Torvo…il corvo? Parte 4

UN CANTO SPECIALE

 

Disquisire sul canto del corvo, sembra un ossimoro. Quando mai il suo gracchiare sarebbe un canto? Invece, lo è a tutti gli effetti se consideriamo “canto” i segnali acustici prodotti dagli uccelli tramite la siringe, organo vocale muscolo-membranoso situato all’estremità inferiore della trachea presso la sua biforcazione nei bronchi. Riguardo a queste vocalizzazioni, il corvo non è fanalino di coda; anzi, caracolla in testa. Certo, non regala al nostro orecchio il cinguettio melodioso e romantico del fringuello o dell’usignolo. Certo, quando paragoniamo la voce di qualcuno a quella di una cornacchia, siamo ben lontani dal complimento. Ma se prestassimo più attenzione al verso del corvo, lo giudicheremmo meno ripetitivo e sgraziato di come il nostro sentire superficiale ce lo fa percepire.Gli etologi scindono le vocalizzazioni in gridi e in canti.

Per la maggior parte, i gridi sono innati, caratterizzati da una durata breve e da una struttura complessa. Sono impiegati per chiedere cibo “Mamma, ho fame!”, per mantenere un contatto a distanza “Ehi, ci sei?” o per lanciare l’allarme. Collochiamo qui il “cracracrac!” di Roa.                               

I canti invece non si trasmettono geneticamente; nascono dall’apprendimento per imitazione in quanto da piccoli, gli uccelli ascoltano e copiano il verso degli adulti. Sono unità sonore incatenate in una sequenza. Ogni specie produce un fraseggio caratteristico se pur con qualche variazione a secondo del luogo di nidificazione. Per rendere conto delle differenze canore che si manifestano all’interno della stessa specie in relazione alla posizione geografica, gli ornitologi parlano di “dialetti”.

Per quale motivo gli uccelli cantano? Di solito, per delimitare il loro territorio e difenderlo. Alla bella stagione, per mandare messaggi d’amore. È risaputo che nella fase di corteggiamento, il maschio non risparmia il fiato per superare i rivali e convincere la diletta a sceglierlo.

Ma, cantare… per il solo piacere di cantare, senza scopo utilitario? Osservazioni scientifiche lasciano pensare che il corvo vocalizza anche per la mera soddisfazione di sperimentare modulazioni, di provare suoni nuovi. Da una decina d’anni in Francia, Valérie Dufour, ricercatrice in etologia al CNRS di Strasbourg e primatologa (un nesso c’è), si è appassionata allo studio dei corvi. Grazie a delle registrazioni automatiche, ha intercettato gli esercizi vocali a cui si dedica il corvo femmina Brad quando, a laboratorio chiuso, si trova sola nella sua gabbia. Sembra che Brad si diletti a intrecciare una serie di suoni diversi gli uni dagli altri in una collana musicale. È come se componesse per sé stessa un concerto originale fatto di note morbide o dure, acute o grave, raggruppate o più distaccate a secondo della sua fantasia. L’insieme risulta meno gradevole del canto del fringuello ma in confronto, assai più personalizzato e improvvisato! Mentre l’uccellino canoro non supera il fraseggio melodico della sua specie, il corvo si diverte dando libero corso alla sua giocosa creatività. Un giorno, allorché puliva la vasca dei corvidi con la sistola, Valérie Dufour ha avvertito un comportamento sorprendente: “i corvi stavano cantando sotto la doccia.” Ogni volta che apriva il rubinetto, gli uccelli iniziavano a gracchiare e smettevano nell’istante preciso in cui lo chiudeva. Non era una coincidenza perché le vocalizzazioni avvenivano in perfetta sincronia con l’erogazione dell’acqua. I corvi aggiustavano il loro canto al rumore del getto, palesando un notevole controllo vocale.

