13 Fra gli uccelli questi dovete avere in abominio e non mangiarli perché abominevoli: l’aquila, l’ossifraga e l’avvoltoio.

Lv 11; 14  il nibbio e ogni specie di falchi   

Lv 11; 15  tutte le qualità di corvi.

Tuttavia, le esclusioni alimentari valide nel mondo ebraico non riguardavano il mondo cristiano: Gesù ne aveva predicato l’abolizione asserendo che non importa ciò che entra nella bocca ma importa ciò che ne esce. Al capitolo 15 del Vangelo secondo Matteo si legge:

Mt 15; 17-19  Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e va a finire nel cesso? Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo; poiché dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adultèri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. 

Allora, per affossare in modo convincente il corvo, gli evangelizzatori trovarono un solido aggancio  nella Genesi, capitolo 8, dove viene esposta la fine del Diluvio.

Gn 8; 6-12 Trascorsi ancora quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatto nell’arca e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque non si furono prosciugate sulla terra.

Dopo mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.

Ma la colomba non trovando dove posare la pianta del piede, tornò da lui nell’arca perché vi erano ancora delle acque sulla superficie di tutta la terra, ed egli stese la mano e l’accolse con sé nell’arca.

Aspettò ancora sette giorni, poi fece uscire di nuovo dall’arca la colomba, la quale tornò da lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo. Noè comprese allora che le acque erano diminuite sopra la terra.

Pure aspettò ancora altri sette giorni, poi mandò fuori la colomba, ma essa non tornò  più da lui.

Per primo viene mandato in ricognizione il corvo. Gira per l’aria finché non trova un posto asciutto su cui atterrare. È individualista; pensa a sé senza preoccuparsi degli altri occupanti dell’arca. Oltre a manifestare una cospicua autonomia, dimostra di sapersi tagliare una bella fetta di egoismo. Ne va diversamente quando Noè invia la bianca colomba in avanscoperta. La prima uscita è infruttuosa e l’uccello torna nell’arca a becco vuoto. Ma, quando esce la seconda volta, riporta un ramoscello d’olivo per far sapere a Noè che le acque si stanno ritirando. Ha piacere a condividere con gli altri il messaggio di speranza.

La tradizione ha rincarato la dose. Ha estrapolato il discorso biblico inserendoci le abitudini necrofaghe del corvo: l’uccello nero si è dilettato a cibarsi di cadaveri invece di fare ritorno all’arca per informare Noè della fine del Diluvio. Il nero diventa così simbolo di corruzione, di peccato e di morte mentre il bianco segna la virtù, la speranza e la vita. La contrapposizione nero-bianco riecheggia perfettamente la spaccatura fra tenebra e luce avvenuta al momento della Creazione, momento descritto nel primo capitolo della Genesi. Così, il corvo si fa portatore di tenebre mentre la colomba si tramuta in simbolo di luce.

Adesso, mi faccio avvocato del corvo.

La storia del Diluvio narrata nella Bibbia non è primigenia. S’ispira a Gilgamesh, un racconto sumero inciso in caratteri cuneiformi, nel III sec. a. C., su tavolette d’argilla. Molti di questi manoscritti  sono stati scoperti dopo millenni, nel XVIII secolo, all’interno della sepolta biblioteca del re Assurbanipal situata nell’odierno Iraq.

Orbene, come sono venuti a contatto gli ebrei con Gilgamesh? In modo diretto: al tempo dell’esilio, durante la loro permanenza forzata a Babilonia dal 597 a.C. al 538 a.C.

In un episodio del mito sumero, l’antenato Utnapishtim spiega al leggendario re di Uruk, Gilgamesh, come sopravvisse al Diluvio e come, per una decisione degli dèi, ottenne l’immortalità.

Ea, dio dell’Oceano sotterraneo,  gli aveva consigliato di costruire una nave per salvarsi dall’ira di Enlil, divino sovrano della Terra. E lui, gli diede retta. Quando l’imbarcazione fu ultimata, ci fece salire la sua famiglia, alcuni “maestri d’ogni arte e mestieri”, i “semi di tutte le cose viventi” e “tutte le creature viventi”. Dopo poco si scatenò una tempesta mostruosa seguita da un terribile Diluvio che devastò il paese e fu così distruttore da spaventare perfino le divinità.

Ma al termine del cataclisma, la parte bella non spettò alla colomba. E no, cari miei! La colomba fallì nella sua missione. Sul podio arrivò il corvo: primo a indicare il ritiro delle acque, primo a scoprire la terra ferma; fra i tre uccelli in competizione, si rivelò il più vispo, oserei dire, il più perspicace.

