Un dettaglio

“Perdere un tacco”, che sarà mai? È una cosa insignificante e piuttosto buffa che sfocia generalmente in una risata; eppure, una volta, mi ha fatto piangere.

Per recarmi al liceo, immancabilmente in bicicletta, inforcavo il mio mezzo spesso tardi. Mi trascino dall’infanzia la cattiva abitudine di ridurmi all’ultimo minuto e di uscire di casa fuori tempo massimo. Di conseguenza arrivo di solito in ritardo. Ovviamente mi tocca pedalare con foga per raggiungere la meta. Un giorno, in quest’aspra lotta contro l’orologio, il pedale mi strappò un tacco. Arrivai al corso di chimica quando tutti erano già al loro posto e giunsi al mio banco raffrenando un’incontenibile voglia di ridere: mi sembrava di sprofondare in una buca ogni volta che la mia scarpa tronca toccava terra.

Tanto tempo dopo, mentre sfrecciavo in bicicletta sul Lungarno, persi addirittura un mocassino. Nessun Principe Azzurro per riportarmelo bensì un autobus per schiacciarlo. Con stupore, vidi la mia scarpa “investita” dalla pesante ruota del mastodonte. Senza volerlo l’autista l’aveva centrata in pieno. Quando la recuperai, sembrava miracolosamente indenne ma in realtà era tutta maciullata: ad ogni passo lasciava scappare un lamentoso squittio. L’effetto era alquanto comico e scoppiai a ridere.

Joëlle

Christiane

Allora, come mai aver pianto per un motivo così futile? Arrivo al punto. Avevo sedici anni. Christiane era la mia amica di penna da due anni. Le mandavo delle lettere in tedesco alle quali mi rispondeva in francese. Era già venuta a casa mia a Rennes ed ero andata a casa sua a Mannheim. Condividevamo lo stesso interesse per la musica classica, l’arte e la letteratura ma ugualmente la stessa avversione per la matematica.

Quell’anno avevamo deciso di partecipare a uno stage di windsurf e di vela a La Rochelle, in Charente. Avevo scelto windsurf mentre Christiane aveva preferito dedicarsi alla vela. Ci ritrovavamo soltanto la sera. Il corso mi parve subito troppo intensivo. Passavo più tempo nell’acqua che sulla tavola. Non orientavo bene la vela perché non capivo da dove veniva il vento. L’acqua era nera e mi sembrava gelida nonostante la tuta termica che indossavo. Ero tutta dolorante e non mi divertivo per nulla. Gli altri progredivano, io no. Un vero disastro! L’unico momento bello della giornata si svolgeva la sera quando ritrovavo Christiane per chiacchierare e ridere. Percorrevamo diversi chilometri a piede prima di raggiungere il centro storico de La Rochelle animato da vari musicisti e artisti di strada. Facevamo sempre sosta in una pasticceria per assaggiare una quantità impressionante di pasticcini. Una sera, eravamo troppo stanche e decidemmo di accontentarci di una passeggiata sulla spiaggia. A un certo punto, nel camminare su degli scogli, persi un tacco. Dalla rabbia, incominciai a piangere. Christiane mi avrebbe potuto schernire: “Che bambina! disperarsi per un tacco!” o consolarmi: “Non te la prendere, troverai delle scarpe ancora più carine”. Non fece né l’uno, né l’altro. Mi dichiarò semplicemente con un sorriso: “Te, non stai piangendo per il tacco!” Ne rimasi sbalordita. Aveva colto nel segno la causa del mio sfogo, la vera natura del mio disagio. Aveva attraversato il velo delle apparenze. Difatti, il tacco rappresentava la parte emersa dell’iceberg, la goccia che faceva traboccare una coppa strapiena. La causa profonda del mio pianto era la mia inadeguatezza a questo stage sportivo intensivo, la sensazione acuta di essere il brutto anatroccolo della compagnia. Christiane aveva tradotto le mie lacrime, la sentivo più vicina di prima. Ero felice e rasserenata. Il piccolo incidente del tacco, così banale e in apparenza, insignificante, rinforzava la mia amicizia nei suoi confronti.

                                                                                     Joëlle

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L’aggettivo si fa oggetto

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Che cosa ci sto a fare al mondo?