Quanto al loro talento d’imitatore, non è venuto a galla solo in questi ultimi decenni; già gli antichi greci e latini ne erano consapevoli. In natura sono abili a contraffare il verso di alcuni uccelli e quando vivono presso gli uomini, sono in grado di riprodurre un miagolio, una risata, una parola o addirittura una piccola frase.

Nel Libro X della sua Naturalis historia, Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) narra di un corvo che era solito salutare l’imperatore Tiberio per nome. L’animale, che si era guadagnato l’ammirazione e l’affetto del popolo, fece purtroppo una brutta fine: un triste giorno, fu ammazzato da un calzolaio invidioso della stima che il popolo gli dimostrava. Per giustificare il suo gesto crudele, l’uomo pretestò che con una defecazione, l’uccello gli aveva sporcato la scarpa; la folla inferocita lo giustiziò. Al contrario, il corvo ebbe un funerale degno di un personaggio illustre: due etiopi, preceduti da un suonatore di flauto, portarono a spalla il suo giaciglio mortuario fino alla pira innalzata in un campo poco distante della via Appia.  Più avanti, Plinio elogia i talenti vocali della cornacchia di un cavaliere romano, un suo contemporaneo e concittadino: “contexta verba exprimens et alia atque alia crebro addiscens”, cioè, “sa pronunciare intere frasi e non smette di impararne altre”.

Oltre ad osservare i movimenti degli uccelli in una porzione di cielo per decriptare il volere degli dèi, gli auguri si cimentavano nell’interpretazione del grido e del canto dei pennuti. Tuttavia, operavano una distinzione significativa tra i corvidi e gli altri uccelli perché, come precisa Pline, “corvi in auspiciis soli videntur intellectum habere significationum suarum”, cioè, “i corvi, negli auspici, sono gli unici a capire ciò che preannunciano.

Per contro, nel Medioevo non si trovano scrittori per elogiare la memoria, l’intelligenza, la saggezza e la chiaroveggenza dei corvi; sono guardati con diffidenza, da un’angolatura sfavorevole. I bestiari medievali fanno di loro degli animali orgogliosi, ladri, infidi, egoisti, addirittura diabolici e associati alla morte; appaiono voraci consumatori di cadaveri. Sorvolano i campi di battaglia per piombare addosso ai morti e si appollaiano in cima alla forca degli impiccati per scavare gli occhi e cibarsi del loro cervello.

Al fine di illustrare il nostro discorso, vi propongo una sosta attorno al Roman de Renart, un’opera redatta dal 1174 al 1250 in antico francese, ossia in lingua d’oïl, e scritta a più mani da autori rimasti quasi tutti anonimi. Non è un romanzo come lo intendiamo oggi; è una raccolta di racconti formulati in versi alla maniera della canzone di gesta. Malgrado l’eterogeneità dei suoi creatori, probabilmente una ventina, il tessuto narrativo è unificato dalla scrittura in lingua d’oïl, da un tono comune e dall’onnipresenza della volpe Renart le cui avventure fanno da trama. Per sottolineare la loro interdipendenza, le varie storie sono denominate “branches” (rami) in riferimento all’immagine dell’albero che, nell’abbinamento “tronco-rami”, ben trasmette l’idea di unità e di coesione. E il corvo in tutto questo? Ci arriviamo.

Nel Roman de Renart, i protagonisti sono zoomorfi. Ognuno è contraddistinto da un nome proprio e caratterizzato da un comportamento umano, al quale si sovrappongono a tratti reazioni tipiche della sua specie che lo ricollegano all’universo delle bestie. Gli animali parlano, riflettono e agiscono, inscenando con grande forza comica e satirica, i malcostumi, la violenza, l’ingiustizia e l’ipocrisia della società feudale. La volpe Renart, incarnazione della furbizia e della truffa, si prende gioco di tutti e riesce sempre a cavarsela. Conosce la formidabile potenza della lingua e sa maneggiare la parola per sedurre e convincere, per mentire e tradire. Nell’arte della retorica, usa il suo virtuosismo per imbrogliare gli altri; il corvo Tiécelin figura sulla lunga lista delle sue vittime.