 

Quando giunse il settimo giorno,

portai fuori una colomba, la lasciai andare:

la colomba prese il volo, ma poi fece ritorno,

non c’era un posto ove posarsi, sicché torno da me

Portai fuori una rondine, la lasciai andare:

la rondine prese il volo, ma poi fece ritorno,

non c’era un posto ove posarsi, sicché tornò da me.

Portai fuori un corvo, lo lasciai andare:

il corvo prese il volo, vide recedere le acque,

trovò del cibo, si chinò a becchettarlo, e non tornò da me.

Non vi nascondo la mia perplessità. Benché il corvo sia per gli ebrei un animale impuro poiché si nutre di carogne, è a lui che Noè affidò per primo l’incarico di trovare terre emerse. Forse, al di là della sua impurità, era considerato l’uccello più capace di destreggiarsi nelle situazioni difficili. Oppure, banalmente, invertire l’ordine scelto dai babilonesi era un modo di sottolineare un distacco dal vecchio mito sumero. Per me, la questione rimane aperta.

Alla luce di un altro passaggio dell’Antico Testamento sembra che gli ebrei non considerassero affatto il corvo un egoista, un animale diabolico come in seguito lo etichettarono i cristiani. Nella storia del profeta Elia, il corvo assume il ruolo d’inviato divino e palesa il suo lato altruista. Al capitolo 17 del Primo libro dei Rei, prendiamo visione dei versetti 4 e 6:

1 Re 17; 4  Dal torrente berrai; ho comandato ai corvi che là ti portino da mangiare. (Dio a Elia)

1 Re 17; 6  e i corvi la mattina gli portavano pane e carne e la sera pane e carne, e dal torrente beveva.

Quando narra la vita di San Benedetto nella Legenda Aurea, il domenicano e arcivescovo di Genova Jacopo da Varagine (1230 – 1298) usa, in un passaggio, la figura del corvo alleato del santo. Prima di evidenziare l’episodio in cui è inserito il corvo, faccio una premessa. La Legenda Aurea, scritta in latino, ha da subito entusiasmato; durante il Medioevo, molte sono state le sue traduzioni in lingue volgari. Per illustrare il mio discorso, ho selezionato un “volgarizzamento toscano del Trecento a cura di Arrigo Levasti”.

Benedetto, eremita di Norcia, oltre ad essere volto al bene, era chiaroveggente. Di continuo il diavolo s’ingegnava per farlo cadere in tentazione ma l’uomo, ancorato alla sua fede, resisteva sempre. Era irreprensibile, compiva miracoli e si guadagnava la stima di molti. La sua personalità affascinava e la sua autorevolezza allargava a macchia d’olio l’assemblea dei fedeli. Tuttavia, alcuni erano infastiditi dalla sua onestà, invidiosi del suo successo e non sopportavano il pungolo dei suoi precetti morali. A cominciare dai monaci che, poco dopo averlo scelto come abate, si pentirono della loro decisione. Non accettavano la sua regola che giudicavano troppo restrittiva. Concordarono di farlo fuori. Quindi, senza troppi girigogoli, stabilirono di avvelenarlo con un bicchiere di vino. Quando, sul punto di bere, il sant’uomo fece il segno di benedizione, il contenuto mortale si rivelò in modo sbalorditivo e tangibile: il vetro si frantumò all’istante, lasciando a bocca aperta l’intera congregazione dei frati criminali.

Ma san Benedetto fece il segno della santa Croce, e incontanente fu rotto il bicchiere del vetro, come fosse una pietra che vi fosse entro gittata. Sì che intendendo che quello vasello aveva avuto in sé beveraggio di morte, lo quale non avea potuto comportare il segno della vita…”

Più avanti, ci fu un altro tentativo di omicidio nei suoi confronti: il povero Benedetto ricevette in regalo da parte di un prete invidioso, un pane avvelenato. D’istinto avvertì la carica mortifera racchiusa nella pagnotta e per non fare correre rischio a nessuno, incaricò il suo amico corvo di portarla via e di sbarazzarsene in un luogo disabitato.

Uno prete che avea nome Fiorenzo, portando invidia all’uomo di Dio, venne a tanta malizia che uno pane avvelenato mandò a l’uomo di Dio quasi come per avere la benedizione; lo quale pane il santo ricevette graziosamente e gittollo al corbo il quale era usato di ricevere il pane de la mano sua, e disse così: “Nel nome di Cristo Jesù, e tolli questo pane e gettalo in tale luogo che veruno uomo non lo possa torre.” Allora il corbo con la bocca aperta e con l’ale distese cominciò andare scorrendo d’intorno al detto pane e a crocidare quasi volesse apertamente dire di volere obbedire, e pertanto non potere compiere il comandamento. E ‘l santo gliele comandava più e più volte, così dicendo: “Levalo indi, levalo indi sicuramente, e gettalo via, come io t’abbo detto”. Il quale a la perfine togliendolo, dopo le tre ore ritornò e ricevette il cibo de la sua mano com’era usato.”

Ci balza davanti non solo una salda complicità tra l’uomo e il corvo ma pur la chiaroveggenza e l’intelligenza stessa dell’uccello: sente anch’egli che il pane è avvelenato e lo fa capire al monaco gracchiando e girando nervosamente intorno alla pagnotta. I due dialogano e s’intendono perfettamente. La fiducia è reciproca: l’uccello si fida dell’uomo che lo assicura della sua protezione; l’uomo sa di poter contare sul corvo e non mette in dubbio che compirà la sua salvifica missione.

In questo brano si sprigiona un’icona meravigliosa, positiva del corvo: non è l’accolito del demonio; è l’amico fidato del santo.

Purtroppo la leggenda di San Benedetto non ebbe nessun peso per controbilanciare la storia dell’Arca di Noè. Poi, a dirla tutta, il popolo era più a contatto con i racconti della Genesi che non con quelli del Primo libro dei Rei: chi teneva a mente i benevoli corvi di Elia? Le pareti delle chiese ricevevano volentieri gli affreschi della Genesi mentre di solito, le storie del profeta Elia o di San Benedetto si dipingevano nei chiostri, luoghi appartati riservati alle passeggiate meditabondi dei monaci. Fra la gente del Medioevo, l’immagine del nero uccello del Diluvio, infido e spregevole, prese il sopravvento. Immagine rinforzata nella sua negatività dalle abitudini alimentari dell’animale, sotto gli occhi di tutti. In Europa le guerre imperversano e sui campi di battaglia i corvi erano i primi ad accorrere dopo lo scontro letale, quasi fossero stati legati allo scempio da un filo invisibile. Nell’Antichità non erano considerati i sommi latori di messaggi funesti ma nel Medioevo divennero uccelli perfidi e di malaugurio. Furono accusati di mangiare gli occhi per giungere al cervello e impossessarsi dell’anima.

A metà del Quattrocento François Villon (1431 – dopo 1463) non dimentica certo i corvidi nella sua Ballade des pendus (Ballata degli impiccati). In due versi del lugubre poema, i giustiziati rammentano ai vivi le crudeli beccate di cui sono stati vittimi: “Gazze e corvi gli occhi ci han cavati/ e strappato la barba e i sopraccigli

In realtà, i corvi sono degli spazzini naturali, utili a contrastare la diffusione di epidemie e di conseguenza, a salvaguardare la salute di altri esseri viventi. Attività da mettere in parallelo con quella degli squali: infatti, i corvi svolgono sulla terra la stessa fondamentale funzione di netturbino che gli squali svolgono negli oceani. Per conto loro, eliminano carcassei di piccoli animali ma quando avvistano carogne di maggiore dimensione, si premurano di avvertire i grossi mammiferi (coyote, orso…). Scambio di convenevoli? Macché! Non esageriamo con la cortesia. Usano gli artigli e le zanne dei grandi carnivori a mo’ di apriscatole: senza di loro, impossibile accedere alle interiora! Tuttavia, non sono consumatori esclusivi di carogne come gli avvoltoi; ne sono dei consumatori occasionali. Dimostrano un’estrema adattabilità alle circostanze e all’ambiente: sono onnivori e opportunisti come le volpi. L’associazione ricorrente corvo-volpe in campo culturale trova forse qui, in ambito naturale, i suoi fondamenti. I due si spartiscono la giornata: assolvono il medesimo compito in fasce orarie contrapposte. Il corvo è spazzino diurno, la volpe spazzino notturno.

Nel Novecento, Gli Uccelli di Alfred Hitchcock (1899 – 1980) ebbe un impatto disastroso sulla fama del corvo. Trafisse con un’ulteriore stilettata un animale già ostracizzato. Oggi la pellicola pare un po’ datata e alcuni effetti speciali sono da tempo superati ma quando uscì nel 1963, il film fece rabbrividire. L’intento del regista era di concretizzare sullo schermo una paura ancestrale, la paura dell’uomo di fronte alla forza incontrollabile della natura. E ci riuscì. Benché nelle aggressioni compiute dai volatili presero parte anche gabbiani e passeri, la scena dei corvi che piombano infuriati sopra la scolaresca terrorizzata fu quella che lasciò gli spettatori più sgomenti, cosicché le sagome nere divennero gli aggressori per antonomasia. Non per caso, tutti gli uccelli rappresentati sulla locandina sono dei corvi.