All’inizio delle branche “Tiécelin. Lo Stupro di Hersent”, considerata uno dei primi scritti del ciclo renardiano, si staglia l’antica favola del corvo e della volpe. O sorpresa! Al posto della storiella asciutta e moraleggiante che aspettavamo, si snoda un piccolo racconto morbido e dettagliato, imparentato più alla fiaba che non alla favola. Ricordiamo che il testo, letto ad alta voce, doveva divertire e stuzzicare la curiosità di chi l’ascoltava. Davanti all’uditorio, il jongleur, intrattenitore popolare e affabulatore girovago, s’impegnava a fare vibrare tutta la coloritura della storia.  Le tre scenette compositive del racconto espongono lo stato d’animo e la psicologia dei personaggi. I due sono tormentati dalla fame; d’altronde, a quei tempi la carestia era all’ordine del giorno. La prima scena descrive una valle amena dove Renart si accovaccia sotto un faggio. Nella seconda scena, Tiécelin ruba un formaggio, lasciato asciugare al sole insieme ad altri mille. Alla vecchia contadina iraconda che lo insegue con sassi e invettiva, il ladro replica beffardo: “La male garde paist le leuLa scarsa vigilanza nutre il lupo”. Dalla terza scena che mette in relazione i due compari, escono fuori la vanità e la stoltezza del corvo. Viene anche accennato alla sua istintiva diffidenza: “N’ose encor pas avant venir: doutant s’en va traiant arriere; molt crient que Renars ne le fiere – Non si arrischia a procedere: la paura lo fa tornare indietro; teme molto che Renart lo aggredisca”. Della volpe, osserviamo una vittoria a metà: dopo aver sapientemente imbastito un discorso fallace per papparsi il volatile, è costretta a placare la sua fame con il pezzo di cacio. Meglio di nulla! La comicità s’impernia sull’insensatezza del corvo abbindolato da una lusinga oggettivamente incompatibile con la qualità del suo canto e sul disappunto della volpe che riesce solo a strappare quattro penne all’uccello.

Le branche “La Morte di Renart” segna l’uscita di scena del maggior protagonista della zoo-epopea renardiana e quindi, costituisce il punto finale dell’intero ciclo. Da una parte, l’autore s’ingegna a fare pianare il dubbio sulla morte effettiva della volpe, ma dall’altra, certifica di aver redatto l’episodio conclusivo: “Ci fine de Renart le non Qui sparisce il nome di Renart”. Nelle ultime pagine del racconto entra in azione un singolare binomio alato: il corvo Rohart e la cornacchia Brune. Per porre fine alla micidiale aggressione del gallo Chantecler, Renart si finge morto. Dopo che è stato abbandonato in un fosso, la coppia di corvidi gli fa visita di nascosto, sicura di aver a che fare con un cadavere: “Mors est, nous n’avons de li garde – È morto, non abbiamo niente da temere”. Facendo subito onore alla loro reputazione di “mangiatori di carogne”, i due si affrettano a saltargli addosso. Rohart dà prontamente inizio al banchetto: “Rohart primerainz s’avança, le bec avant primes hauça, en la char li embat dedenz – Per primo Rohart si fece avanti, il becco all’insù, che poi gli ficcò nelle carni”. Purtroppo, il peccato di gola gli costa una zampa visto che, con un colpo di mascella, Renart gli stacca una coscia.

Ma dove annida la causa del ribaltamento di prospettiva? Come spiegarsi che, nel corso della Storia, il sentimento nei confronti del corvo sia passato da una gran considerazione per le sue capacità cognitive a un profondo disprezzo per il suo comportamento necrofago? Beh, una ragione al radicale cambiamento di status del corvo c’è … e si chiama “cristianesimo”. Andiamo a curiosare.    Continua…

                                                           Joëlle

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