La sceneggiatura, ispirata alla novella The birds di Daphne du Maurier (1907 – 1989) pubblicata nel 1952, rischiarì un po’ l’atmosfera cupa che la scrittrice aveva creato nel suo racconto. Ebbene sì, il libro è più catastrofista del film! Un reduce dell’ultima guerra mondiale, diventato per necessità bracciante agricolo in Cornovaglia, cerca insieme alla famiglia di sopravvivere agli attacchi letali di stormi anomali. L’aggressione dei pennuti interessa l’intero paese. Gli aiuti mandati dal governo sono un completo fallimento. Nat Hocken, sua moglie e i due figli capiscono presto di dover contare unicamente sulle loro forze. È un rigido inverno e si ritrovano soli, asserragliati in casa, costretti ad affrontare una situazione sempre più angosciante, con la probabilità di cavarsela pari a zero. Ai raid aerei partecipa una varietà incredibile di uccelli; grandi e piccoli si sono uniti nella caccia all’uomo.     È presente la numerosa famiglia dei corvidi: “They were rooks (corvi comuni), crows (cornacchie), jackdaws (taccole), magpies (gazze), jays (ghiandaie)”… dalla lunga lista manca il corvo imperiale, the raven per gli inglesi, che non sarà menzionato neppure una volta nel racconto. Comunque, la scrittrice non richiama l’attenzione sui corvidi ma bensì, sugli uccelli marini. I volatili che risaltano maggiormente per la loro aggressività ed efferatezza sono i gabbiani: i mugnaiacci (black-backed gulls) e soprattutto i gabbiani reali (herring gulls).

Daphne du Maurier spiegò che il punto di partenza della sua scrittura fu una scena campestre in Cornovaglia. Un giorno, allorché stava passeggiando, vide un contadino al lavoro su un trattore, avviluppato da una nube vorticosa di gabbiani. Quando l’immaginazione è tanta, basta un’inezia a far volare la penna della fantasia!

Hitchcock decise di girare il film sulla costa pacifica degli Stati Uniti. L’azione si svolge in una località situata a un centinaio di chilometri a nord di San Francisco: Bodega Bay. L’attacco degli uccelli è circoscritto a questa piccola città californiana. In buona sostanza, il maestro del brivido non seguì pedissequamente Daphne du Maurier; optò per una  storia diversa cambiando i personaggi e le vicende. Tuttavia, prese spunto dal racconto della scrittrice: in modo analogo, inserì momenti di tregua tra un attacco e l’altro; si guardò ben da proporre una spiegazione razionale al comportamento sconvolgente degli uccelli e adottò un finale aperto.

Difatti, sia il libro che il film mettono lettore e spettatore in condizione di concludere la storia da soli. Certo, per quanto riguarda la conclusione della novella, la libertà d’interpretazione è fiacca, se non inesistente: difficile raffigurarsi un “happy end” dopo che Daphne du Maurier ci ha abbandonati con la scena di Nat che fuma la sua ultima sigaretta. “I’ll smoke that last cigarette” he said to his wife (“Mi fumerò quest’ultima sigaretta” disse a sua moglie). Un cliché del condannato a morte, o sbaglio? Hitchcock è di manica più larga: ci lascia in fondo al tunnel un barlume di speranza. Nell’ultima inquadratura, i protagonisti a bordo di una decappottabile, in quel frangente col tettuccio ovviamente alzato, si apprestano a fuggire dalla cittadina dell’orrore sotto lo sguardo enigmatico di migliaia di uccelli. Ce la potrebbero fare.

Durante le riprese si impiegarono volatili meccanici, volatili di cartapesta ma per rendere le aggressioni più realistiche possibile, Hitchcock usò in gran parte volatili in carne e ossa e chiese la collaborazione di un addestratore di animali. Gli piacevano i corvi per l’effetto inquietante che producevano le loro ali nere e i loro becchi adunchi; non pensò al colpo mancino che assestava a dei pennuti già fortemente disprezzati. L’attacco alla scolaresca impressionò e rinforzò l’ostilità del pubblico nei confronti dei corvi. In definitiva, non c’era tanto da stupirsi che fossero proprio loro ad attaccare i bambini all’uscita dalla scuola giacché erano i volatili più perfidi e malvagi del creato. Le foto in cui il regista si esibiva in serena confidenza con i neri uccelli avrebbero potuto fare da contrappeso positivo e magari invertire la tendenza ma i pregiudizi hanno vita salda e questi scatti assai dimostrativi dell’indole pacifica dei corvi non fecero breccia sulla gente.

Insomma, il corvo ha numerose ragioni di prendersela con noi e di farci una bella lavata di testa. Nel suo gracchiare ho afferrato le rimostranze che ci rivolge e ve le espongo il meglio che posso. Sicuramente dimenticherò qualcosa ma penso di restituirvi in complesso il succo del suo discorso.

“Voi umani, siete animali volubili e inaffidabili. In un primo momento, avete lodato le nostre facoltà cognitive, ci avete ammirati, onorati nelle vostre religioni e addirittura divinizzati. Poco dopo, avete condotto una campagna denigratoria per infangarci, per buttarci giù dal trono che ci avevate riservato. Avete massacrato le nostre famiglie, ci avete decimati come fossimo animali nocivi quando in verità gli esseri più esecrabili del pianeta, siete voi. Dalle stelle alle stalle, così senza valido motivo sennò quello di un capriccio vostro. Perché vi tornava comodo, perché vi serviva un uccello espiatorio per tutti le vostre malefatte. Il nero non vi aggradava; preferivate il bianco: ci avete contrapposti alla colomba.

Parliamone! L’avete innalzata a simbolo dell’altruismo, della dolcezza e della pace; l’avete chiamata “Spirito Santo”. Ma lo sapete che non è soggetta al meccanismo dell’inibizione sociale e non è capace di empatia come noi? Dunque, in caso di diverbio con un suo compagno, non ha remore ad ammazzarlo con tutta la gentilezza del suo tenero beccuccio. Se non mi credete, ritrovate queste parole scritte dal nostro caro amico Konrad Lorenz: lo racconta con più dettagli di me. Avete le case piene di specchi: usateli per osservarvi, fatevi un accurato esame di coscienza. Noi, vi teniamo d’occhio, vi vediamo agire e non ci piacete affatto: dovete cambiare. Per Muninn! Il mondo non vi appartiene! Oggi se usciamo pian piano dal baratro dove ci avete scaraventati, lo dobbiamo ai vostri scienziati che ci stanno rivalutando. Hanno voglia di  studiare i nostri comportamenti che ritengono molto interessanti e istruttivi. E domani? Ma probabilmente domani non avremo più da temere perché mentre ci saremo ancora, voi non ci sarete più. Vi inorgoglite della vostra intelligenza allorché siete l’unico animale a tagliare il ramo sul quale è seduto. Davvero, bravi. Smettetela di pavoneggiarvi: non siete che stupidi arroganti!”

Che significato dare alla novella di Daphne du Maurier? L’assenza di spiegazione ci induce a riflettere, a formulare molteplici domande, a elaborare innumerevoli risposte. È la metafora dei bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. È il flagello di Dio che castiga la tracotanza e l’insensatezza dell’uomo. È la fragilità della condizione umana. È l’imprevedibilità dei fenomeni naturali e la loro ingovernabilità. È ribellione della natura per sbarazzarsi dell’ Homo sapiens e così facendo, liberare il pianeta da una specie invasiva e distruttrice…

È confronto tra uomini e uccelli. Lo esprime Nat, in una lunga frase inserita nelle ultime righe del racconto. Ha provato a lottare ma si è rassegnato alla disfatta di fronte alle orde alate inarrestabili che lo perseguono. Sta aspettando stoico che i falchi sfondino a colpi di becco la porta dietro la quale ha ostinatamente cercato riparo con la sua famiglia.

Nat listened to the tearing sound of splintering wood and wondered how many million years of memory were stored in those little brains, behind the stabbing beaks, the piercing eyes, now giving them this instinct to destroy mankind with all the deft precision of machines.

(L’orecchio teso ad ascoltare il rumore del legno che veniva strappato scheggia dopo scheggia, Nat si domandò quanti milioni di anni di memoria fossero depositati in quei piccoli cervelli, dietro quei becchi appuntiti, quegli occhi penetranti, e che ora alimentavano l’istinto di distruggere il genere umano con tutta la destrezza e la precisione di una macchina.) Come Nat, la scienza attuale si chiede cosa rinchiudono le piccole teste che fino a poche decine di anni fa erano considerate irrilevanti gusci riempiti di un cervello sottosviluppato. Solito antropocentrismo! Quando apparvero i primi uccelli? Per quale motivo gli etologi si appassionano nello studiare il comportamento dei corvidi? Una domanda tira l’altra.    Continua…

  Joëlle




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